Perù, chi spera e chi dispera
Alla fine d’Avenida Jesus Maria Mariàtegui, nel distretto di Ate, sorge Huaycan, conosciuta anche col nome di Città della speranza, una comunità sorta accogliendo le istanze dei tanti peruviani sprovvisti di casa, che lasciavano i loro villaggi nella Sierra e nella Selva, ai quali veniva concesso un terreno sopra il quale edificare liberamente. Da allora son passati vent’anni, e le costruzioni, completamente svincolate da un qualsivoglia piano urbanistico, hanno proliferato. L’inverno non è mai rigido e non c’è pioggia dalla quale ripararsi, nella periferia di quella che, assieme a Il Cairo, è la più grande città nel deserto. Ciò consente a chiunque di erigere, alla meno peggio, quattro pareti sotto un tetto, siano esse in mattoni di fango o cemento, lamiera o legno, e poterla eleggere a propria dimora. L’altra faccia della medaglia è che un sudario di polvere grava su tutto, e l’insediamento è arroccato in un paesaggio mortificante, la cui tavolozza conosce solo variazioni di grigio cinereo, rendendolo un presepe senza muschio. Sarà per resistere a questo sfondo deprimente che tutte le baracchette, anche le più misere, vengono tinteggiate con colori abbacinanti. Quando risalgo lo sterro, le case di mattoni, spoglie d’intonacatura e con ciuffi di rugginosi cordoli sul tetto, cedono il passo a quelle più modeste in legno, e poi a quelle di materiali di fortuna, sulle cime, nelle invasioni, dove non si dovrebbe costruire e mancano allacciamenti ad acqua ed elettricità. Sollevando lo sguardo, magari sfrecciando su d’uno scooter adattato a risciò motorizzato, o a bordo d’un van convertito a minibus (qui il trasporto pubblico è un disastro), Huaycan si offre come una distesa di cabine inerpicate su un lido il cui mare si è prosciugato. In questo borgo, a 18 km ad est di Lima, è facile imbattersi in bambini vestiti alla marinara che si recano a scuola, nei turni mattutini o pomeridiani. Le famiglie, infatti, sono numerose, e non si possono fare undici passi senza imbattersi in una donna incinta od intenta ad allattare (diciamo che la fase storica è accostabile a quella che va dell’immediato dopoguerra italiano agli anni del Boom economico, ma contestualizzata nell’odierno mondo globalizzato).
Come per il trasporto, anche il sistema educativo pubblico è carente, e così molti preferiscono affidare ad istituti privati la formazione dei propri figli. I docenti statali, infatti, sono malpagati, al punto che affiancano a questo mestiere almeno un altro paio: vi lascio immaginare quale possa essere la loro motivazione e quante energie abbiano da spendere nelle loro classi. Così, sempre più associazioni organizzano corsi di recupero o doposcuola pomeridiani, per cercare di rimediare, dal basso, a queste lacune che altrimenti rischiano di protrarsi per tutta la vita: molti laureati, infatti, non arrivano alla sufficienza grammaticale, e questo scotto lo pagano nei colloqui di lavoro, dove si vedono facilmente superati da coloro che abbiano conseguito lo stesso titolo, ma in Nordamerica o Europa, e che godono d’una pregiudizievole corsia privilegiata. Gli stessi peruviani nutrono una radicata sfiducia verso il proprio sistema educativo. Farebbe piacere al Nobel Milton Friedman, secondo il quale solo il 10-12% del reddito nazionale sarebbe dovuto arrivare dal settore pubblico e che soleva dire: “sono quarantacinque anni che mi batto in favore della privatizzazione delle scuole”. Pare che alla fine gli sia riuscito d’esportare questo suo sogno a tutto il mondo. Altra cosa che mi fa un poco storcere il naso, è la natura tutt’altro che laica dell’insegnamento. Mentre in Italia si discute ancora di crocifissi in aula, ed ore di cattolicesimo da sostituire a quelle di storia delle religioni o insegnamento della morale, qui per sensibilizzare in merito alla cura dell’ambiente si scomodano ancora concetti come la Genesi e l’amore divino per il creato.
