Quando ci si avvicina troppo si capisce meno

“Avvicinandosi troppo, si rischia di perdere il senso del generale”. Può non piacere sentirselo dire (a me non piacque), ma è così. Eppure avvicinarsi è fondamentale per un giornalista. Non si scattano buone foto, né si raccolgono storie da lontano. Bisogna andare, vedere, ascoltare. In questa contraddizione si gioca la posizione del testimone con dovere di cronaca: mantenere la distanza aiuta a capire, ma avvicinarsi è un dovere deontologico.
Per fortuna la Storia la scrivono gli storici, non i fotografi. Per farlo bisogna mettere in fila i fatti, analizzare documenti e verificare le fonti, con metodo scientifico. Ogni testimonianza va maneggiata con cura. In ogni guerra i ruoli possono invertirsi, in alcuni episodi, e la narrazione chi si è confrontato con il dolore delle vittime può essere influenzata dall’impatto emotivo.
Ho seguito le guerre che hanno provocato la fine della Federazione Jugoslava dal 1991 al 2001. Mi sono avvicinato più che ho potuto, consapevole del fatto che essere sul posto è la ricchezza e il limite di ogni giornalista. Guardare negli occhi i protagonisti fa la differenza. Sia che si tratti di profughi costretti a lasciare la loro casa, o combattenti capaci di prendere la mira e sparare a un bambino mentre gioca in strada. Solo a Sarajevo più di mille bambini sono stati uccisi consapevolmente, non per sbaglio (ma esistono danni non voluti nelle guerre?).
Assassini
Guardando negli occhi un assassino, capisci che può fare qualsiasi cosa per odio, ma anche, banalmente, per conformismo. Puoi uccidere qualcuno disarmato che attraversa la strada perché in quel modo credi di servire ideali o precetti religiosi adempiendo un dovere superiore; puoi sparare per vendetta per un torto che senti di avere subito; oppure solo perché accanto a te altri lo fanno e non vuoi essere da meno.
Qualche collega ha scritto che si uccideva per soldi, addirittura a cottimo (con prezzi a listino per tipologia di vittima), ma senza produrre le prove del commercio infame (il sistema di accertamento e pagamento per il lavoro svolto). Cattiva letteratura che si vende bene, perché quella dei soldi è una risposta rassicurante. Colpisce l’attenzione ed evita di indagare sui meccanismi psicologici che possono trasformare qualsiasi essere umano in assassino di bambini o stupratore seriale. Se è facile identificarsi con le ragioni dei buoni, scoprire somiglianze con i cattivi è destabilizzante.
Gli sguardi dei combattenti che attaccano sono diversi da quelli che si difendono. Chi attacca non ha pietà. Non solo verso il nemico armato, che al limite rispetta, ma per i disarmati. Sono gli indifesi che hanno subito le violenze maggiori: donne, anziani, bambini. In nome dell’odio contro ogni diversità. Non credo sia casuale che i nazionalisti, non solo balcanici, odino gli omosessuali e considerino le donne prede di guerra.
Frequentando i cattivi, ci si rende conto di quanto nessuno possa sentirsi immune al contagio dell’odio. Si può iniziare, in modo apparentemente inoffensivo, dicendo: “prima noi” e criticando il “buonismo”. Poi si prosegue discriminando le minoranze, criminalizzando le attività solidali, respingendo i profughi in mare o alle frontiere e i toni si alzano in fretta. In un quadro radicalizzato il passaggio dalle parole al crimine è un attimo: eliminazione fisica del nemico, pulizia etnica, stupri e genocidi. Tutto in coerenza con una cultura che si alimenta del mito del primato di un gruppo sull’altro e del diritto scritto nel sangue.
Profughi
Incrociando lo sguardo dei profughi e ascoltando i loro racconti è facile capire che la violenza più grande che si possa fare a una persona è costringerla a lasciare la casa dove è nata, o ha scelto di vivere. Vale in ogni parte del mondo.
