Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Quel che resta dei cattolici

8 Giugno 2013
Marco Marzano

Quel che resta dei cattolici, pubblicato da Feltrinelli la scorsa primavera, è il risultato di un’inchiesta in profondità, di un lungo viaggio solitario nel cattolicesimo italiano. Guidato da una mappa all’inizio composta di poche tracce appena accennate, poco più di un’intuizione, e che via via si è precisata, ho incontrato centinaia di persone in ogni angolo d’Italia. Mi sono recato ovunque vi fosse qualcuno che ho sperato mi consentisse di capire meglio che cosa sia e dove vada il cattolicesimo italiano. Ho, durante tutto il mio itinerario, rigorosamente cercato di evitare le “alte sfere”, i palazzi del potere, le risposte ufficiali, i giudizi paludati, le cautele curiali, la circospezione dei potenti. Ho prediletto i “quartieri popolari” del cattolicesimo, ho preferito guardare la Chiesa italiana “dal basso”, ascoltare la voce, spesso sincerissima perché di chi nulla aveva da temere da un’indagine come la mia, di coloro che “fanno la Chiesa” o piuttosto che “sono la Chiesa” in Italia: nelle metropoli e nelle campagne, tra le fila del clero e tra quelle dei laici, tra le schiere dei conservatori e quelle dei progressisti, tra coloro che lamentano la smarrita autorevolezza sacrale dei presbiteri e la crisi del clericalismo e quegli altri che invece patiscono l’involuzione conservatrice e rimpiangono lo spirito del Concilio.

In generale, ho trovato un mondo che, pur segnato da una crisi e da uno smarrimento profondi, è tuttora vivo, ricco di energie, di risorse umane e spirituali e, quel che più conta per rimanere appunto ‘un mondo’, è ancora oggi animato dal desiderio di tanti suoi affiliati di “stare insieme”, di confrontarsi, di partecipare ad imprese comuni, di non rinunciare ad agire, ad ogni livello, come soggetto collettivo, di evitare la solitudine dell’individualismo.

Sono tornato dal viaggio con tre istantanee, che coincidono con i risultati a mio giudizio più significativi delle tre parti in cui è diviso il libro.

Il banco vuoto

La prima istantanea è quella di un “banco vuoto”, ovvero di un Paese sempre più secolarizzato, in costante allontanamento da quella che è stata per secoli la “sua” Chiesa. Sì, è vero: l’Italia non assomiglierà alla laicissima Francia, o alla scristianizzata Germania o all’Inghilterra del “credere senza appartenere”; ma a me sembra fuor di dubbio che si tratti solo di una questione di grado, di intensità e di rapidità dei mutamenti sociali, di differenti velocità assunte dal processo di secolarizzazione. In altre parole, sono convinto che, forse più lentamente e con significative differenze regionali (Cartocci 2011), anche il nostro Paese stia seguendo la grande corrente europea della deistitituzionalizzazione religiosa, del distacco di massa dalle appartenenze tradizionali, del bricolage spirituale, della “soggettivizzazione e polverizzazione delle credenze”.

Lo testimoniano alcuni parametri quantitativi: ad esempio, la diminuita frequenza alla messa, il calo dei matrimoni in generale e il crollo di quelli religiosi in particolare, il numero di figli nati all’esterno di quel vincolo istituzionale (il 20 per cento nel 2009 rispetto al 2 per cento del 1966, secondo Cartocci 2011), “l’interruzione della catena della memoria credente” (Hervieu-Léger 2003), e cioè il diminuito affetto per la Chiesa da parte delle generazioni più giovani e soprattutto delle ragazze, da sempre anima e corpo della vita delle parrocchie. Oltre ai numeri, lo confermano i dati qualitativi che ho raccolto nel corso del mio viaggio: la crisi delle “confessioni”, l’insignificanza del clero nei luoghi della sofferenza e della morte, la “stanchezza” delle parrocchie e dell’associazionismo tradizionale.

