Raccontare il femminismo in Ghana

Se l’afrofemminismo è pressoché sconosciuto in Occidente, la prospettiva di alcune grandi scrittrici del Ghana può aiutare a esplorarne le caratteristiche principali. Il Ghana, paese dell’Africa occidentale, si contraddistingue nella storia politica del continente per essere stato il primo paese a riconquistare l’indipendenza dall’impero britannico nel 1957.
Prima però, credo sia importante concentrarsi sulle caratteristiche del femminismo africano, per poter comprendere meglio il contesto in cui le donne ghanesi si mobilitano e lottano. Secondo Amina Mama, scrittrice e accademica femminista nigeriana-britannica a capo del corso di Studi di Genere e direttrice dell’African Gender Institute all’Università di Cape Town in Sudafrica, l’afrofemminismo “segnala il rifiuto dell’oppressione, e un impegno a lottare per la liberazione delle donne da ogni forma di oppressione – interna, esterna, psicologica ed emotiva, socio-economica, politica e filosofica”.
Da un lato, significa quindi affrontare il tema dell’autodeterminazione delle donne nere africane non solo sul continente, ma anche della diaspora. Questo termine indica le persone con origini africane che vivono fuori dal continente. Come nel mio caso, la distanza geopolitica non cancella necessariamente il legame culturale e identitario con il continente e le specificità dell’esperienza femminile nera. Tuttavia, il contesto non può essere trascurato: le diverse realtà vissute sono legate alla società, alle condizioni economiche e politiche, alla storia dello stato considerato (come dimostra Patricia Hill Collins con il concetto di “matrice di oppressione”). Dall’altro, afrofemminismo vuol dire partire da una prospettiva decoloniale (Françoise Vergès ne parla in Un femminismo decoloniale). Nonostante questi tratti comuni, a giustificare l’uso del termine-ombrello “afrofemminismo”, l’esperienza femminista africana non è monolitica e definibile entro categorie fisse, al contrario di come può apparire in Occidente e agli occhi dei movimenti femministi europei.
Eterogeneità, fluidità e unicità sono elementi chiave. In questo caso, decolonizzare il femminismo significa adottare una prospettiva afrocentrica. Una prospettiva che si distanzia dal paradigma eurocentrico, decostruisce e supera i retaggi coloniali, riconosce la validità dei saperi e delle pratiche africane, porta avanti un’analisi multidimensionale dell’oppressione basata sull’interconnessione delle categorie di razza, genere e classe. Un femminismo incentrato sulle donne nere africane (recentemente analizzato da Sylvia Tamale in Decolonization and Afro-Feminism).
Le femministe africane hanno dunque compreso che per uscire dalla categorizzazione limitante ed eurocentrica è fondamentale un processo di critica, ridefinizione e auto-rappresentazione non solo politico, ma anche intellettuale. Questo processo si manifesta nelle teorie, nella ricerca, nella resistenza quotidiana collettiva e personale, e ha i suoi dispiegamenti nei vari aspetti della produzione culturale. Patricia McFadden, sociologa e scrittrice femminista radicale, sottolinea l’aspetto essenziale del discorso intellettuale nella pratica di resistenza femminista, del genere come “strumento femminista di pensiero”, della necessità di adattare le strategie di mobilitazione e del peso della contemporaneità. Il campo della letteratura si presta particolarmente bene a osservare questo tipo di pratiche e di esperienze: la letteratura femminista ghanese amplifica le storie e le voci delle donne africane nella rivendicazione di spazio, diritti e visibilità, mostrandone al tempo stesso le peculiarità stilistiche. Per ragioni di spazio, parlerò solo di alcune tra le scrittrici ghanesi più importanti. Nonostante i contesti, l’età e le esperienze diverse, la volontà di esplorare le sfaccettature delle realtà vissute dalla donne africane è l’elemento che accomuna queste autrici.
Ama Ata Aidoo (1942) è anche drammaturga e poeta. Le protagoniste dei suoi libri sfidano i ruoli di genere del loro tempo, come nello spettacolo Anowa, affrontano la maternità come Esi in Changes: A Love Story e si scontrano con le difficoltà della vita in Europa come Sissie in Our Sister Killjoy. Per Aidoo il femminismo è “un modo per guardare il mondo” e l’istruzione uno strumento chiave per l’emancipazione femminile. Per questa ragione ha creato nel 2000 la Mbaasem (Parole delle donne) Foundation, una ong con lo scopo di promuovere il lavoro di scrittrici ghanesi e africane, consapevole del potere sovversivo della produzione artistico-letteraria, e di come sia difficile per una donna ghanese e africana trovare il tempo e lo spazio per scrivere.
Nana Darkoa Sekyiamah è anche blogger, attivista femminista e coordinatrice del gruppo Fab Fem nella capitale Accra. Riconoscendo l’importanza di uno spazio sicuro per esplorare la propria sessualità e confrontarsi, co-crea il pluri-premiato blog “Adventures from the Bedrooms of African Women” e pubblica il libro The Sex Lives of African Women. Il risultato di oltre sei anni di interviste con più di 30 contributi da persone nere e afro-discendenti dal continente africano e dalla diaspora in Europa, le Americhe e i Caraibi. Nel libro emerge la diversità e la rilevanza delle esperienze sessuali vissute dalle donne africane, l’importanza della possibilità di raccontarsi e dell’autodeterminazione anche sui propri corpi. Infatti, Sekyiamah afferma che “le donne africane hanno bisogno di spazi sicuri per scoprire e condividere conoscenze sulle diverse sessualità”.
