“Proletari di tutto il mondo”, oggi. Un saggio di Sandro Mezzadra

“I proletari non hanno nulla a perdere, all’infuori delle loro catene: essi hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. L’appello internazionalista con cui si concludeva il manifesto di Marx ed Engels del 1847 suona quanto mai attuale in un mondo segnato da autoritarismi razzisti, classisti e misogini.
Per contestare le contemporanee forme di oppressione, Sandro Mezzadra, filosofo politico dallo sguardo non comune nel contesto italiano, ha raccolto i suoi ultimi interventi in Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente (Meltemi, 2020). Il mondo, oltre a richiamare l’internazionalismo di Marx ed Engels, è lo spazio a partire dal quale bisogna analizzare il nostro tempo e agire. Mezzadra contesta così le diffuse essenzializzazioni sulla classe operaia come soggetto omogeneo, e la restituisce alla sua pluralità e alle differenze di “razza” e genere che le appartengono. Nel volume vengono ripercorse le questioni affrontate durante l’attività di militanza e ricerca di Mezzadra, segnata da una intensa rilettura del marxismo occidentale tramite gli studi postcoloniali, i black studies e il femminismo radicale. Il lavoro di Mezzadra è quindi cruciale per avvicinarsi a delle riflessioni poco diffuse ma di grande interesse per capire il presente e tentare di cambiarlo.
A partire dalle critiche che sono state mosse a Marx – e soprattutto al marxismo – da chi ne contestava lo sguardo europeo, bianco e maschile, Mezzadra contribuisce a ridefinire una teoria marxiana del presente. Cionondimeno, egli non cerca solo le “invariabili varianti” dell’analisi marxiana, ma registra anche la distanza che ci separa da Marx quando si arriva al tema della differenza di genere e della riproduzione sociale. Distanza sulla quale il libro si conclude senza fare sconto alcuno agli elementi patriarcali che hanno innervato e che innervano parte della produzione marxiana (e marxista). Ma la rilettura di Marx – in un teso dialogo con Foucault – da parte di Mezzadra porta anche al confronto con i grandi temi della filosofia politica, analizzati per portarne alla luce fratture e contraddizioni. Nell’analisi del conflitto tra pratiche di assoggettamento (di dominio) e processi di soggettivazione (di resistenza, invenzione e rivolta), è possibile ridefinire le categorie della modernità.
Universalismo, modernità e cittadinanza diventano così, sulla scia di intellettuali del Black Marxism come W.E.B. Du Bois e Frantz Fanon – cui Mezzadra dedica un denso capitolo –, delle poste in gioco, dei termini da ridefinire in base alle lotte e ai conflitti di schiavi, colonizzati e migranti. Non a caso, spesso nelle lotte per il diritto alla mobilità, si parla di umanità, termine ambivalente, a lungo criticato per le caratteristiche di genere, “razza” e classe implicate. Nel dire “umanità” si intendeva solo una sua limitata porzione, o si celavano intenti – come quelli legati alla war on terror – molto distanti dal perseguimento della giustizia globale. E cionondimeno l’umanità – e la sua negazione – è stata a lungo parte dei discorsi che accompagnavano le lotte abolizioniste e anticoloniali, configurando pertanto anche questo termine come un utile strumento per affermare la dignità di chi la vedeva e vede violata. Infatti, Du Bois sosteneva una prospettiva universalistica che, pur contestando le mistificazioni bianche ed occidentali, non rinunciava a un progetto cosmopolitico, di convivenza al di là delle differenze. È sul terreno dell’universale che si confrontano tanto “le logiche del dominio” quanto “il rompicapo della liberazione”. In questo senso, per esempio, le rivolte di fine XVIII secolo nei Caraibi possono esser lette anche come delle lotte su cosa significhi essere moderni e su chi lo possa rivendicare. Il lavoro di Mezzadra cerca così di decentrare lo sguardo dalle analisi eurocentriche proprie, con gradazioni diverse, tanto delle tradizioni liberali e conservatrici quanto di buona parte di quelle marxiste. Senza perciò rinforzare le distinzioni tra occidente e “resto del mondo”, come invece rischiano di fare alcuni teorici decoloniali che finiscono per stabilire fittizie omogeneità culturali. È quindi possibile aprire l’analisi critica al mondo, per guardare ai fenomeni contemporanei a partire da un’ottica globale, che tenga conto delle specificità spaziali e temporali. È in questo senso che Mezzadra segue Dipesh Chakrabarty e la sua ingiunzione a Provincializzare l’Europa, a scomporne la narrazione storicista che sussume esperienze diverse e contraddittorie dentro il tempo lineare ed omogeneo di Stato e capitale. Si può così avere una diversa comprensione dello sviluppo capitalistico e delle strade per la modernizzazione, che non proceda per stadi temporali.