L’impressione che ho avuto studiando la Chiesa in questi anni è stata quella di trovarmi di fronte a un impianto istituzionale ridotto come un immenso edificio ancora sostanzialmente integro nella facciata, con al più qualche breccia nei muri, qualche crepa profonda qui e là nell’intonaco, al cui interno siano però già all’opera i demolitori, dal cui immenso portone schiere di operai portino fuori grandi masse di detriti, ai cui tanti piani, un giorno sì e uno no, crolli una parete, si dissolva un pavimento. Un palazzo ancora densamente popolato, ma da un numero sempre più ridotto di incanutiti inquilini, compresi quelli dei piani nobili che, circondati dal lusso soffocante dei loro appartamenti, non sentono nemmeno, o dolcemente rimuovono, i lamenti che provengono dagli abitanti delle soffitte e degli abbaini.

Giunti a questo punto, qualcuno potrebbe ragionevolmente obbiettare: “ma non è forse sempre stato così? Non è universalmente noto che quello italiano è un popolo probabilmente di poca fede, nel quale non abbondano i credenti appassionati, ma che in fondo rimane tanto affezionato alla “sua” Chiesa Cattolica, soprattutto nei “momenti che contano”: l’educazione morale dei figlioli, i riti di passaggio, eccetera?” È la vecchia tesi di Gramsci sulla superficialità del sentimento religioso degli italiani. Franco Garelli aveva coniato qualche anno fa (1996), per il titolo di un suo libro, un’espressione che sintetizza bene questo punto di vista: “forza della religione, debolezza della fede. ” Ecco, in Italia non è forse debole la fede ma forte la religione?

È un’obiezione certo sensata ma secondo me non fondata. Nutro già molti dubbi sul fatto che davvero sia stato così in passato, ma quello che mi sembra si possa dire per certo per l’oggi è che viviamo in un’epoca nuova: l’età dell’autenticità. Nell’età dell’autenticità, non c’è religione forte se la fede è debole, perché la natura degli obblighi morali si è trasferita dall’esterno all’interno degli individui, dalla società alle coscienze. Chi oggi è disposto, e forse ancor più chi lo sarà domani, a osservare un precetto perché ‘si è sempre fatto così’, perché lo impone la tradizione, per rispettare una consuetudine che si avverte come puramente estrinseca, per mero conformismo, per soddisfare un’aspettativa sociale? Scrive Taylor (2009) che “[…] Appare assurda oggi l’idea di aderire ad una spiritualità che non si presenti come la tua via, la via che ti motiva e ti ispira. Rinunciare a sé stessi è una cosa che non fa più nessuno. La gente comincia a pensare che se non va a messa non succede niente di male a sé e al mondo e quindi ci va solo se trova qualcosa di significativo.”

Questo è il punto: non è detto che la nostra epoca sarà quella della “morte di Dio”, dell’eclissi della fede e della credenza in un essere superiore, come sostengono molti esponenti del paradigma classico della secolarizzazione (Wilson 1982, Bruce 2002, Dobbelaere 1981). Quel che mi sembra indiscutibile è però il fatto che, per potersi radicare nei comportamenti quotidiani, nella prassi, questa fede debba essere percepita come autentica da chi la prova, debba diventare patrimonio davvero intimo di coloro che la professano o che la ricercano. È questo il motivo che rende sempre più inattuale e anacronistico il contenuto della tradizione religiosa, della fede dei padri, nel caso dell’Italia, del cattolicesimo e di tutto il suo apparato simbolico-rituale. Può darsi che ci voglia ancora un po’ di tempo perché, nelle nostre società, il principio dell’autenticità sbaragli del tutto il conformismo ritualista ereditato dal passato, ma la direzione mi sembra ormai chiaramente intrapresa. E in modo univoco. Lo dimostra la velocità con la quale i giovani si allontanano dalla Chiesa ma lo conferma anche il dilagare delle sette, cioè di un cattolicesimo di nuovo tipo, decisamente non tradizionale.

Dunque questa è la situazione con la quale la Chiesa è chiamata a confrontarsi nel nostro Paese. Uno stato di cose che non ha ovviamente risparmiato, in altre forme, con intensità variabile da caso a caso e massima nel caso dell’Italia, praticamente tutte le altre istituzioni “moderne”: la scuola, l’università, i partiti politici, i sindacati, la famiglia.

