Poesie

a cura di davide minotti
Offriamo ai nostri lettori una selezione di testi di Cesare Viviani (Siena 1947), tratti dalla raccolta Ora tocca all’imperfetto, edita da Einaudi. Psicanalista e saggista, Viviani è protagonista di un percorso poetico eclettico, attraversato nei decenni da esperimenti dadaisti e opere in prosa, che lo rendono oggi un autore difficile da inquadrare. Dense di conflitti ma asciutte e secche nella forma, le poesie di Viviani sono rime “petrose” che tematizzano le imperfezioni, le condizioni entro cui sono fratte le nostre esistenze. La vecchiaia, le abitudini inveterate e le tarde riflessioni superano l’esperienza del singolo, che è la vita del poeta, e diventano per noi strumento di autoanalisi: per cercare la verità tra le pieghe del presente.
Quelle riproduzioni
che sembrano ritratti di familiari
[e di amici,
invece che marionette e bambolotti
quali sono.
Sculture o quadri sono la stessa cosa.
Accompagnano le ore vuote
del pomeriggio.
Creati per dire cose
che non riescono a dire, richiedono
una preparazione
per accoglierli come si deve.
Si resta confusi nell’incertezza
tra questo e quel mondo,
si posa lo sguardo
sul fondo verde
punteggiato di grumi rossi:
le pendici di un monte
o campi coltivati.
Prometteva la religione:
se sarai buono, caritatevole, generoso,
sincero, onesto,
alla fine diventerai
una musica paradisiaca,
se sarai cattivo,
resterai freddo e immobile
come un’infernale carta geografica.
La purezza
per mancanza di forze
è sconcezza.
La docilità, per perdita dei denti,
è inqualificabile bontà.
È sorprendente, inverosimile
cercare la salvezza nei bambini,
andare da loro a cercare protezione,
o nei reperti archeologici,
chiedendo sia agli uni che agli altri
di liberarci dal tempo.
Sono qui a raccattare il lapis
caduto fuori dal bracciolo della poltrona,
sul tappeto,
dopo poco invece è caduto dentro,
sul cuscino della poltrona,
sono ancora capace di queste piccole
manovre di ricupero.
Non c’è più niente da conoscere.
Ai tempi in cui potevo dire
di avere un mezzo conoscente
e tutti capivano
quel che dicevo.
Potevo anche dire che non potevo
fidarmici completamente.
Dice: «non amo l’amore
come i giovani che si toccano,
amo la terra
nei punti dove esce la vegetazione,
ma anche dove è arida,
amo la terra e i suoi congiunti,
tutti gli altri non sanno di niente,
attorucoli mancati incapaci
di recitare la vita, finiscono subito».
Ridesti. E ridesti in me
l’ultima nuova vita.
Ma non ho a mente
i giochi della precedente.
Il mondo è lo stesso, non cambia,
e io cosa posso
nel tempo rimanente?
C’è stato il tempo del cacciatore
e dell’amore,
dell’oratore persuasore,
del sofferente e del paziente.
Ora il tempo è il tempo, incolmabile,
tempo che non contiene,
nudo e naturale,
crudo e criminale.
Ma quale cerimoniale! Sono
finiti tutti, la clausura, i sacramenti,
il confessionale.
Solo ritirarsi nei boschi
e fissare la vegetazione,
guardare il verde senza smettere,
è l’unico che rimane.
Saremo una statua,
una statua di fusione,
e in quella tutte le approssimazioni,
gli sforzi, le insistenze, gli errori,
le promesse mancate, le viltà,
le menzogne, voraci
sorelle dell’apatia,
avranno pace.
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