I primi profughi che ho incontrato nella ex-Jugoslavia (1991) scappavano dalla Krajina, un territorio parte della Croazia, ma popolato in maggioranza da serbi. Poi ne ho incontrati un numero infinito, ovunque. Un episodio simbolico (1993) fu la cacciata di profughi bosniaci-musulmani dal campo profughi di Posusjie in Croazia, gestito da associazioni italiane che poi si unirono nel Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS). Molti venivano da Prijedor, ed erano stati cacciati dalle loro case dai serbo-bosniaci nel 1992. Quando, nel 1993, l’alleanza militare tra croati-bosniaci e bosniaci-musulmani si ruppe, qualcuno decise che bisognava cacciare i musulmani dal campo per far posto ai cattolici. Osservando i nuovi arrivati potevi confonderli con quelli appena scacciati. Raccontavano storie identiche, di violenza e sopraffazione. Metà della popolazione bosniaca è stata costretta a lasciare la propria casa nel conflitto in quattro anni di guerra.
Non erano diversi tra loro nemmeno gli sguardi dei profughi kosovari-albanesi, prima dell’intervento NATO (1999), e quelli dei kosovari-serbi, subito dopo. Per regolare i flussi di profughi in entrata e in uscita, dopo la fine della campagna militare e il ritiro dei militari serbi dal Kosovo, i logisti del team militare internazionale istituirono delle fasce orarie su alcune strade: gli albanesi che rientravano non dovevano incrociare i serbi che se ne andavano.
Minoranze
E poi le altre minoranze, spesso ignorate dalla cronaca. Naser, capo della comunità Askalija e Rom nel campo profughi di Plementina (Obilic), mi riassunse in una battuta il suo punto di vista: “qui in Kosovo c’è stata una partita di calcio: albanesi contro serbi; la comunità internazionale ha fatto da arbitro e a noi è toccato fare il pallone”.
La soddisfazione più grande, le minoranze invisibili se la sono presa quando un ebreo e un rom di Bosnia presentarono riscorso alla corte europea di Strasburgo, per le violazioni della Carta dei Diritti Europei presenti nella Costituzione Bosniaca (sui criteri di eleggibilità dei rappresentanti politici e della presidenza). Tre anni (2009) dopo la Corte Europea diede loro ragione (2009). L’assetto istituzionale frutto degli accordi firmati a Dayton e firmata dal presidente serbo Slobodan Milosevic, quello croato Franjo Tudjman e quello bosniaco Alja Izetbegovic (accompagnato dal ministro Muhamed Sacirbey) è antidemocratico, perché non tiene conto dei diritti di tutti i cittadini, ma solo degli interessi dei gruppi protagonisti della guerra, ignorando gli altri.
Il mediatore Usa Richard Holbrooke, l’inviato speciale dell’Unione Europea Carl Bildt e il viceministro degli estri Russo Igor Ivanov non se n’erano accorti. Jakob Finci e Dervo Sejdić, sì.
Viste da vicino, le guerre jugoslave non appaiono più come uno scontro tra popoli o etnie diverse. Come se le linee del fronte opponessero due gruppi umani distinti per ruolo: quelli che la guerra la subivano e quelli che la facevano. Innocenti e colpevoli.
Guerra in Europa
Non è vero che in Europa non ci sono state guerre dopo il 1945. Non solo per la breve distanza dai nostri confini. A Sarajevo ti sentivi al centro della storia e della cultura europee. Una città dove la molteplicità (più che la “convivenza”) rappresentava la condizione identitaria dei suoi abitanti. “Sarajevo cuore d’Europa”, è stato scritto. Anche nei neologismi coniati a guerra in corso c’è molta storia d’Europa. “Urbicidi”, “pulizia etnica”, “stupri etnici”. Fino a “genocidio”, parola tornata attuale a Srebrenica: “area protetta” dalle Nazioni Unite.