Il fortino assediato

Come ha reagito, nell’ultimo mezzo secolo, e come tuttora reagisce la Chiesa italiana a questo gigantesco scossone, a questo imponente processo di mutazione sociale, a questo passaggio d’epoca? Qui l’istantanea che mi è venuta alla mente, la seconda del mio elenco, è quella del “fortino assediato”, della resistenza ad oltranza. Che, in buona sostanza, riguarda l’intera Chiesa cattolica, non solo quella italiana.

Nel complesso, a me pare che la struttura ordinaria della Chiesa mescoli elementi di feudalesimo con altri che richiamano più da vicino la forma più pura di organizzazione burocratica: quella militare degli eserciti. Il parroco cattolico è infatti ancora oggi, in casa propria, tra le mura amiche della sua chiesa, un potente signorotto, un principe quasi assoluto, libero di decidere, senza troppi condizionamenti da parte della ‘base’, quali indirizzi pastorali adottare, quali collaboratori selezionare, chi e cosa ammettere o escludere dal suo cortile, come spendere il denaro a disposizione della sua organizzazione. Al tempo stesso, il sacerdote è e rimane un funzionario ecclesiastico, il membro di un apparato burocratico ipergerarchizzato, alla cui disciplina egli è stato formato nei lunghi anni di seminario e che da lui pretende obbedienza incondizionata, potendo ad esempio decidere in un attimo, e per esigenze indiscutibili, di trasferirlo, senza il suo consenso, ad un altro incarico.

Negli ultimi tre decenni o poco più, e cioè dall’elezione di Karol Wojtyla al soglio di Pietro, entrambi gli elementi, quello feudale e quello burocratico, si sono accentuati nel corpo della Chiesa, a detrimento di quelli democratici e partecipativi. La Chiesa cattolica italiana è cioè diventata, al tempo stesso, più monarchica e più militaresca. A Roma così come in periferia. Sul primo versante, quello feudale, all’accentuato cesarismo papale ha fatto eco un’accresciuta autonomia del clero di base. Il motivo è presto detto: il crollo delle vocazioni al sacerdozio ha reso la disponibilità a farsi prete una merce sempre più preziosa e rara per un’organizzazione che non vuole riformarsi e ha di conseguenza obbligato la gerarchia ad usare, sia durante il periodo di formazione nei seminari sia in quello successivo, una maggiore tolleranza verso comportamenti scorretti o immorali dei preti; non solo ‘passando sopra’ a tante deviazioni, ma spesso ‘coprendole’ con una complicità al limite della connivenza. Oggi, più di ieri, vista la loro scarsità, perdere un funzionario è un danno che l’organizzazione cerca in ogni modo di scongiurare.

Al tempo stesso, e qui sta il trionfo del centralismo burocratico, a ogni livello nella Chiesa, è dilagata la repressione sistematica di ogni forma di dissenso, nel tentativo disperato di annullare tutte le differenze, di ridurre la Chiesa a un monolite inespressivo, a un moloch con una sola voce. Un’operazione in un certo senso davvero riuscita laddove si costati la perfetta omologazione dell’episcopato agli indirizzi conservatori prevalenti nella curia romana e la rarità di posizioni critiche all’interno del corpo ecclesiale.

Ma anche al di sotto dei vertici supremi, le cose non vanno meglio quanto a pluralismo e libertà di espressione. Gli atteggiamenti più comuni alla base della Chiesa, con l’eccezione di quelli di qualche coraggioso contestatore solitario, sono quelli diffusi in tutte le dittature: nessuna critica esplicita e diretta viene mossa al Papa o alle gerarchie, semmai qui e là, nei testi, compare qualche aggettivo un po’ meno scontato, un verbo allusivo, spie di un malessere che non può che rimanere implicito se chi lo esprime non vuole subire pesanti ritorsioni. Per il resto, un brusio incessante di critiche sferzanti e di lamentazioni accorate nei corridoi e nei sottoscala. Come nelle dittature appunto.

