Per un’educazione finanziaria non colpevolizzante

L’attenzione al fenomeno della finanziarizzazione si trova spesso in analisi sulla nuova configurazione della disuguaglianza, che vede l’élite finanziaria dominare nella scala sociale. La soluzione è combattere la finanziarizzazione? Lamentarsi oggi della finanziarizzazione invocando il ritorno all’economia industriale, per dirla con le parole di Marco d’Eramo nel suo ultimo libro Dominio (Feltrinelli 2020), è come “se nell’Ottocento avessero recriminato per il sopravvento dell’industria sull’agricoltura: una partita persa in partenza”, ma soprattutto non si focalizza il punto. Il punto centrale che permette il dominio nella sua configurazione odierna è l’aver normalizzato una serie di situazioni derivanti da uno sfruttamento grave, inducendo tutti noi a leggerle in una precisa cornice di significato: “ognuno di noi è l’imprenditore di se stesso”, anche il migrante su un barcone. Si tratta della retorica neoliberista della gestione individuale dei rischi, con implicazioni ancora più forti sulle cornici di significato entro cui i dominati leggono la loro situazione: colpevolizzati per le loro stesse sconfitte, non si ribellano. La questione centrale, quindi, è come viene mistificata la realtà nei frame neoliberisti. La prima azione da fare per contrastare il dominio è superare gli eufemismi, ci consiglia D’Eramo, e svelare la gravità di certe mistificazioni. Educando i cittadini.
Se leggiamo con le lenti proposte da D’Eramo l’educazione finanziaria, le prime questioni da demistificare sono quelle che la scienza economica ci presenta come leggi. D’Eramo ricostruisce in modo preciso come i concetti e modelli economici su cui si basano le mistificazioni sono utilizzati in descrizioni della realtà (che come descrizioni dipendono dal punto di vista e dal modo con cui la realtà si guarda) che vengono però fatte passare come dimostrazioni. Questo è chiarissimo nell’applicazione dei modelli di calcolo matematico-statistico del rischio di insolvenza degli individui per accedere al credito. Lo score è definito da un algoritmo, quindi dipende da come è stato costruito l’algoritmo, tant’è che possiamo scoprire delle differenze tra sistemi bancari differenti, ad esempio tra Italia e Stati Uniti. Ma quando l’algoritmo emette lo score sembra che ci si dimentichi del suo radicamento in un sistema socio-economico, e diventa la realtà. Non solo, diventa un elemento con cui si giudica un gruppo sociale nel suo insieme.
Perché accettiamo questo giudizio? È come se lo score fosse emesso da un oracolo. La complessità della contemporanea ingegneria finanziaria – quante persone sanno descrivere il processo di cartolarizzazione o conoscono l’algoritmo con cui vengono valutate? – richiede una fede nel funzionamento del sistema, come in ogni sistema complesso à la Giddens, e non ha basi cognitive.
Educare alla cittadinanza economica
In questo contesto, le persone non vengono edotte sulla complessità del sistema, ma sulla necessità di sapersi amministrare da sole in questo sistema. Nella presentazione di una nota realtà di economisti operativa in Italia di una iniziativa di promozione legata all’educazione finanziaria leggiamo: “l’offerta divulgativa si scontra con una forte rigidità e un basso assorbimento dei concetti economici da parte del pubblico italiano. La considerazione di partenza è che il futuro prossimo sarà ricco di sfide e diverrà sempre più necessario un esercizio consapevole della cittadinanza economica, affinché gli errori dei singoli non si traducano in conseguenze negative per tutti”.
La creazione di “cittadini economici” sta vedendo una proliferazione di corsi di educazione finanziaria. In Italia dal 2017 è attivo il Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria, in seguito a un Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e con quello dello sviluppo economico. Guardando alla mappatura delle iniziative, il 10% ha come proponente un ente pubblico, dato che arriva al 18% se si considerano le Università. Il 43% dei programmi è rivolto genericamente a cittadini adulti, mentre i progetti rivolti a chi ha attività imprenditoriali si ferma al 3%. La tendenza rintracciabile in questi dati è di una crescita dei programmi proposti dallo Stato, gestiti da enti del terzo settore, rivolti alle famiglie e inerenti la gestione oculata delle proprie risorse. In questo quadro si inseriscono i progetti di educazione finanziaria per i poveri.
Il caso dell’educazione finanziaria per i poveri
La prima Ong italiana a organizzare corsi di educazione finanziaria per utenti poveri si richiama esplicitamente a una logica di accountability propria della finanza pubblica, per cui redigere un bilancio in cui si mettono nero su bianco entrate e uscite permetterebbe di raggiungere consapevolezza dell’utilizzo del denaro, di come tagliare e pianificare le spese, e soprattutto creare un cuscinetto di risparmi per sostenere economicamente eventi critici, es. una malattia o la disoccupazione.