Spesso i padri di questi bambini sono assenti, e l’uso del plurale non è una svista, poiché ancor più frequentemente non tutta la prole appartiene all’attuale convivente/marito. Capita, quindi, che non a tutti venga riservata l’educazione scolastica, preferendone uno, quasi sempre maschio, a discapito delle donne, che crescono così nella convinzione di valere meno, ignare dei propri diritti e potenzialità, il che le rende vittime ideali del machismo, che qui, dove il femminismo non ha ancora mosso il primo passo, miete numerose vittime. E dire che è proprio la donna il cuore pulsante della famiglia, l’unica sulla quale possano far affidamento i più deboli, come sempre, i bambini. In un contesto di estrema povertà, disoccupazione, criminalità e maschilismo, come quello di Huaycan, innaffiato da ubriacature moleste, sono loro i capri espiatori perfetti sui quali sfogare ogni frustrazione ed insofferenza. Non è un caso se ogni scuola dispone, perlomeno d’uno psicologo sempre pronto ad indagare sulle situazioni familiari alle quali sono riconducibili i comportamenti dei bambini. Tante, anche in tal senso quindi, le iniziative delle associazioni di volontariato che provvedono ad accoglierli, facendo le veci d’uno stato sociale sempre più latitante od inadeguato, per donare loro un periodo di serenità lontano dai genitori, o semplicemente assicurargli un pasto regolare. I primi cinque anni, infatti, sono fondamentali per la formazione di un bambino, in quanto cruciali per lo sviluppo degli organi. Il numero abbastanza diffuso di coloro che abbiano maturato un ritardo mentale, poi difficilmente recuperabile, non congenito alla nascita, si spiega alla luce d’una alimentazione scorretta in questo periodo. Anche la nutrizione è pessima non tanto per la reale mancanza di cibo, quanto per l’errata educazione ed il perverso convincimento che quei cibi retaggio del passato, considerati poveri perché economici, vadano appena possibile rinnegati e sostituiti da quelli preconfezionati, nordmondisti e più costosi.
Davanti a tutta questa congerie di problemi, non ho potuto far a meno di chiedermi se vi fosse un trait d’union fra loro, e non so se sia solo il mio sguardo ad averne identificato uno, o se esso sia realmente rinvenibile. Perché, a mio giudizio, sembra proprio d’assistere alla crescita sfrenata di un Paese verso quella grande illusione che è lo sviluppo di stampo occidentale, sull’altare del quale viene immolata la tradizione e si abdica la propria identità. Mi pare di riscontrare l’emulazione completa del modello di capitalismo neoliberistico con un asservimento da manuale a tutti i suoi diktat: liberalizzazione delle risorse pubbliche (anche qui si combatte contro la privatizzazione dell’acqua pubblica, sebbene già sia impossibile berne senza filtrarla; il progetto della miniera Conga e del suo impatto sull’ambiente vissuto come un’ulteriore minaccia da scongiurare; la pesca massiva vale al Perù l’invidiabile decimo posto fra i Paesi dall’impronta ecologica più gravosa per l’intero pianeta), minor ingerenza possibile dello Stato e inseguimento di una crescita del PIL come unico indice affidabile per la misura del benessere della popolazione. In questa corsa sfrenata, dove il nuevo sol guadagna sempre più punti nel cambio con l’euro, i cantieri si avvicendano ed il lavoro non manca, ma il prezzo esatto è quello del depauperamento delle risorse naturali, contraendo così un pesante debito che erediteranno le generazioni future. Per recuperare il gap verso il Nord del mondo, del quale è persuaso di soffrire, il Perù ne replica pedissequamente errori e percorsi (come altri vicini prima di lui, si veda l’Argentina di qualche anno fa), senza badare alla crisi nel quale quella stessa parte del mondo ora langue. Un Paese, questo Perù, dalla ricchezza proverbiale già ai tempi di Cervantes, nel quale chiedendo oggi all’uomo della strada in cosa consista lo sviluppo, si riceva una risposta disarmante costituita da eserciti, aeroporti e casinò. Nulla di nuovo sul fronte subequatoriale, dunque, illuminato dallo stesso sole consumistico improntato all’edonismo che tutto appiattisce e omologa.
Ed in termini di ricadute umane, tutto questo come si traduce, potreste chiedermi. Ebbene, da consuetudine, le speranze per il futuro sono investite sui giovani: quelli di Huaycan raramente appaiono felici, persi fra tre lavori, nella tensione continua ad accedere al nuovo status symbol che possa dimostrare, agli altri ed a loro stessi, chi siano e quanto valgano. Escono di rado, la sera, non hanno tempo per se stessi e gli amici, e rincasano distrutti, cominciando a lavorare già da giovanissimi. Li incontro addormentati, stremati, sui sedili delle combi, mentre tornano negli appartamenti vuoti dove vivono soli, lontano dai familiari, consumando i loro pasti precotti per strada.