Un quadro, quello che ho descritto, rafforzato dall’azione dei mezzi di comunicazione di massa, i quali, da un lato, alla continua ricerca di ‘personaggi’ e di ‘eventi’ notiziabili, esaltano il protagonismo pontificio e la spettacolarità clamorosa dei grandi happening di massa (Family Day, Giornate Mondiali della Gioventù, eccetera), dall’altro omettono del tutto di raccontare il ‘paese reale’, quello delle parrocchie e dei movimenti. In questo modo aiutando la dittatura a perpetuarsi.

E tuttavia, quella cattolica, come ogni società, è popolata da persone intelligenti, attive e razionali; pertanto, anche in questo scenario caratterizzato da un rigidissimo immobilismo istituzionale, si producono cambiamenti e innovazioni. Che ovviamente non ottengono riconoscimento pubblico, che rimangono costantemente sotto traccia, invisibili ai più. Come la proliferazione di parroci ‘carismatici’ che “plasma una comunità in una vera chiesa autocefala, con rituali propri, parole d’ordine riservate e canoni non scritti” (Melloni 2004). Un altro riflesso della crisi che affligge il cattolicesimo tradizionale, conseguenza di un cambiamento che equipara la normalità alla stagnazione: in una chiesa ancora così clericocentrica, per prosperare una parrocchia deve ormai essere guidata, soprattutto nelle aree più secolarizzate, da un pastore eccezionale, creativo, talentuoso proprio perché privo di quelle stampelle di potere, cultura e visibilità che ne sostenevano un tempo il ruolo (Melloni 2004).

Il piccolo porto sicuro

E tuttavia i cambiamenti non riguardano solo le parrocchie. La più grande trasformazione che ha investito la Chiesa italiana è rappresentata dall’ascesa dei movimenti ecclesiali, dalla proliferazione delle “sette cattoliche”. È questa in definitiva la grande novità della chiesa del post-concilio, l’innovazione duratura che sta cambiando la fisionomia e il volto del cattolicesimo italiano. È la terza istantanea della mia indagine: quella del “piccolo porto sicuro”, del luogo riparato e isolato nel quale trovare salvezza da un mare in tempesta. In una comunità protettiva ma al tempo stesso soffocante e conformista.

Ci sono molte “buone ragioni sociologiche” che spiegano l’avanzata delle sette nelle società moderne, all’interno come all’esterno della Chiesa cattolica. In primo luogo, le sette sono molto più adatte rispetto alle “chiese” a operare in una società secolarizzata, dove il pluralismo religioso è un dato di fatto indiscutibile. Perché le sette, al contrario delle chiese, non hanno ambizioni egemoniche, non pretendono di rappresentare valori universali, non propongono modelli di società ai quali l’intera popolazione debba aderire. Ciò che sta a cuore a chi le guida, è che i partecipanti possano vivere, al loro interno, un’esperienza “autentica”, cioè percepita come tale, e “profonda”, talvolta anche emozionante e che, in ogni caso, li riguardi personalmente, che coinvolga le loro vite, che metta in gioco le loro biografie. È la logica terapeutica dell’auto-aiuto, diffusa ormai in un numero impressionante di ambiti sociali, compresi ovviamente quelli religiosi, non solo cattolici. Ed è una delle manifestazioni della “cultura della terapia” di cui ha parlato Frank Furedi, nella quale vengono sviliti i tradizionali valori illuministi e progressisti dell’autocontrollo e della fiducia in sé stessi per fare spazio a quelli della dipendenza emotiva e della disponibilità a considerarsi vulnerabili e bisognosi d’aiuto (Furedi 2008).