Anche Taiye Selasi (1979) si è affermata come figura cardine della scena letteraria femminista ghanese. Ha esordito con il racconto La vita sessuale delle ragazze africane per la rivista “Granta”, affrontando con maestria il tema della violenza di genere nella famiglia. Attraverso gli occhi di Edem, una bambina di 11 anni, il racconto esplora come tre generazioni di donne africane possano essere intrappolate nella sottomissione. Allo stesso tempo, emerge anche la scoperta della forza nelle scelte delle donne. Il suo romanzo di debutto La bellezza delle cose fragili, sulle vicende di una famiglia africana negli Usa, rispecchia come Selasi si identifichi come “afropolitan”. Un termine coniato dalla scrittrice per indicare come l’eredità culturale africana si mescola con quella del resto del mondo, evidenziando la dimensione globale delle storie.
Yaa Gyasi (1989) con il suo romanzo Homegoing racconta il peso della tratta atlantica e della schiavitù attraverso gli occhi delle due sorelle ghanesi Effie ed Esi. L’intreccio tra i rapporti familiari, l’oppressione di genere affiancata al razzismo e le conseguenze nel corso del tempo fino ai giorni nostri rende questo libro una lettura potente sul “significato di essere una donna nera oggi negli USA”. Anche il suo libro più recente, Transcendent Kingdom, affronta il rapporto tra passato e presente dalla prospettiva della protagonista Gifty e tracciando i confini dei legami geografici e storici tra Ghana e Stati Uniti. L’esperienza personale della scrittrice, nata in Ghana e cresciuta in Alabama, e la storia nazionale del Ghana si intrecciano nelle storie che crea. Infatti, nella storia della diaspora africana, il movimento volontario e quello involontario di africani e discendenti di popolazione ghanese arriva nelle Americhe a causa della tratta atlantica, mentre emigra in Africa e all’estero per ragioni economiche, politiche, sociali e di istruzione.
Nana Oforiatta Ayim oltre a scrivere, è un’acclamata storica dell’arte e cineasta. Nel suo primo romanzo The God Child racconta la storia di Maya, una giovane ragazza ghanese in Germania impegnata a trovare la sua libertà nonostante i limiti familiari, culturali e politici. Il tema della migrazione delle famiglie ghanesi viene esplorato attraverso la storia di formazione di Maya, in una sorta di eco della vita di Ayim, cresciuta tra Germania, Inghilterra e Ghana.
L’intersezionalità permette di capire come le diverse lotte contro il razzismo e il capitalismo, per la giustizia sociale, l’autodeterminazione, l’equità e la tutela dell’ambiente siano collegate e inseparabili.
Questa sommaria panoramica sulla letteratura femminile e femminista ghanese permette di osservare nel concreto il dispiegarsi della narrazione della diaspora, così come della realtà quotidiana delle lotte emancipatorie e degli sforzi femministi dei gruppi di attiviste ghanesi. Un altro elemento chiave nella produzione di queste autrici e che permette di comprendere la complessità della lotta femminista e dell’esperienza della donna nera e africana è la coscienza (e la presenza) dell’intersezionalità. Questo concetto è stato creato dalla giurista, accademica e attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw alla fine degli anni Ottanta, e indica la simultaneità e sovrapposizione delle oppressioni vissute. Partendo dalle principali categorie di genere, razza e classe (non a caso riprese nel titolo di Donne, razza e classe di Angela Davis, testo pionieristico del femminismo intersezionale) si analizza l’intersezione di diversi aspetti come l’età, le possibili disabilità, l’istruzione, la religione, l’orientamento sessuale e lo status geo-politico (come lo status di rifugiato), i quali vanno a determinare i molteplici piani di oppressione di una persona all’interno di una determinata società.
L’intersezionalità permette di capire come le diverse lotte contro il razzismo e il capitalismo, per la giustizia sociale, l’autodeterminazione, l’equità e la tutela dell’ambiente siano collegate e inseparabili. Seguendo uno schema analogo, la varietà di storie raccontate dalle diverse scrittrici offre altrettante interpretazioni dell’esperienza femminile e femminsita ghanese sul continente o nella diaspora.
Ancora una volta, la letteratura si dimostra terreno fertile per lo sviluppo, la materializzazione, la divulgazione e la comprensione della lotta femminista, in particolare nella decostruzione degli stereotipi e delle norme di genere, nell’affrontare l’intersezionalità delle dimensioni di sessimo, classismo e colonialismo. Allo stesso modo, la letteratura, insieme alle pratiche di scrittura creativa femminista, permette di allargare il campo della teorizzazione femminista, dimostrando come l’azione di narrare rappresenti anche uno spazio per l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne africane. La forza e la vulnerabilità dell’espressione femminile si manifesta, secondo l’accademica nigeriana-americana Obioma Nnaemeka, “nel modo in cui (le donne) dicono la loro verità”.
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