Vedo sullo schermo scorrere la stessa pellicola di sempre, quella dell’ultimo regime rimasto, quello del pensiero unico, con la sua nuova forma di potere, quello dei consumi, al canto delle cui sirene mi sembra anche questo angolo di mondo abbia ceduto. E proprio non mi riesce di far a meno di ricordarmi ancora una volta dei moniti pasoliniani: “i giovani volevano tutti la stessa cosa, che non era altro che l’eterna ripetizione di un modello, che rendeva uguali tutti i contenuti […] una volta resi tutti uguali a questi figli il consumismo toglierà prima le facoltà del volere, del pensare, del decidere e poi negherà anche l’esercizio della cultura e questi giovani non sapranno di aver perso il patrimonio più prezioso perché è il possesso culturale del mondo che dà la felicità”. Questo ritratto, all’epoca delineato per riassumere la condizione dei giovani italiani, mi pare si presti ottimamente per rendere un’idea dei nostri omologhi sudamericani, che stanno subendo la nostra stessa sorte.
Qui dove l’inizio delle lezioni è scandito dall’inno nazionale, al fianco d’un patriottismo sentito, convive un rinnegamento, più o meno dichiarato, delle proprie origini, specie qui dove la maggior parte delle persone sono il frutto d’immigrazione interna, per cui soffrono d’un complesso d’inferiorità verso i limegni, i quali, a loro volta, subiscono indifesi l’indebito fascino dello stile di vita nordmondista, emulandolo senza criticità alcuna. Chi ancora conosce l’idioma indio, il quechua, lo rinnega, vergognandosene, così come tutti gli altri retaggi precolombiani (vestiti e danze caratteristiche, ad esempio) vengono sbandierati solamente nella parentesi delle feste nazionali. Per dirla ancora come Pasolini, che già accennava ad’un’aculturazione da parte del centro consumistico, in grado di distruggere la varie culture del Terzo Mondo: “È il genocidio del nuovo fascismo, quello del falso progresso, al quale nessuno ha resistito, dovuta all’idea che la povertà sia un crimine vergognoso, e che la cultura delle classi povere (o india n.d.a.) debba essere sostituita con quella delle ricche e borghesi” alla cui cerchia tutti aspirano ad assurgere. La povertà viene vissuta come uno stigma, o un crimine del quale vergognarsi, perché chi vive in questo status, chi non consuma, è come se non esistesse nemmeno: i sottoconsumatori sono parìa, additati come fuoricasta. E ancora: “Si tratta dell’ossessione – e della perdita, della frantumazione, che di tale ossessione è la causa – dell’identità: l’identità come affermazione, conferma e riconferma, appartenenza, conformismo, riproduzione della realtà, come appiattimento nell’essere così del mondo, aderenza alla realtà, allergia, fobia nei confronti dell’Altro, estromissione ed eliminazione dell’alterità”.
Quindi, non c’è speranza, nella città che ne reca il nome? Forse sì, e la via per la quale passa viene indicata da quello stesso Mariàtegui nominato all’apertura di questa lettera. Importante intellettuale peruviano, vicino all’Italia, El Amauta cercò di dissipare quel razzista velo di Maya che gravava sugli indio, e che li voleva antropologicamente inferiori. A fargli eco, agli inizi dello scorso secolo, lo scrittore Manuel Gonzales Prada, secondo il quale: “Non costituiscono il vero Perú gli aggruppamenti di creoli e stranieri che vivono sulla striscia di terra situata tra il Pacifico e le Ande; la nazione è costituita dalle moltitudini di indio disseminate sulla striscia orientale della cordigliera”.
Quant’è rimasto ancora di vero in queste parole, oggi, laddove il 50% del reddito e della popolazione sono raggruppati nella sola Lima, può esser solo oggetto di speculazioni, ma, ho motivo di credere, la bontà del sentiero che ci hanno tracciato perduri ancora. Sarà solo facendo leva sul suo prezioso patrimonio locale, anziché accodandosi al sentiero globale, che il Perù, come l’intero Sud del mondo, potrà offrire il suo miglior contributo al pianeta ed a se stesso, forte d’una voce unica e fuori dal coro, d’un’identità preziosa da valorizzare anziché diluire, oggi più necessaria che mai per offrire una via d’uscita inedita a questo cul de sac verso il quale la nostra storia sembra, invariabilmente, condurci tutti, insieme a coloro che siano così miopi da seguirci.