Quando Kerènyi mi distrasse da Jung. (auto)Intervista su un itinerario di ricerca

Questa sorta di “auto-intervista” è uno degli ultimi testi che Jesi ci ha lasciato. Qui egli risponde con ogni probabilità, ma rielaborandole sostanzialmente o spesso riscrivendole del tutto, ad alcune delle ventuno domande redatte soprattutto da Giuseppe Panella (come scriveva Domenico Corradini, allora direttore la rivista “Prassi e Teoria”) sotto il titolo Jung il mito e la storia – Intervista con Furio Jesi. Destinata al volume a cura dello stesso Corradini, Interpreti dell’inconscio, l’intervista è rimasta allo stato di frammento, ed è stata pubblicata solo nel 2007 nel supplemento “Alias” del quotidiano “il manifesto”, per essere poi inclusa, sei anni dopo, e sempre a cura di chi scrive, nella raccolta di saggi jesiani Il tempo della festa (Nottetempo).
Fedele alla massima kerényana “uomo, non dire mai ‘io’”, Jesi non amava il registro apertamente autobiografico e – come testimonia una lettera della primavera del 1976 (resa nota nel 2005 dal destinatario Gianni Venturi) – si trovava persino a disagio rileggendo le rare pagine in cui vi aveva anche provvisoriamente ceduto, certo per rispettare l’ordine del discorso ma anche finendo, così gli pareva, per “mettersi sul palcoscenico”. Qui, tuttavia, il contenuto biografico è tanto strettamente connesso alla considerazione e all’urgenza dei problemi teorici, e questi toccano così profondamente le esigenze vitali, da rendere superflue quelle strategie di elusione o dissimulazione del fantasma soggettivo, autoriale, di cui Jesi ha dato prova nei suoi saggi. Riflettendo sulla mitologia come linguaggio e collocando “il modello macchina mitologica” al centro del proprio laboratorio, il mitologo e germanista torna ai propri esordi di egittologo – che aveva pubblicato il primo saggio a quindici anni, in una rinomata rivista dell’Università di Chicago – ricorda i viaggi di ricerca, l’incontro col “magister” Károly Kerényi, quindi l’allontanamento dall’influenza junghiana, e si sofferma soprattutto sul proprio metodo di conoscenza per composizione, insieme originale e affine all’insegnamento di Walter Benjamin. Con l’improvvisa scomparsa di Jesi, il 17 giugno del 1980, sono rimasti incompiuti almeno due grandi progetti: un ultimo studio, appunto molto “benjaminiano”, che doveva intitolarsi Traduzione e duplicità dei linguaggi, e il “Salgari” a cui egli allude in queste pagine, ovvero la “traduzione annotata e commentata” del Matriarcato, di cui restano tuttavia testimonianze nell’edizione ultimata nel 1988 da Giulio Schiavoni e nel geniale Bachofen, pubblicato postumo nel 2005 da Bollati Boringhieri. Il modello della “macchina mitologica”, invece, era stato messo alla prova nello studio sulle mitologie dell’antisemitismo, L’accusa del sangue (ora Bollati Boringhieri) e in quello dedicato alla Cultura di destra (ora Nottetempo). Sono lavori che mostrano oggi tutta la loro attualità, sia di fronte alle teorie del complotto che, come i Protocolli dei Savi di Sion, fanno apparire l’inverificabile in una luce di veridicità (L’accusa del sangue), sia di fronte alla corrente riduzione del passato a una “pappa” indifferenziata di feticci negativi o positivi, cioè all’operazione più tipica della “cultura di destra”, fatta di parole con la maiuscola, animata da figure autorevoli o prestigiose, che pretende di occultare la realtà materiale (delle divisioni di classe, dei razzismi, dello sfruttamento) offrendo in cambio il bene di una verità assertiva (valore prezioso e degno della libertà individuale borghese) e di sciogliere le contraddizioni in un’insistente riduzione di ogni cosa a fascismo, ossia del fascismo a niente. (a.c.)
Il suo primo saggio, di più di vent’anni fa, è dedicato a un papiro ellenistico (“Notes sur l’édit dionysiaque de Ptolémée IV Philopator”, in Journal of Near Eastern Studies, Chicago 1956), e il suo primo libro è intitolato La ceramica egizia (Saie, Torino 1958). Lo studio dell’archeologia e delle civiltà antiche ha dunque costituito il momento iniziale del suo itinerario teorico. Come si può arrivare alla scienza del mito passando attraverso lo studio del mondo antico?
