Perché la crisi non è quella che vi raccontano
Luciano Gallino, morto a Torino lo scorso 8 novembre, non sarebbe sicuramente d’accordo con noi, visto che fino all’ultimo ha tentato, con i mezzi di cui disponeva (l’analisi socioeconomica e, sempre di più, la critica sociale) di ridare fiato alla sinistra italiana, a quel poco che, sulla soglia tra partiti di opposizione e movimenti sociali, evoca ancora un orizzonte socialista. Non sarebbe sicuramente d’accordo con la nostra asinina rassegnazione: un morto non si rianima.
Le sue analisi ci sembrano molto più utili, anzi essenziali, per chi, come noi, si occupa di educazione e intervento sociale. Noi educatori e operatori sociali ci troviamo in fondo a lavorare in mezzo alle macerie prodotte da quel sistema finanziario che Gallino si è prodigato a sezionare e spiegare a uso di chi non possiede gli strumenti necessari per leggerne le intricate fondamenta economiche. Conoscerne le cause prime (non uniche, certo) è ciò distingue un lavoro sociale fatto per tappare i buchi e anestetizzare i conflitti, da interventi educativi capaci di liberare e provocare cambiamenti.
La lucidità, la radicalità e la semplicità, prive di forzature ideologiche, con cui nei suoi ultimi lavori (Finanzcapitalismo, Il colpo di stato di banche e governi, Vite rinviate) ha delineato il drammatico quadro socio-economico imposto dal capitalismo contemporaneo e gli effetti che questo ha sulla vita delle persone e delle loro comunità non ha eguali. Ci appassionammo moltissimo, forse anche in ragione dello stile divulgativo e della persuasione che trasmetteva, per l’intervista che, tre anni fa, uscì da Laterza con il titolo La lotta di casse dopo la lotta di classe. Col tono moderato che lo contraddistingueva, dipingeva in quel libro una situazione da Tallone di ferro, il romanzo fantapolitico di Jack London, scritto da un lontano 2600, che racconta la guerra planetaria, prima ideologica e poi armata, fra una ristrettissima oligarchia di capitalisti e il resto di un mondo sempre più proletarizzato.
Prima di morire ha completato e precisato ulteriormente quelle riflessioni collegandole a quel fattore ecologico che rende ancora più stringente il suo grido d’allarme. Lo ha fatto in un testo, pubblicato nell’ottobre di quest’anno, che ha un titolo oggi chiaramente testamentario – Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, edito da Einaudi – di cui pubblichiamo un estratto, sollecitando a leggerlo, a studiarlo e a trarne conseguenze concrete.
Certo, il quadro “materiale” non è sufficiente a comprendere tutti i tratti dell’oppressione contemporanea. Ma senza quel quadro, che Gallino ha saputo spiegarci meglio e con più persuasione di chiunque altro, ogni critica risulta astratta e incapace di incidere su qualsiasi pratica politica, pedagogica e culturale. (Gli asini)
Quel che vorrei provare a raccontarvi nelle pagine che seguono, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea. A ogni sconfitta corrisponde ovviamente la vittoria di qualcun altro. In realtà noi siamo stati battuti due volte. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità.
L’idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino gode di diritti inalienabili, indipendenti dal suo censo o posizione sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell’insieme ha avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana per l’intera popolazione. (…)
Due periodi furono specialmente favorevoli atale marcia: gli anni trenta sotto la presidenza Roosevelt, negli Stati Uniti, che videro fra l’altro un grande rafforzamento dei sindacati e una severa regolazione della finanza, e i primi trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, in quasi tutti gli Stati europei, Italia compresa.
Poi, sul finire degli anni settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito l’attacco dell’idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi super-potenti e super-ricchi che controllano la finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza anti Wall Street di anni recenti si usa stimare nell’1 per cento: un dato che le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa iniziò quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l’uguaglianza, previa una preparazione che risaliva addirittura agli anni Quaranta. I governi Reagan e Thatcher provvidero a smantellare i sindacati; in Francia un presidente socialista, François Mitterrand, si impegnò a fondo per liberalizzare senza limiti i movimenti di capitale e le attività speculative delle banche — una delle radici della crisi attuale. In Germania il cancelliere Gerhard Schroeder tradì lo spirito e la prassi della socialdemocrazia, assestando con le leggi ricomprese sotto la dizione di Agenda 2010 un duro colpo ai salari, ai sussidi di disoccupazione, alle condizioni di lavoro nelle fabbriche, nonché a sanità e pensioni. In Italia ci pensarono le leggi Treu del 1997, Maroni-Sacconi del 2003, Fornero del 2012, Renzi del 2014-15 ad accrescere il precariato e ad avviare nuovamente i lavoratori dipendenti verso condizioni prossime alla servitù. Nello stesso periodo vennero effettuati tagli micidiali all’istruzione, all’università, alle pensioni, alla sanità, in base all’assunto (del tutto falso) che eravamo tutti vissuti al di sopra dei nostri mezzi.
Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima.
La stessa crisi del capitalismo ha molte facce: l’incapacità di vendere tutto quello che produce; la riduzione drastica dei produttori di beni e servizi i quali abbiano un reale valore d’uso; il parallelo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni limite, da utile ausiliare dell’economia produttiva a sfrontato padrone di ogni aspetto della vita sociale. A queste diverse facce della sua crisi il capitalismo ha reagito accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita – concetto che l’espressione “sistema ecologico” vuol riassumere – nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe necessario adottare prima che sia troppo tardi. Il tutto con il ferreo sostegno di una ideologia, il neoliberalesimo, che riducendo tutto e tutti a mere macchine contabili dà corpo a una povertà del pensiero e dell’azione politica quale non si era forse mai vista nella storia. Per questo le pagine che seguono puntano a spiegare come senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata.
Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che oltre al soggiacente ordine sociale mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante nelle sue varie espressioni, dai media all’accademia. La tesi da cui tale corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società predominanti in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare l’ordine esistente a favore delle élite o classi che formano tra l’1 e il 10 per cento della popolazione. È una tesi che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con Marx e poi con la teoria critica della società, elaborata dalla Scuola di Francoforte tra gli anni venti e cinquanta; si è prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con Bourdieu e Foucault, sin quasi ai giorni nostri.
La suddetta tesi trova una clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare dalla nostra. La rappresentazione di quest’ultima che vi propongono i giornali, la Tv, i discorsi dei politici, le scienze economiche, la stessa scuola, l’università, sono soltanto contraffazioni della realtà, elaborate a uso e consumo delle classi dominanti. È la funzioneche svolgono quotidianamente le dottrine neoliberali. E guai se uno osa contraddirle. Il richiamo alle distorsioni che l’enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto in campo sociale, politico, morale, civile, intellettuale viene confutato con l’idea che l’arricchimento dei ricchi solleva tutte le barche – laddove un minimo di riguardo all’evidenza empirica mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano, esso solleva soltanto gli yacht. Le critiche alle dilettantesche riforme costituzionali volute dal governo Renzi, dalle province al Senato, che di fatto renderebbero superfluo il voto dei cittadini perché provocherebbero un accrescimento incontrollabile del potere del partito vincitore e del governo da esso costituito, sono liquidate come resistenze di anziani soloni rimasti fuori del tempo. E l’idea che il tentativo di ritornare a una crescita quale si è registrata in pochi decenni della seconda metà del Novecento sia impossibile quanto rischiosa – un tema centrale di questo libro – è considerata un attacco alle libertà democratiche. Ciò nonostante non esiste più alcun punto di riferimento di qualche peso e visibilità sociale dal quale un pensiero critico emerga per confutare ad alta voce tali fittizie rappresentazioni della nostra società: non un partito, non un organo di rilievo dei meda, non una fondazione o una scuola.
AI posto del pensiero critico ci ritroviamo, come si è detto, con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un’ideologia strettamente connessa all’irresistibile ascesa della stupidità al potere. È l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno. Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio. Tali teorie non hanno previsto la crisi del 2008; non hanno avanzato una sola spiegazione decente delle sue cause; i loro modelli sono lontani anni luce dalla realtà dell’economia; hanno fatto passare il principio che anzitutto bisogna salvare le banche senza chiedere loro nulla (quanto ai cittadini, se la sbroglino); soprattutto, hanno avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile e desiderabile. Avrebbero dovuto essere sepolte da anni dalle proteste, se non anzi dalle risate; sono diventate invece uno strumento iugulatorio di governo delle nostre vite.
Ma per tornare alla stupidità: sia chiaro che qui la intendo come un comportamento contingente. È possibile che chi pronuncia o commette, in certe occasioni, affermazioni o atti di palese stupidità manifesti, in altri momenti della vita sociale, una normale intelligenza. La stupidità cui mi riferisco è quella che si incontra ogni giorno in campo politico ed economico. Si vedano le politiche di austerità. Hanno provocato disastri d’ogni genere, nel nostro come in altri paesi. Un numero crescente dei loro stessi sostenitori ammette ormai che sono state un fallimento. Lo ha riconosciuto persino uno dei padri nobili di dette politiche, il Fondo monetario internazionale. Ciò nonostante la maggioranza dei nostri governanti e dei politici che le esprimono insiste nel dire, agendo poi di conseguenza, che esse sono la cura migliore per tornare alla crescita, aumentare l’occupazione, rilanciare la competitività e il Pil. Pensate a quanto è successo nell’autunno 2014.