Poesie di un manovale
Presentiamo qui una selezione di prose poetiche di Thierry Metz (1956–1997), tratte da Diario di un manovale (traduzione di A. Ponso per Edizioni degli animali, 2020). Già noto ai nostri lettori per Sulla tavola inventata (traduzione di R. Corsi per le Edizioni degli animali, 2019), Metz è stato un poeta ai margini, lontano dalle conventicole letterarie, e per questo oggi giustamente rivalutato. La sua è una poesia che sfugge alle categorizzazioni, libera tra realismo e spiritualità, al tempo stesso luminosa e umbratile.
Nei testi che seguono c’è una vita – quella del poeta, realmente impiegato come manovale in un cantiere – che scorre pedissequamente agli ordini di architetti e capomastri. Questa ripetizione dei gesti del lavoro fa confondere il piccone con la penna, la terra con la pagina bianca. In queste metamorfosi urbane, con la natura fervente e misteriosa sullo sfondo, il poeta/manovale racconta una fase di transito del mondo, in cui la fatica non è più collettiva ma annichilisce e rende precari. E delinea la crisi identitaria del nostro presente. (Davide Minotti)
16 giugno. L’agenzia di lavoro temporaneo mi ha trovato un impiego in una cooperativa operaia. Otto ore al giorno. Salario minimo.
Dopo i macelli, la fabbrica, torno all’edilizia.
Il cantiere si trova in una piccola via a senso unico. Si trasforma una fabbrica di scarpe in residenza di lusso. Sono rimasti solo i muri. L’interno è vuoto, né pavimento, né tramezzo. È vecchio. Tutto da rifare: consolidare le fondazioni esistenti, aprire le entrate dei garage, posare i pavimenti, costruire il vano per l’ascensore, armare la scala. Tutto. C’è da lavorare.
Un badile, un piccone. Il manovale deve cercare con questo, fare il giro, perdersi…
Un principiante: ecco cos’è. La sua memoria è solamente una rete d’acqua, una sorgente dimentica del fiume.
I suoi movimenti sono semplici: quelli di un uccello. Sale, scende, raccoglie ramoscelli, paglia, cortecce. Quello che capita.
Per delimitare il campo che si stende intorno al suo nome, gli occorre tracciare un cerchio con quello che ha: terra, rovine, pietre, istruzioni, pezzi di gesso, attese, stanchezze…
Qualcosa su cui meditare un giorno. Nient’altro.
3 luglio. Il piccone è meno loquace il venerdì. Si sente nelle reni che si è portato del peso tutta la settimana. Si sente che ci si avvicina. Sono gli ultimi metri prima della pausa, prima di ritrovare il libro d’immagini nel pugno chiuso del dormiente.
Lavoro di traghettatore. Da una riva all’altra, sulla zattera di una parola data in dono ma anche di un ordine. Nessuna merce; pietre, calcinacci, terra, tutto un sottosuolo che illumina anche il gesto più insignificante, che lo trasmette da manovale a manovale.
Mi piace pensare che un giorno, forse, un dio senza nome si stabilirà su questo piccolo mucchio di terra, prenderà posto nella tomba illuminata dei miei gesti, con le parole di tutti i giorni, semplici passeri. Riprenderà fiato un istante per poi ripartire verso ciò che accade, nei deserti dove sono uomini e i loro cantieri.
“Venerdì”!
Sarà il suo nome.
Un uomo viene verso di me nel pomeriggio. Porta una tuta blu senza tempo, una giacca sporca, troppo grande; vestito da cane. Parla. Dice che cerca un lavoro. Da mesi.
– Chiedo. Vado da un cantiere all’altro. È più sicuro che con le inserzioni. Ma la risposta è sempre no.
E aggiunge, accendendo una sigaretta.
– Sono già stato qui.
Mente ma che importa. Amo la chiarezza dolorosa di questa menzogna, la sua verità di nomade, di camminatore. Che fa questo uomo se non mostrarmi una nuvola, poi un’altra, poi ancora un’altra…
Dire una nuvola per opporsi all’abisso.
Ma l’uomo non si ferma a ciò che dice.
Vuole una risposta.
– È là il tuo capo?
– Lassù.
Sale. Resta solamente un minuto. Quando ridiscende il suo sguardo è cieco. Non vede più il fuori.
18 agosto. Il capo telefona nella baracca. Ordina materiali per le due settimane a venire. Antoine che sento fischiare continua tra le sue ferraglie. Ahmed e Manuel costruiscono. Alain finisce di livellare. Porto la malta, vado avanti con i mattoni. Ognuno ha trovato ciò che doveva fare. Qui.
Eppure, più lontano: si vedono persone che cercano. E non va bene. Era stato promesso qualcosa che non accade. Il lavoro non è nient’altro che un’urgenza disperata.
– Se proviamo a sopportare…, dice un uomo.
– È quello che facciamo, risponde un altro.
Non si capisce ciò che sta per succedere. Solo un’attesa. E domani bisogna ricominciare.
Nessuna voglia di muoversi, di parlare. Più niente, la sera, nella voce del manovale. Solamente passeri, pettirossi; persone che ritornano. Tutte uguali. Utili per il reale. Rivierasche del mondo.
Discorsi appollaiati vicino al gallo: grida e parole.
È difficile dire. E perché rimanere in questa prossimità? Così assente? Attingere l’acqua bastava. Ma la sete vuole radunare solamente dimore. Come morire tra di voi?