Il rendicontare come strumento di consapevolezza è riconosciuto da decenni nel contesto del consumo critico occidentale. È la retorica del consum-attore, il consumatore che diventa consapevole del suo stile di vita e dell’impatto sulla sostenibilità sociale e ambientale, nonché sulla sua sostenibilità economica: decidendo come utilizzare il proprio denaro (riducendo gli sprechi, acquistando prodotti certificati…) “fa politica”, ovvero cerca di riformare il sistema capitalistico. In Italia possiamo citare tra i primi i “Bilanci di giustizia” lanciati nel 1993 dai Beati costruttori di Pace e l’attività delle Mag – mutue autogestioni, poi largamente confluite in Banca Etica, che dagli anni Settanta svolgono attività di sensibilizzazione sull’uso del denaro.
L’educazione finanziaria rischia di essere intesa non come “conoscenza delle grandezze finanziarie” ma come “responsabile gestione individuale del rischio”. Sottendendo che l’incertezza che permea le vite possa essere oggetto di un calcolo razionale
Nel caso del corso proposto dalla Ong, però, siamo in un contesto differente, in quanto la logica di accountability è rivolta a consumatori indigenti: la consapevolezza è finalizzata a far sì che i consumatori mettano a tema e cambino il loro stile di consumo non per riformare il sistema economico ma per garantirsi la sussistenza quotidiana. Inoltre, questa logica è inserita in un quadro di partnership pubblico-privato interna a un sistema di welfare – prevalentemente pubblico – in restrizione.
In questo caso il rendicontare è piuttosto riconducibile al frame originato dall’asset building statunitense (costituzione di un patrimonio personale), accolto dall’Ocse a fine anni Novanta – all’interno di un più ampio quadro di promozione dell’educazione finanziaria dei cittadini – quale valido strumento di lotta alla povertà:
L’asset building, cioè la costituzione di un patrimonio per le fasce sociali a basso reddito attraverso il risparmio integrato rimette in discussione la centralità stessa delle politiche di sostegno al reddito quali strategie tradizionali per alleviare la povertà e migliorare le condizioni economiche e sociali dei ceti meno abbienti (da L’asset building e l’uscita dalla povertà. Un nuovo dibattito sulla politica del welfare, Ocse-Cnel, 2003, pag. 1).
La messa in pratica di tale impostazione, per la stessa Ocse, avviene necessariamente a livello locale e richiede la costruzione di un network di attori che vede collaborare in partnership pubblico, privato e Terzo settore:
Raggiungere queste persone (ndr. i poveri) è un compito da svolgersi a livello locale, che spetta ai governi locali, alle Ong locali, agli istituti di beneficenza locali e ai gruppi imprenditoriali locali, possibilmente in collaborazione (ibidem).
Anche la Commissione Europea, con una comunicazione ad hoc del 2007 (Financial education Com/2007/0808), promuove la financial literacy quale misura di protezione dei cittadini. Il termine empowerment ricorre anche nella comunicazione Ce ed è collegato alla consapevolezza dell’uso del proprio denaro: “empowering them (…) to understand some essential basics of personal finance”. Secondo la Ce molti individui falliscono nel pianificare le proprie finanze e questo aumenta la probabilità di avere difficoltà se le loro circostanze personali cambiano, citando esplicitamente la disoccupazione. Anche la Ce indica il livello locale quale livello di implementazione dell’educazione finanziaria e incita alla costruzione di un network di attori pubblico-privati, e tra questi ultimi un posto di rilievo è riservato agli esperti di economia.
Sul territorio, i corsi della Ong si inseriscono in effetti in una serie di progetti, in cui partnership tra attori comunali soprattutto del Nord Italia e associazioni locali ricevono finanziamenti delle fondazioni bancarie. I corsi mescolano strumenti propri del frame dell’accountabilty (bilanci familiari) con quelli dell’asset building (costruzione di un patrimonio personale) con un risultato ibrido in termini di messaggio: il primo frame, nell’ottica del consumo critico, implica una costruzione partecipata dello strumento e un utilizzo condiviso, per cui le famiglie che compilano i bilanci di giustizia (o che sono coinvolte in altri percorsi di finanza critica) sono connesse in rete – telematica e non, condividono i bilanci, partecipano a incontri periodici, fanno massa critica per il raggiungimento di un obiettivo ideale comunitario di riforma del sistema capitalistico. Il secondo frame richiama invece la visione di attore razionale atomizzato, proprio dell’economia, che da solo deve far fronte ai rischi che “inevitabilmente” il sistema economico gli pone, per cui le famiglie devono fare il bilancio per contenere le spese e risparmiare perché è l’unico modo per sopravvivere in quanto escluse dal sistema capitalistico.
L’educazione finanziaria rischia così di essere intesa non come “conoscenza delle grandezze matematico-finanziarie” ma come “responsabile gestione individuale e autonoma del rischio”. Sottendendo che l’incertezza che permea le vite contemporanee possa essere oggetto di un calcolo razionale e previdente da parte delle famiglie meno abbienti. Tornando a D’Eramo, possiamo vedere i contorni di un’operazione ben congegnata: la verità dei modelli, la fede dei non esperti, la colpa e la soluzione che disciplina ad accettare i modelli. D’Eramo conclude il suo libro con la necessità di un ribaltamento. Quello di alimentare un conflitto forte, avvertendo che “lo scontro, il conflitto ideologico per svelare la realtà, sconfiggere l’eufemismo è davvero titanico”. Il mito ci insegna che un’impresa titanica non è un’impresa impossibile.
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