Piccolo viaggio nelle virtù
La misericordia passa inosservata, non si dà troppe arie, si mescola senza sforzo agli avvenimenti più prevedibili delle vita quotidiana. E questo accade perché la misericordia è una risposta ai bisogni che la vita presenta, non un progetto che si sovrappone alla vita. Prendete Le sette opere di misericordia corporale di Caravaggio. Nella parte inferiore del dipinto è raffigurata una scena abbastanza caotica, che sembrerebbe riprodurre la riottosa vitalità dei vicoli napoletani nel Seicento. Un lazzarone beve scomposto, due gentiluomini si scambiano un segnale, un altro giovanotto sfiora un mendicante con il suo grande mantello, un cadavere viene portato via di peso e, per finire, una ragazzotta offre alla bocca di un vecchio il seno pieno, già un po’ lento. Sarà una prostituta? Quel cenno d’intesa apparterrà fra i due al linguaggio segreto dei bari? E quel morto agguantato per i piedi non si sarà preso una coltellata, magari nella stessa bisca frequentata dagli scaltri giocatori?
Basta alzare lo sguardo verso la parte superiore del quadro per accorgersi dell’equivoco. Gli angeli, nel loro groviglio d’ali, sostengono la Vergine, che a sua volta tiene fra le braccia il Bambino. Guardano verso il basso, la madre e il figlio. A colpire di più sono gli occhi del piccolo Gesù plebeo, il suo modo di contemplare lo spettacolo del mondo con il volto sorpreso e sapiente che la povertà suscita nell’infanzia. È la stessa espressione che ritroviamo in certe fotografie di Steve McCurry o di Sebastião Salgado, nelle riprese video provenienti dai campi profughi di Africa e Medio Oriente, nelle istantanee che ogni giorno arrivano dalle spiagge del Mediterraneo. Non è uno sguardo che implora misericordia, ma lo sguardo di chi sa che l’uomo è chiamato a praticare la misericordia come virtù naturale e necessaria. La misericordia – anzi, il cristianesimo stesso – è anzitutto una questione di sguardo.
Vista dalla giusta prospettiva, la scena descritta da Caravaggio si trasforma e si rivela. Sansone che prende l’acqua dalla mascella d’asino: dar da bere agli assetati. L’uomo che invita a entrare: ospitare i pellegrini. San Martino che condivide la veste con il lebbroso: vestire gli ignudi e, insieme, visitare gli infermi. Il trasporto della salma: seppellire i morti. La fanciulla Pero che – secondo una leggenda romana – nutre con il suo latte il padre Cimone, ingiustamente incarcerato: dar da mangiare agli affamati, visitare i carcerati. Le sette opere di misericordia corporale, appunto.
In Misericordia (Queriniana, 2013) il cardinale Walter Kasper suggerisce di inserire queste pratiche in un contesto che si sarebbe tentati di definire politico. La povertà, ricorda Kasper, non è mai solo materiale, economica, ma anche culturale, di relazioni umane, spirituale. Non è un caso che il libro del cardinale tedesco sia stato esplicitamente citato da papa Francesco tra le sue letture preferite, così come non appare casuale, nel contesto dell’attuale pontificato, la proclamazione di un Anno santo della misericordia che, per essere ben compreso, deve essere accostato al percorso del Sinodo sulla famiglia e tenuto a debita distanza dal degrado amministrativo dell’Urbe. Il Giubileo non riguarda tanto la Roma di Ignazio Marino, quanto quella “onde Cristo è romano” alla quale si riferisce Dante nel Purgatorio.
Lo ribadisce la lettera del 1° settembre scorso, nella quale Francesco traccia le linee per la celebrazione dell’Anno santo straordinario: dopo aver richiamato alla “ricchezza contenuta nelle opere di misericordia, corporale e spirituale”, il papa dispone che “ogni volta che un fedele vivrà una o più di queste opere in prima persona otterrà certamente l’indulgenza giubilare”. Come dire che anche nella prassi pastorale la misericordia non ha nulla di astratto, è quanto di più efficace e concreto si possa immaginare. Un atteggiamento naturale e necessario, ripetiamolo, tenacemente intrecciato ai fatti anche minimi della nostra quotidianità. Mangiare e bere, dormire e cambiarsi d’abito.