Cittadinanza, eterogeneità e capitale globale
Stato e capitale sono gli aggregati di potere che scandiscono la riproduzione del dominio, attraverso le figure del cittadino e del lavoratore. Maturato nel contesto dello Stato nazional-sociale, e sotto il patto fordista, il rapporto di reciproca legittimazione tra cittadinanza e lavoro oggi è terminato. Tuttavia, la cittadinanza continua a operare come un meccanismo di gerarchizzazione che legittima il potere statual-nazionale e disciplina la forza lavoro, concedendo alcuni diritti solo a parti della popolazione. Ma la cittadinanza, che riflette le numerose lotte politiche che l’hanno investita, può essere anche intesa come un movimento, come l’azione per l’allargamento dei diritti di chi è escluso dalla comunità politica. Seguendo la riflessione di Jacques Rancière ed Étienne Balibar, nel tentativo di conciliare “comunismo e libertà” come i federalisti del secondo dopoguerra, Mezzadra ragiona sulla cittadinanza al di là dello Stato. Dedica così un capitolo all’Europa a venire, federalista e sociale, dove cittadinanza e nazionalità possano disarticolarsi. È un progetto oltre la violenza degli stati nazione che hanno devastato il continente nella prima metà del Novecento e che continuano a esibire il nesso perverso tra popolo e “razza”, sempre più evidente nelle riconfigurazioni discriminatorie delle risorse pubbliche.
All’esigenza di un potere politico che regoli la produzione e disciplini la forza lavoro si contrappone infatti la dimensione costitutivamente mondiale del capitale, che tende a costruire un mercato che esorbiti dai confini nazionali. Mezzadra ne parla in termini di “confini del capitale”, una configurazione mobile che emerge dalla tensione tra Stato e capitale sovrapponendo e modificando le logiche dei due poteri in nuovi assemblaggi del dominio. Ne emerge una sovranità del capitale che scompagina le tradizionali divisioni territoriali e politiche. Dal punto di vista della crescente commistione tra logiche dello Stato e del capitale, nella trasformazione e ridefinizione della sovranità, il comando estrattivo della finanza e della logistica organizzano forme di violenza materiale la cui potenza richiama quella statuale. D’altronde Mezzadra, riprendendo una definizione dello Stato di Marx, definisce la finanza come “violenza concentrata e organizzata della società”. Marx ne scriveva in relazione alle origini del processo di accumulazione nel XVII secolo, fatto di potere statuale, che espropriava le terre comuni, e di efferatezza coloniale. E Mezzadra ne parla per illuminare la continuità fra violenza coloniale e nuove forme “postmoderne” di esclusione e inclusione subalterna, dentro un processo interminabile di accumulazione primitiva. Eppure, davanti al consolidarsi di nuovi blocchi macroregionali, dal crepuscolo dell’egemonia statunitense non necessariamente sorgerà un nuovo centro egemonico che organizzi le operazioni del capitale. In questo contesto, bisogna considerare gli imperialismi non occidentali per quel che sono, dismettendo lenti inadeguate al caos sistemico in cui viviamo. In questo senso i confini tra Nord e Sud globale – se mai sono stati netti – saltano e vedono la coesistenza di diverse forme di sfruttamento e estrema ricchezza negli stessi luoghi. Slum e gated community non sono più configurazioni spaziali proprie solo delle città dei dannati della terra.