Da questo punto di vista, il più noto dei movimenti cattolici, Comunione e Liberazione, sembra appartenere a una generazione precedente, quella diciamo “sessantottina”, nella quale il privato si mescolava ancora (e in dosi massicce) con il politico, l’auto-aiuto interno con la militanza esterna, generando un impegno e una mobilitazione organizzati, implicando una presenza esplicita dell’organizzazione sulla scena pubblica. Le sette della generazione successiva, i catecumenali, i carismatici e altre, hanno un imprinting diverso, sono interessate a costruire e alimentare un vincolo comunitario destinato a rimanere invisibile alla pubblica opinione. Questi gruppi promuovono una partecipazione, per così dire, “post-politica”, nella quale si da per scontato, da un lato, che il mondo sia ormai divenuto troppo grande, complesso, globalizzato perché le associazioni volontarie siano davvero in grado di produrre qualche cambiamento reale, dall’altro, che gli strumenti con i quali un tempo si promuoveva il mutamento e si esprimeva la soggettività dei ceti popolari, su tutti il marxismo e la lotta di classe, siano ormai del tutto screditati e compromessi. Quel che allora resta da fare, quel che è ancora possibile, è concentrarsi sulla vita dei singoli, sulla “politica della vita” (Bauman 2011), cercare di cambiare almeno quella. E questo diventa l’obbiettivo concreto dell’attività delle nuove sette: “modificare l’esistenza dei propri membri attraverso la creazione di vincoli comunitari rigidissimi e di un brutale disciplinamento delle coscienze e dei comportamenti.” Quel che succede all’esterno del gruppo, ad altri che non siano i suoi adepti, importa poco e non è mai oggetto di interesse e di discussione. In questo modo, il mondo, la società, la Storia (quella con la S maiuscola) evaporano completamente, si annullano e dissolvono. E con loro svanisce anche la possibilità che l’ideologia del gruppo venga smentita o emarginata. In questo quadro, l’unico fallimento può derivare dalla diminuzione nel numero degli aderenti, dalla contrazione degli effettivi, dall’assottigliamento dei ranghi dell’organizzazione.

Quello che ciascuna delle sette propone è un metodo standard, facilmente esportabile ad ogni angolo del pianeta e soprattutto molto più semplice ed elementare rispetto alla tradizionale predicazione sacerdotale. E proprio per questo più “democratico”, più facilmente accessibile a laici che non possiedono neanche lontanamente un bagaglio di cultura teologica o filosofica paragonabile a quello del clero. Laici non più ridotti a scherani del parroco, a suoi collaboratori subalterni, a docile truppa. In altre parole, l’eliminazione delle complessità e di ogni sofisticatezza teologica, di ogni intellettualismo, la standardizzazione gergale e la semplificazione concettuale favoriscono l’apprendimento veloce di verità preconfezionate da parte di un pubblico di fedeli molto ampio. Portando però inevitabilmente con sé il fanatismo e il fondamentalismo di ogni lettura semplicistica e letterale dei testi biblici e del messaggio evangelico. La “mcdonaldizzazione” della fede non può che avvenire a discapito della virtù conciliare della mediazione, evaporata insieme all’esistenza stessa dell’interlocutore che la esigeva: il mondo esterno, la realtà storica.

Gli aderenti a movimenti come questi sono in ogni caso destinati a occupare nicchie molto ridotte dei sistemi sociali contemporanei (Wilson 1982), spazi quantitativamente residuali e assai circoscritti, per qualcuno gli unici ancora disponibili alla crescita della religione. Sono spesso le vittime della società dell’incertezza ad aderire a questi gruppi (Bauman 1999; Jenkins 2004, Wilson 1990), soggetti che, col dissolversi delle società tradizionali e con il trionfo di quella individualizzata della “libera scelta”, hanno iniziato una preoccupante discesa sociale e che ora avvertono una situazione di grave deprivazione relativa. Persone che, per qualche ragione, hanno perduto ancoraggi sicuri e identità solide e che sono pertanto oggi ansiose di riottenerli anche a costo di un forzato isolamento comunitario, dell’autoreclusione in uno spazio simbolico ridotto e marginale della vita sociale. Uno spazio nel quale però sia ancora possibile poter ricostruire, su scala ridotta e in forma quasi virtuale e metaforica, la fisionomia di quel mondo perduto (Hunter 1981). Che questa sia la trama dell’attività dei movimenti lo conferma la scarsissima rilevanza assegnata all’aspetto escatologico, al tema della salvezza ultramondana: la militanza nel gruppo non serve a garantirsi la vita eterna ma piuttosto a costruirsene una più decente su questa terra.