Tra la primavera e l’estate scorsa ho condotto per “Avvenire” una piccola inchiesta nei luoghi in cui oggi, in Italia, le opere di misericordia corporale vengono praticate. È stato un viaggio alla frontiera tra esperienza ecclesiale e impegno civile, tra le richieste della comunità e il carisma di alcune personalità eccezionali, in un percorso che volutamente non si è limitato alle sole realtà – peraltro molto numerose – del volontariato cattolico. Mi interessava cercare di comprendere se e come esista ancora, a dispetto di ogni difficoltà e compromissione, quel cristianesimo istintivo di cui la parabola del Buon Samaritano fornisce la rappresentazione più convincente: non è l’appartenenza a una categoria a garantire la bontà di una persona, è la bontà delle azioni a radunare le persone in una famiglia più ampia. Oltre che di sguardo, la misericordia è una questione di umanità.
La mia ricognizione non ha alcuna pretesa di completezza. Ho scelto sette situazioni per me rappresentative, muovendomi tra la coincidenza perfetta con il mandato di una particolare “opera” e l’eventualità di accostamenti meno puntuali, ma non per questo meno ricchi di suggestioni e provocazioni. Un’alternanza che si è resa subito evidente nelle due prime tappe. Per “Dar da mangiare agli affamati” sono rimasto nella mia città, Milano. Nella metropoli di Expo 2015 (“Nutrire il pianeta, energia per la vita”) l’emergenza alimentare è un dato ampiamente documentato, di cui ha dato conto anche Giorgio Fontana su “Internazionale”. Sicuramente acuito dalle crisi degli ultimi anni, non è purtroppo un dramma recente e proprio per questo ho voluto ripercorrere l’evoluzione di un’istituzione ormai storica, l’Opera San Francesco per i Poveri. Si tratta della più centrale tra le varie mense gratuite attualmente presenti a Milano. Si trova nella zona di viale Piave, non lontano dal Palazzo di Giustizia. A fianco della pensilina sotto la quale si snoda la coda per ottenere pranzo e cena c’è l’ingresso di un hotel a cinque stelle. Non è una contraddizione, ma un elemento di continuità con le origini.
Prima della nascita ufficiale dell’Opera nel 1959 c’era infatti “la minestra dei frati”, servita quotidianamente da fra Cecilio Cortinovis (1885-1984) nella portineria del convento cappuccino che ancora oggi costituisce il cuore dell’istituzione. Fra Cecilio era un bergamasco di spirito pratico, proprio come Emilio Grignani, un professionista più che benestante il quale, incuriosito dal viavai di questuanti con la scodella in mano, si propose ai frati per finanziare la costruzione di una mensa ben attrezzata Erano gli anni in cui era arcivescovo di Milano il cardinale Giovanni Battista Montini, l’attenzione della Chiesa ambrosiana per le trasformazioni e le problematiche sociali era altissima: non stupisce vedere il volto del futuro Paolo VI nelle fotografie scattate il giorno dell’inaugurazione. Con il tempo, l’Opera San Francesco ha aperto un guardaroba e un servizio docce, si è dotata di una serie di ambulatori e di un’“area sociale” alla quale si rivolge chi è in cerca di lavoro, ma la mensa non ha mai perduto la sua importanza. Ogni giorno i pasti distribuiti sono in media 2.700. Ne beneficiano molti stranieri, perché questo è stato ed è ancora un punto della città dal quale è possibile registrare quasi in tempo reale le successive ondate migratorie: Albania, ex Jugoslavia, Paesi del Maghreb, America Latina, Eritrea, Siria. Ma nel 2014, dopo molti anni, il gruppo nazionale più consistente è tornato a essere quello degli italiani (13%). “Chi chiede da mangiare non ha soltanto fame”, ripeteva fra Cecilio. Il dottor Grignani gli ha dato retta e l’Opera San Francesco è, ancora oggi, un luogo di incontro e collaborazione tra carità evangelica e filantropia borghese.