All’eterogeneità del capitalismo postcoloniale si ricollega l’analisi che Mezzadra ha compiuto con Brett Neilson (Confini e frontiere, il Mulino 2014) rispetto alla moltiplicazione del lavoro, ovvero la sua scomposizione per genere, “razza”, casta e status giuridico, nonché la coesistenza di diverse forme di assoggettamento all’interno del modo di produzione capitalistico. In questa lettura, l’eterogeneità è collocata alla base del metodo di accumulazione capitalistico e le distinzioni tra struttura e sovrastruttura, care a un certo tipo di marxismo, cadono a loro volta. La lavoratrice e il lavoratore, infatti, ricevono un salario e godono di un certo potere contrattuale e di determinati diritti, in virtù della loro posizione soggettiva. La discriminazione giuridica o sociale è immediatamente costitutiva del rapporto di sfruttamento, non è una contraddizione secondaria o meramente ideologica – come d’altronde Marx già scriveva nella prefazione ai Grundrisse. In questo senso Mezzadra contesta la tesi per cui il lavoro salariato sarebbe – e sarebbe stato – la norma del modo di produzione capitalistico. Al contrario, schiavismo e colonialismo non vanno confinati alle origini del capitalismo, come accumulazione originaria, in quanto la loro operatività si colloca su una dimensione temporale molto più lunga. Anche perché il lavoro salariato ha molto a che fare con quelle forme di dominio e sfruttamento. Da questo punto di vista, seguendo le intuizioni del lavoro di Yann Moulier Boutang (Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri 2002), l’operare di Stato e capitale è riletto alla luce del tentativo di limitare la mobilità del lavoro. Le forme di mobilità vanno analizzate assieme a quelle di immobilità: ai cittadini con specifici diritti corrispondono non-cittadini, coolies e schiavi privati di garanzie o con un diverso livello di protezione. Qui è possibile ridefinire il concetto di “esercito di riserva”, spesso usato per dividere e governare. La mobilità del lavoro non alimenta l’esercito di riserva, ma semmai ne ostacola il funzionamento. È infatti grazie alla regolazione dei confini che è possibile limitare la fuga delle lavoratrici e dei lavoratori, che altrimenti scompaginerebbe i progetti di comando della forza lavoro. Viene così evidenziato il ruolo della discriminazione razziale nella costruzione dei mercati del lavoro nazionali. Solo l’eguaglianza dei diritti, il controllo e la limitazione del potere del capitale, può evitare il peggioramento delle condizioni di vita di chi precedentemente era più garantito.
Una lotta contro i confini non può terminare però con il loro superamento, dato che i confini si sono moltiplicati e vanno oltre le demarcazioni territoriali, scompaginando le divisioni tra interno ed esterno di uno spazio politico. La violenza contro migranti e soggetti razzializzati come inferiori infatti si muove su uno spettro più ampio di quello definito dal semplice binomio inclusione/esclusione. L’inclusione differenziale è una forma di integrazione subalterna, in cui a un ruolo economico e sociale non corrisponde alcun diritto o spazio pubblico. La condizione di molti migranti e minoranze è efficacemente catturata da questa espressione che ne restituisce l’insicurezza e la precarietà, il rischio costante di esser deportati o espulsi, così come la strutturale negazione dei diritti, anche quando formalmente garantiti. Seguendo un’interpretazione conflittuale della democrazia, Mezzadra riprende le parole di Marx sulla Comune di Parigi, definita come “forma politica fondamentalmente espansiva” che si contrappone a tutte le precedenti forme di governo “unilateralmente repressive”. Mezzadra riprende le categorie di proletariato e classe operaia per stabilire una tensione che permetta di ripensare le forme della mobilitazione superando la parzialità della classe salariata, bianca e maschile. Nessuna essenza da realizzare viene posta. È così possibile pensare una politica oltre lo Stato e oltre le identità predefinite, per una democrazia radicale.
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