Non ho scritto qui una cronologia essenziale perché ce ne sono di ottime in giro. Nemmeno una riflessione sulla secessione slovena e il bluff mediatico che l’ha sostenuta; sulla crisi economica che ha preceduto il nascere dei partiti nazionalisti e dei conflitti; sulla nascita delle “patrie etniche” e i riconoscimenti internazionali non vincolati al rispetto dei diritti delle minoranze; sull’aggressione subita dalla Bosnia-Erzegovina, che in piccolo rappresentava l’ambiente culturale degli slavi del sud. Niente sul fallimento dell’Onu come forza d’interposizione; niente sulla divisione mostrata dall’Europa, persino tra i contingenti militari che partecipavano alla missione Unprofor; niente sul nuovo protagonismo della Nato, prima in Kosovo e poi in Macedonia.
Come si vive oggi, trent’anni dopo, a Vukovar, Mostar, Sarajevo, Srebrenica? In sintesi: peggio di prima.
Come si vive oggi, trent’anni dopo, a Vukovar, Mostar, Sarajevo, Srebrenica? In sintesi: peggio di prima. Eppure ho incontrato molti esempi di difesa ad oltranza dell’identità molteplice, soprattutto in Bosnia. Sia durante il conflitto che dopo. Erano le storie che da “freelance” (un ossimoro, per la categoria professionale più dipendente dalle leggi del mercato) non riuscivo a vendere. Una sorta di catalogo dei giusti in tempo di guerra, quelli che aiutavano il vicino di casa in difficoltà, senza fare caso alla religione o al nome.
Nobel per la Pace
Un’esperienza che meriterebbe il Nobel per la Pace è quella della cooperativa agricola “Insieme” di Bratunac, che produce le marmellate e i succhi della linea “Frutti di Pace” a un passo da Srebrenica.
Nata nel 2003 per iniziativa di dieci socie, tra le quali alcune vedove di opposti nazionalismi (che loro chiamano “opposti fascismi”), oggi conta più di cinquecento famiglie associate. Tra i produttori e le operaie non c’è nessuna discriminazione “etnica” (parola che non uso quasi mai, perché impropria). Un successo che nasce nel luogo dove più alto è (ancora) il rancore e la diffidenza reciproca.
“Se ci riusciamo qui si può fare ovunque”, diceva Rada, presidente della cooperativa, obiettando ai miei dubbi. Un “pacifismo in pratica” che nasce dall’esperienza dei movimenti locali di opposizione alla guerra. Erano soprattutto le donne che aiutavano i disertori, manifestavano contro la guerra, accoglievano profughi, si prendevano gli sputi degli etno-nazionalisti e subivano la repressione da parte della polizia. Si giocavano la vita per difendere principi umani universali messi in discussione. Una goccia d’acqua pulita nel mare di melma degli etno-nazionalismi.
Senza dimenticare la presenza dei pacifisti italiani durante la guerra. Un fenomeno di portata storica che ha coinvolto decine di migliaia di persone.
Un mondo variegato e diviso, anche aspramente. Da quelli che portavano aiuti a quelli che facevano azioni dimostrative per fermare la guerra, ciascuno rischiando la vita in coerenza con le proprie idee.
In conclusione di questo disordinato flusso di parole sul filo dei ricordi, posso dire che in Italia meno di quindici anni dopo la fine della guerra e della promulgazione della Costituzione (1948) eravamo in pieno boom economico.
In Bosnia niente di simile, perché la divisione del paese prevista dagli accordi di Dayton (1995) impedisce la crescita e congela il confronto politico in uno scontro etnico infinito. Il fallimento è tutto in questa constatazione.
Spiegarne i motivi non è il mio mestiere.
Se non riesco a essere del tutto pessimista, forse è perché avvicinarmi troppo alla cooperativa “Insieme” mi ha fatto perdere, ancora una volta, il senso del generale.
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