A portata di Frecciarossa, a Roma, la situazione appare un po’ differente. Il compito di “dar da bere agli assetati” è laicamente assolto dal Forum dei movimenti per l’acqua, che nel 2011 si batté con successo nel referendum contro la privatizzazione del servizio idrico. Fu una bella vittoria, che però adesso, in conseguenza del cosiddetto “SbloccaItalia”, rischia di essere vanificata dal piano per le multiutility energetiche. La regolamentazione delle forniture d’acqua è la meno definita e questo spiega, almeno in parte, il diffondersi della pratica dei “distacchi”. Il soggetto più attivo in questo senso è l’Acea, l’azienda dalla quale dipende l’erogazione di acqua corrente a Roma, nel Lazio e in gran parte dell’Italia centro-meridionale. Che cosa comporta il distacco? Semplice: se per qualsiasi motivo l’utente risulta moroso, Acea interrompe – interrompe, non riduce – la fornitura d’acqua, rimuovendo o sigillando il contatore. La versione ufficiale e le testimonianze dei diretti interessati divergono su aspetti anche sostanziali, primo fra tutti il preavviso del distacco, che Acea sostiene di inoltrare regolarmente e che invece non risulta mai pervenuto, per esempio, agli abitanti del “supercondominio” di via Giolitti, proprio a lato della Stazione Termini (il Frecciarossa, dicevamo). Questi particolari utenti non sarebbero di per sé morosi, ma scontano il paradosso di un debito contratto in passato dal Comune di Roma, a sua volta azionista di maggioranza di Acea.
Vertigini burocratiche a parte, il risultato è che a Roma sono ormai segnalati numerosi casi di war poverty, l’indisponibilità completa e duratura di acqua che pareva ormai debellata in Europa. La rete “Basta distacchi”, che fa capo al Forum, mette a disposizione diversi sportelli sparsi per la città, pubblicizzati con il faccione baffuto e sorridente di Luigi, ovvero il fratello di SuperMario, l’indomito idraulico dei videogiochi anni Ottanta. Anche se non esiste alcuna conferma, pare che lo stesso SuperMario intervenga di persona per ripristinare il servizio nei casi più gravi. Non tutte le persone che subiscono il distacco si trovano nell’impossibilità di pagare la bolletta, come dimostra il paradosso di via Giolitti, ma è evidente che in molte circostanze la povertà è un fattore discriminante, dal quale oltretutto deriva ulteriore discriminazione: senza acqua non si cucina, non si lava, non ci si lava. Il Forum non ha alcuna connotazione religiosa, è anzi espressione dell’antagonismo militante. Ma la campagna per il diritto all’acqua coinvolge da sempre la base cattolica, molto sensibile a questa istanza nel Molisano e in altre zone d’Italia. Se poi vogliamo tornare a papa Francesco, ecco l’insistenza dell’enciclica Laudato si’ sul tema dell’accessibilità all’acqua ed ecco, sullo sfondo, la battaglia di Cochabamba, in Bolivia, che tra il 1999 e il 2000 sancì la sconfitta di ogni tentativo di privatizzazione dell’acqua. Un evento epocale per l’America latina, che di certo l’argentino Jorge Mario Bergoglio ricorda molto bene.
Il crinale tra misericordia e impegno sociale si fa ancora più sottile a Caserta, la città che ho visitato per trovare un’applicazione contemporanea del “vestire gli ignudi”. In senso letterale questa sarebbe, in effetti, un’attività comune a molte della realtà che ho incontrato: un servizio di guardaroba è presente a Milano, all’Opera San Francesco, ma anche al Punto d’Incontro di Trento, di cui parlerò tra poco. A Caserta però c’è Casa Rut, che ha in suor Rita Giaretta – un’orsolina di origine vicentine, trasferitasi in Campania nel 1995 – la sua coraggiosa portavoce. Questa volta l’interpretazione della specifica opera di misericordia procede per analogia, dunque, ma il fatto non sembra dispiacere troppo alla stessa suor Rita. Per diversi motivi. Il primo è che le donne che a Casa Rut trovano accoglienza e ritrovano dignità hanno avuto bisogno di essere rivestite, anche alla lettera. Sono state in maggioranza strappate dalla strada, la famigerata Domiziana lungo la quale prospera la prostituzione per ricatto. Un fenomeno che accomunate le nigeriane assillate dallo spauracchio della magia nera, le romene attratte in Italia con l’inganno del grande amore e tante altre ragazze ridotte in schiavitù.