C’è però, giunti a questo punto, un altro quesito sociologicamente (e politicamente) interessante, che può essere formulato così: perché la Gerarchia cattolica ha acconsentito a che le sette penetrassero all’interno della Chiesa, perché un’antica e severa ierocrazia ha accettato la contaminazione con un settarismo che rischia, almeno sulla carta, di provocarne la frammentazione, di minarne l’unità e la compattezze interne? Le risposte non sono semplici.

In primo luogo, ha certamente pesato la secolarizzazione, lo svuotamento delle chiese, la crisi delle parrocchie e le difficoltà crescenti di raggiungere e mobilitare vasti segmenti di popolazione, soprattutto i più giovani. E la convinzione di poter parzialmente porre rimedio a questi problemi, grazie alle sette, senza mettere minimamente in discussione l’assetto organizzativo e la forma gerarchica della Chiesa, dal momento che i movimenti sono e rimangono articolazioni esterne, organizzazioni parallele che, per così dire, ampliano l’offerta spirituale cattolica, aggiungono un’opzione a quelle presenti, senza apparentemente minacciare la struttura principale, senza mettere in discussione la supremazia del clero e la marginalità dei laici nelle parrocchie e ai livelli gerarchici superiori. Se poi a questo si aggiunge il fatto che le sette producono anche un certo numero di vocazioni al sacerdozio e che soprattutto, in cambio di un riconoscimento così prezioso come quello che è venuto loro dal soglio di Pietro, sono dispostissime a giurare assoluta fedeltà al pontefice e a mobilitarsi in massa per riempire le piazze dei grandi raduni, del Family Day o delle Giornate Mondiali della Gioventù, le ragioni del patto diventano ancora più comprensibili.

Io credo che, vista dal punto di vista della Gerarchia, quello con i movimenti sia un patto nel quale i benefici sopravanzano largamente i costi: le sette cattoliche hanno accettato di condurre una vita separata ma all’ombra della grande istituzione, non avanzano fastidiose istanze di riforma né rappresentano una qualche minaccia teologica, svolgono la parte di utilissime truppe di complemento, risorse praticamente insostituibili nel caso di una futura chiesa senza preti o con tanto clero immigrato.

Con tutte loro la gerarchia si è divisa il lavoro: agli alti prelati spetta l’occupazione della scena pubblica, il rapporto con il Palazzo, con la politica e con gli altri poteri, la permanente esposizione mediatica; ai movimenti compete crescere nella società, conquistare adepti, resistere alla secolarizzazione, formare nuovo clero. In mezzo, stritolati dalla totale assenza di vie d’uscita dalla afasia e dall’immobilismo che hanno colpito la grande istituzione nell’impatto con la modernità, il clero, le parrocchie, il laicato “normale”: un patrimonio umano, culturale e spirituale destinato a un’estinzione forse lenta ma certo inesorabile. Che andrebbe di pari passo con l’eclissi di quelle funzioni civili, sociali, culturali e politiche che i gruppi religiosi possono svolgere in ogni comunità umana. Lasciando intatto della fede solo i lineamenti duri delle vecchie e nuove sette.

Opere citate

Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.

– (2011), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari.

Bruce S. (2002), God is dead. Secularization in the West, Blackwell, London.

Cartocci R. (2011), Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna.

Dobbelaere K. (1981), Secularization: A multi dimensional concept, in «Current Sociology», 2, pp. 1-21.

Furedi F. (2008), Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano.

Garelli F. (1996), Forza della religione, debolezza della fede, Il Mulino, Bologna.

Hervieu-Léger D. (2003), Il Pellegrino e il convertito, Il Mulino, Bologna 2003a

Hunter J.D. (1981), The New Religions: Demodernization and the Protest against Modernity, in B. Wilson, The Social Impact of New Religious Movements, Rose of Sharon Press, New York, pp. 1-19.

Jenkins P., (2004), La Terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi Editore, Roma.

Melloni A. (2003), (2004), Chiesa madre, chiesa matrigna, Torino, Einaudi.

Taylor C. (2009), L’età secolare. Feltrinelli, Milano.

Wilson B. (1982), Religion in Sociological Perspective, Oxford University Press, Oxford.

− (1990), The Social Dimension of Sectarianism. Sects and New Religious Movements in Contemporary Society, Clarendon Press, Oxford.

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