A suo tempo non mi ero certamente predisposto un programma calcolato che mi portasse dalla papirologia e dall’archeologia alla scienza del mito. È andata così, e non posso parlare che con il senno di poi, con il quale noto che molti di quei primi studi hanno contribuito a mettermi dinanzi agli occhi o nelle mani, a farsi leggere, toccare, misurare, materiali dai quali oggi si vorrebbe risalire ai loro produttori e alla cultura di quelli.
La scienza del mito, come io la intendo, si trova in una situazione analoga: disponiamo di “materiali mitologici” soppesabili, fotografabili, suscettibili di analisi filologica; del mito non solo non sappiamo nulla, ma dichiariamo per coerenza logica di non potere saper nulla. L’archeologo circoscrive uno spazio nel quale potrebbe anche essere esistita una certa cultura, ma non è in grado di mettere piede entro quello spazio; il mitologo circoscrive un meccanismo che potrebbe anche essere fatto muovere dal mito, ma non è in grado di affermare che il mito esiste.
Occuparmi di archeologia ha voluto dire anche viaggiare – in Grecia, in Turchia, in Egitto, o nei depositi dei musei. Questo viaggiare, e talvolta risiedere a lungo in “terre antiche”, ha significato ripetere – ma ribaltandola nel suo esatto opposto – l’esperienza dei viaggiatori settecenteschi: viaggiare per imparare a non conoscere il mondo e per collezionarne frammenti che non rinviano a nulla se non a se stessi, “materiali mitologici”, Bachofen avrebbe detto “simboli riposanti in se stessi”.
In che consiste, secondo lei, la differenza tra scienza del mito e scienza della mitologia? E in particolare come lei concepisce la scienza del mito?
Se per mito intendiamo il quid, alla cui esistenza la macchina mitologica allude come a quella del suo presunto motore immobile, e per materiali mitologici i prodotti storicamente verificabili della macchina, la scienza del mito è una tipica scienza di ciò che storicamente non c’è, mentre la scienza della mitologia è lo studio dei materiali mitologici in quanto tali. La scienza del mito, nella mia prospettiva, tende ad attuarsi come scienza delle riflessioni sul mito, dunque come analisi delle diverse modalità di non-conoscenza del mito. La scienza della mitologia, per il fatto di consistere nello studio dei materiali mitologici “in quanto tali”, tende ad attuarsi innanzitutto come scienza del funzionamento della macchina mitologica, dunque come analisi della interna e autonoma circolazione linguistica che rende mitologici quei materiali. Uso la parola mitologia per indicare, appunto, tale circolazione linguistica e i materiali che la documentano.
Da Letteratura e mito (Einaudi, Torino 1968) a Materiali mitologici (Einaudi, Torino 1979), lei ha ricordato l’influenza diretta di Károly Kerényi sulla sua formazione di studioso di mitologia. Quale ritiene che sia la parte piú viva della produzione di Kerényi, e quale aspetto di essa rimane il piú importante per l’attività teorica che lei svolge attualmente?
La produzione di Kerényi ha una sua fondamentale compattezza di contraddizioni che ne garantisce la vitalità. Nel precisare ciò che credo di avere maggiormente imparato da lui, devo ricollegarmi alla risposta precedente. Considerare la mitologia una interna e autonoma circolazione linguistica, peculiare di determinati materiali, significa da parte mia collocarmi al di fuori di correnti importanti e forse prevalenti della linguistica contemporanea, per le quali i cosiddetti materiali mitologici sono unicamente testi cui si attribuisce la qualifica “mitologici” solo perché, con un errore di metodo, si rimane ipnotizzati da una delle loro innumerevoli possibilità di lettura, e quella si privilegia come se disponesse di una sua intrinseca oggettività. Tale “errore di metodo” mi deriva da Kerényi e dalla sua antropologia che, almeno da questo punto di vista, condivido. Non credo nell’esistenza del mito (uso la parola “credo” nel senso più forte, poiché si tratterebbe propriamente di un atto di fede); sono invece convinto che per me, oggi, il modo migliore di collocarmi di fronte ai meccanismi e alle produzioni miei e degli altri, antichi o contemporanei, consista nel riconoscere in alcune di quelle proposizioni un linguaggio non riducibile ad altri, assolutamente autonomo, “riposante in se stesso” (Bachofen), dotato di alcune caratteristiche definibili con approssimazioni estremamente vaghe se – com’è inevitabile per definirle – si ricorre ad altro linguaggio.