Ognuna di loro ha la sua storia, e sono tutte storie terribili. La sede di Casa Rut è in pieno centro, in corso Trieste, sull’elegante arteria che parte dalla celeberrima Reggia borbonica. Nel grande appartamento le donne vivono con i loro figli, almeno fino a quando non recuperano fiducia in sé e non ottengono indipendenza economica (“Si è liberi solo quando non si è più ricattabili”, sintetizza suor Rita). Ed è a questo punto che si riaffaccia il “vestire gli ignudi”. Nel 2004 è nata la cooperativa NewHope, una sartoria multietnica presso la quale le donne di Casa Rut svolgono tirocinio formativo. producendo borse, grembiuli, paramenti liturgici e minuscoli fiori ricavati dagli avanzi di stoffa. I primi tessuti a essere impiegati sono stati proprio quelli che le ragazze avevano portato con sé dall’Africa, ora la produzione è più vasta e articolata, ricorre a filati di pregio come la rara seta di San Leucio e impiega stabilmente cinque persone, quasi tutte donne passate per Casa Rut.
Si risale a nord, fino a Trento, per confrontarsi con i volontari del già ricordato Punto d’Incontro. Non è un’istituzione di lunga data come l’Opera San Francesco, che pure in parte le somiglia, né è relativamente recente come Casa Rut. La fondazione della cooperativa risale al 1979, al confine tra le utopie e i furori dei decenni precedenti e l’annunciarsi dell’aggressivo edonismo che caratterizzò il decennio successivo. Parlo di confine anche perché al Punto d’Incontro ho attribuito, nella mia personalissima mappa, il compito di rappresentare la pratica antichissima e, verrebbe da dire, schiettamente europea di “ospitare i pellegrini”. Dal punto di vista tecnico, questo non è principalmente un dormitorio: il rifugio per i senzatetto viene aperto solo d’inverno, mentre per tutto l’anno proseguono i servizi di mensa, guardaroba e ascolto. Ma siamo in una zona cruciale per le rotte di terra dell’immigrazione, chi da Lampedusa è riuscito a risalire il Paese prima poi passa da qui nel tentativo di superare – in treno, in auto, sempre più spesso a piedi in compagnia degli spalloni – la barriera del Brennero. Sono i nuovi pellegrini, che al Punto d’Incontro conoscono bene e che non di rado, in questi anni di crisi, invertono la rotta e dalle realtà in cui si erano in qualche modo sistemati (il Bresciano, i vari distretti o ex distretti produttivi del Veneto) fanno ritorno a Trento, dove tempo fa avevano ricevuto la prima forma di accoglienza.
In origine, il progetto di don Dante Clauser (1923-2013) era molto più radicale. Ex parroco di montagna, ammiratore convinto dell’Abbé Pierre, negli anni Settanta fa vita di strada con i clochard di Torino e poi torna a Trento, anche lui, dove la sua vicenda si incrocia con quella di giovani come Piergiorgio Bortolotti, operaio alla Ignis e aspirante scrittore: uno che ha fama di contestatore solo perché insiste nel prendere sul serio lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II. Il primo Punto d’Incontro è una casa sempre aperta, nella quale don Dante e Piergiorgio dividono tutto con i “barboni” della Trento di allora. Con il passare degli anni, la cooperativa introduce una sorta di principio d’ordine rispetto al gioioso disordine degli esordi, ma il motto di don Dante (“Hai mangiato? Siediti!) è rimasto inalterato e serve ancora benissimo per venire incontro alle necessità dei pellegrini di oggi.
“Visitare gli infermi” era una delle opere di misericordia che più mi stava a cuore raccontare. La mia convinzione è cha la malattia vada pensata e vissuta in una dimensione di nuda umanità, davanti alla quale ogni pretesa ideologica dovrebbe avere il buon gusto di arretrare. Per questo motivo cercavo un’esperienza non confessionale, che mettesse la testimonianza al riparo di ogni sospetto volontarista o, peggio ancora, di mistica della sofferenza. Non perché la sofferenza non possa tradursi in mistica, né perché la volontà non abbia nulla a che vedere con l’accettazione consapevole del dolore. Lo dico nel modo più diretto: se davvero Cristo soffre sulla croce come ogni altro uomo, allora ogni altro uomo può soffrire sulla croce con la stessa dignità di Cristo.
