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Poesie

illustrazione di Juan Bernabeu
18 Marzo 2020
Cesare Viviani

a cura di davide minotti

Offriamo ai nostri lettori una selezione di testi di Cesare Viviani (Siena 1947), tratti dalla raccolta Ora tocca all’imperfetto, edita da Einaudi. Psicanalista e saggista, Viviani è protagonista di un percorso poetico eclettico, attraversato nei decenni da esperimenti dadaisti e opere in prosa, che lo rendono oggi un autore difficile da inquadrare. Dense di conflitti ma asciutte e secche nella forma, le poesie di Viviani sono rime “petrose” che tematizzano le imperfezioni, le condizioni entro cui sono fratte le nostre esistenze. La vecchiaia, le abitudini inveterate e le tarde riflessioni superano l’esperienza del singolo, che è la vita del poeta, e diventano per noi strumento di autoanalisi: per cercare la verità tra le pieghe del presente.

Quelle riproduzioni

che sembrano ritratti di familiari

[e di amici,

invece che marionette e bambolotti

quali sono.

Sculture o quadri sono la stessa cosa.

Accompagnano le ore vuote

del pomeriggio.

Creati per dire cose

che non riescono a dire, richiedono

una preparazione

per accoglierli come si deve.

Si resta confusi nell’incertezza

tra questo e quel mondo,

si posa lo sguardo

sul fondo verde

punteggiato di grumi rossi:

le pendici di un monte

o campi coltivati.

Prometteva la religione:

se sarai buono, caritatevole, generoso,

sincero, onesto,

alla fine diventerai

una musica paradisiaca,

se sarai cattivo,

resterai freddo e immobile

come un’infernale carta geografica.

La purezza

per mancanza di forze

è sconcezza.

La docilità, per perdita dei denti,

è inqualificabile bontà.

È sorprendente, inverosimile

cercare la salvezza nei bambini,

andare da loro a cercare protezione,

o nei reperti archeologici,

chiedendo sia agli uni che agli altri

di liberarci dal tempo.

Sono qui a raccattare il lapis

caduto fuori dal bracciolo della poltrona,

sul tappeto,

dopo poco invece è caduto dentro,

sul cuscino della poltrona,

sono ancora capace di queste piccole

manovre di ricupero.

Non c’è più niente da conoscere.

Ai tempi in cui potevo dire

di avere un mezzo conoscente

e tutti capivano

quel che dicevo.

Potevo anche dire che non potevo

fidarmici completamente.

Dice: «non amo l’amore

come i giovani che si toccano,

amo la terra

nei punti dove esce la vegetazione,

ma anche dove è arida,

amo la terra e i suoi congiunti,

tutti gli altri non sanno di niente,

attorucoli mancati incapaci

di recitare la vita, finiscono subito».

Ridesti. E ridesti in me

l’ultima nuova vita.

Ma non ho a mente

i giochi della precedente.

Il mondo è lo stesso, non cambia,

e io cosa posso

nel tempo rimanente?

C’è stato il tempo del cacciatore

e dell’amore,

dell’oratore persuasore,

del sofferente e del paziente.

Ora il tempo è il tempo, incolmabile,

tempo che non contiene,

nudo e naturale,

crudo e criminale.

Ma quale cerimoniale! Sono

finiti tutti, la clausura, i sacramenti,

il confessionale.

Solo ritirarsi nei boschi

e fissare la vegetazione,

guardare il verde senza smettere,

è l’unico che rimane.

Saremo una statua,

una statua di fusione,

e in quella tutte le approssimazioni,

gli sforzi, le insistenze, gli errori,

le promesse mancate, le viltà,

le menzogne, voraci

sorelle dell’apatia,

avranno pace.


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