Da questo risulta che continuo a considerare appropriata l’analogia kerényiana fra la mitologia e la musica, e che ho accentuato (o almeno reso piú esplicito di quanto Kerényi ritenesse opportuno) il criterio kerényiano secondo il quale ogni produzione in questo campo è davvero scientifica se la critica – nel senso kantiano della parola – che vi si attua è innanzitutto autocritica. Da Kerényi ho imparato la possibilità di avvertire il peso della mitologia, la necessità interna ai materiali mitologici, senza per questo dover credere al mito come a un quid che “è dinamico, ha un potere, afferra la vita e la plasma” (W.F. Otto). E inoltre: il senso della distanza nei confronti della mitologia o delle mitologie degli antichi (“C’è ancora molto che separa la brocca dall’orlo del calice”), che però non riduce la seguente consapevolezza: quell’oggetto lontano ci riguarda intimamente e personalmente. Non ritengo di conoscere la mitologia di antichi o moderni; ritengo che la scientificità del mio approccio ai materiali mitologici e alle riflessioni sul mito consista innanzitutto nell’arbitrio esistenziale sotteso nelle parole “per me, oggi, il modo migliore di collocarmi di fronte…”.
Una domanda a bruciapelo: quale l’influenza dell’opera di Jung su di lei? E ancora: ci sono delle parti delle opere di Jung dalle quali sente di poter trarre qualche lezione metodologica e anche qualche cosa di più di una lezione metodologica?
Quando ho cominciato a studiare materiali mitologici, simboli, prove metodologiche di scienza del mito, alla fine degli anni Cinquanta, i testi di Jung mi emozionavano moltissimo, piú di quelli di Kerényi. “Inconscio collettivo”, “archetipo”, “mandala”, mi sembravano parole di sapienza. Nel 1957, durante il periodo trascorso nel monastero della Trasfigurazione, alle Meteore della Tessaglia, per tentare di studiare il neoplatonismo in rapporto con la religiosità greco-ortodossa, avevo portato con me i libri di Frobenius e di Propp, tra i quali cercavo di eliminare le contraddizioni grazie a Jung. I miei primi scritti in questo ambito (“Le connessioni archetipiche”, in Archivio internazionale di etnografia e preistoria, 1958; “Sul fatto miracoloso”, ivi, 1959) sono per molti aspetti junghiani, anche se fin da allora provavo un certo disagio verso l’“archetipo” come forma in cavo di una figura a tutto tondo, e cercavo di rimediarvi con il modello delle “connessioni archetipiche”: costanti – direi oggi – linguistiche, norme obbligate della composizione anziché figure organiche di una galleria di ritratti.
Poi, a poco a poco, Kerényi è divenuto il magister e, da quando ho cominciato a conoscerlo di persona, a studiarlo con speciale partecipazione, mi ha portato sempre più lontano da Jung. Quelle stesse “connessioni archetipiche” che, con la vocazione moralistica dei 16-17 anni, giudicavo “valori” gnoseologici, sono diventate una sorta di indecenza emozionale – come andare nudi per la strada – che non sta bene dire e fare, anche se non si può fare a meno di metterla in conto quando si scrive il proprio autoritratto.
In seguito le cose si sono vieppiù complicate: mi piace, non mi piace, non mi sento di dire che mi piace o non mi piace. Oggi come oggi, dico che di Jung mi piace poco tutto ciò che implica “Io so…”. Non perché non si possa dirlo senza essere persone dabbene, ma perché è un po’ un pasticcio.
Dal 1969 lei sta lavorando a un’ormai “mitologica” prima edizione italiana del Mutterrecht di Bachofen, che uscirà da Einaudi. Ci vuol dire che cosa ha rappresentato e rappresenta per lei Bachofen?
Per cavarmela con una boutade, potrei rispondere che Bachofen è da molti anni il mio Salgari. Certo, la maggior parte della produzione di Bachofen costituisce uno splendido romanzo mitologico. Là c’è scrittura, e quel gusto del conoscere per composizione che W. Benjamin ha celebrato con le parole “una profezia scientifica”. Non c’è, in Bachofen, la consapevolezza di veggenza che gli è stata attribuita nei primi decenni del Novecento dalla destra della Bachofen-Renaissance, ma piuttosto sicurezza patrizia (e anche umore tetro) nel comporre a proprio impegnato e solitario arbitrio i materiali innumerevoli della propria collezione. Nel Saggio sul simbolismo funerario degli antichi quei materiali sono innanzitutto apprezzati come “simboli riposanti in se stessi”. Nel Diritto materno, con un procedimento peculiare del romanzo storico (che è per sua natura romanzo mitologico), la prassi compositiva determina due processi: il mondo-collezione dei simboli riposanti in se stessi è chiamato in giudizio grazie alla presenza di testimoni che sono le categorie logiche del diritto, identificate con le strutture di conoscibilità della storia; la conoscibilità – per strutture giuridiche – della storia è chiamata in giudizio dal peso di una collezione di simboli che, per il fatto d’essere arbitrariamente ordinata dal giudice in un dato modo, acquista appunto un peso specifico.