Ho trovato quel che cercavo all’Azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova, nella struttura di Cure palliative diretta dal dottor Luciano Poma. Una realtà pubblica, serenamente laica, che ha avuto l’intelligenza di inserire nell’équipe di operatori e volontari anche un’assistente spirituale (è una religiosa, suor Brunella) che si affianca, su richiesta, ai pazienti terminali. Hospice, laboratorio estetico per indossare con disinvoltura gli inconvenienti della chemio, molta assistenza domiciliare e molta attività culturale, con convegni, cineforum, sensibilizzazione nelle scuole. L’obiettivo è di preparare i volontari di domani, ma anche di rompere il tabù che attualmente fa precipitare nel panico morale ogni tentativo di riflessione sulla sofferenza. Nella pratica clinica a Mantova il palliativista non è il medico che si affaccia nella stanza del malato all’ultimo momento, quasi a sancire l’ineluttabilità della morte, ma una presenza ben riconoscibile fin dalle prime fasi del processo di cura.
Di Mantova è originario anche don Giovanni Nicolini, figura tra le più luminose del cattolicesimo nell’Italia di oggi. È un monaco di ascendenza dossettiana, un biblista appassionato, un intellettuale che pratica e suscita la carità. La sua città è da molti anni Bologna, la parrocchia che fa da centro dell’attività sua e della sua congregazione, le Famiglie della Visitazione, è quella di Sant’Antonio alla Dozza, a ridosso del carcere. A differenza di don Dante Clauser, che ai poveri aveva pensato fin dall’inizio, don Giovanni e gli altri della Visitazione (monaci, suore, coppie di sposi) ai poveri si sono in un certo senso arresi. “Visitare i carcerati” è solo uno degli aspetti di questa resa da parte di una comunità che, costituitasi per condividere una vita di contemplazione, si è trovata ad aprire le porte ai diseredati di ogni tipo, fino a ospitare sul piazzale della chiesa una roulotte di rom.
A favore dei carcerati le Famiglie della Visitazione operano in vari modi. Attraverso il laboratorio sartoriale “Gomito a gomito”, che dà lavoro a un piccolo gruppo di detenute (un’esperienza per molti aspetti simile a quella di Casa Rut a Caserta); mediante il sostegno al Progetto Papageno, il coro di detenuti e non detenuti voluto da Claudio Abbado come forma di integrazione fra carcere e territorio, oltre che tra musica e impegno sociale; con i “Gruppi di Vangelo” animati nella casa circondariale, percorsi di conoscenza della Scrittura alla quale partecipano anche musulmani e non credenti. Don Nicolini non è il cappellano del carcere, posizione che al momento risulta ancora scoperta e alla cui assenza suppliscono i diversi sacerdoti bolognesi che alla Dozza celebrano messa. Allo stesso modo, quello delle Famiglie della Visitazione non è semplicemente un modello di volontariato, ma un esempio della permeabilità che dovrebbe caratterizzare la comunità cristiana rispetto alle esigenze della realtà che la circonda.
È la stessa testimonianza offerta dagli olivetani di San Miniato al Monte, a Firenze. Monaci anche loro, anche loro contemplativi per vocazione. Dell’abbazia però fa parte anche il cimitero delle Porte Sante, che negli ultimi decenni si è trasformato da mausoleo delle glorie toscane tra Otto e Novecento (Collodi, Artusi, Papini e tanti altri sono sepolti qui) nel luogo in cui trovano sepoltura i “morti giovani”, ragazzi stroncati da malattie fulminanti o vittime di incidenti sulla strada. Dall’incontro casuale di alcune madri in lutto ha preso forma, nel 2009, l’associazione “La porta accanto”, dal titolo della poesia in cui Charles Péguy contesta l’esistenza della morte, sostenendo che morire, in effetti, non è altro che stare “sull’altro lato del cammino”.
Niente di consolatorio, niente di estetizzante. I genitori rimasti orfani dei loro ragazzi si ritrovano una volta al mese, parlano di tutto, con franchezza e anche con durezza, vengono ascoltati dal giovane priore di San Miniato, padre Bernardo Francesco Maria. Incontrarmi con loro, in particolare con la fondatrice e presidente Loredana Recami (madre di Tommaso, 23 anni, ucciso da uno schianto in moto nel 2004), è stata per me l’occasione per capire che cosa può ancora significare “seppelire i morti”. Avvicinare il gesto di Antigone all’abbraccio della Pietà è forse il progetto che – alla fine di questo piccolo viaggio nella virtù – meglio corrisponde all’attualità e all’irriducibile umanità delle sette opere di misericordia corporale.