Per ricordare Adam Zagajewski

A cura di Matteo Campagnoli
Nel 2001 vivevo a New York e come molti altri ho letto Cerca di lodare il mondo mutilato di Adam Zagajewski nel numero speciale del “New Yorker” uscito dopo l’11 settembre. La poesia, che lo ha reso istantaneamente famoso negli Stati Uniti, era stata scritta un anno e mezzo prima ed era ispirata a un viaggio fatto con il padre per i villaggi ucraini della Polonia. Trattava di una tragedia completamente diversa da quella che stavamo vivendo, ma riusciva a elevarsi al di sopra della contingenza per parlare un linguaggio universale, quello di un uomo che esorta se stesso ad accettare un mondo in frantumi, a sopportarne il peso di morti e dolore in nome di pochi fugaci momenti di intima gioia e trascendenza.
Ricordo perfettamente lo stupore che avevo provato leggendola, quella scossa che si avverte quando ci si imbatte per la prima volta in un vero poeta, come se all’improvviso fossi entrato nell’orbita di un nuovo pianeta che, lo sentivo, stava già esercitando la sua forza gravitazionale sulla mia vita. A colpirmi era stata soprattuto la sua voce: evitava il melodramma, eppure vibrava di sofferenza, era compassionevole e insieme distaccata; sembrava arrivare da un luogo situato allo stesso tempo dentro e fuori la nostra condizione umana. Ne avevo parlato subito con Derek Walcott, il mio maestro, e avevo scoperto che anche lui aveva avuto un’esperienza simile. Negli anni ’80 aveva letto Andare a Leopoli su “The New Republic” mentre andava a lezione. Era così esaltato che aveva fatto fermare il taxi davanti a una cabina telefonica e aveva chiamato il suo amico Iosif Brodskij per sapere se l’avesse letta anche lui. In realtà era stato Brodskij a portare le poesie di Adam all’attenzione del loro editore americano, Roger Straus di FSG. “Joseph was always a step ahead” (Iosif era sempre un passo avanti) era stato il suo commento rassegnato. Una volta arrivato alla Boston University, aveva fatto fotocopiare la poesia per condividerla immediatamente con i suoi studenti. Non ce la faceva a tenersela per sé.
Adam l’ho poi conosciuto l’anno seguente al Russian Samovar, sulla 52esima strada, in una sala gremita di russi stravaganti e poeti di mezzo mondo, tra caraffe di vodka che si materializzavano sui tavoli come per incanto. La prima cosa che notavi era la sua pacatezza. Se ne stava piuttosto in disparte, un osservatore partecipe dagli occhi vispi e le sopracciglia inquisitive, ma non appena apriva bocca conquistava il centro della scena con la sua arguzia e il suo umorismo obliquo, resi ancora più irresistibili dalla peculiare cantilena con cui pronunciava le parole, quasi ne accarezzasse le sillabe. Nonostante la differenza di età, siamo diventati amici. Le occasioni per rivedersi, fortunatamente, non sono mancate. E tra un incontro e l’altro c’era l’aspettativa di leggere la prossima poesia, il prossimo saggio: due facce di un’unica moneta – testa, rivelazione; croce, chiarimento – lucidata e rilucidata in più di mezzo secolo di dedizione alla sua arte, di ricerca spirituale, riflessione rigorosa e confronto con il mondo: la verità incisa su una superficie secca e dura, per parafrasare un suo verso.
Una primavera, quando eravamo entrambi tornati a vivere nei nostri Paesi d’origine, mi aveva scritto per dirmi che gli avrebbero dato un premio a Cetona, e che sarebbe stato felice se fossi riuscito a raggiungerlo. Cetona è uno di quei posti che non dovrebbero esistere da quanto sono belli, arroccato com’è su una collina circondata da campi che in quel pomeriggio di giugno luccicavano sotto il sole incontrastato della Toscana. Il paese era deserto, forse abbandonato, non c’era nessuno tranne l’esigua, elegante platea di presunti amanti della poesia che si era raccolta per l’occasione.
Sapeva bene come l’esistenza sia per sua natura prevalentemente dominata dall’angoscia, dall’inquietudine e, nel peggiore dei casi, dall’indifferenza
In perfetto stile nostrano, i preamboli non finivano mai. Quando è arrivato il suo turno, Adam è salito sul palco per ricevere il premio e ha recitato, con la sua usuale modestia, non più di due o tre poesie. Poi, gli organizzatori gli hanno chiesto di leggere Andare a Leopoli. Non sono stati parchi di complimenti, e l’hanno definita, giustamente, una delle più grandi poesie del Novecento, ma subito dopo gli hanno chiesto di tagliarla, perché era troppo lunga. Adam, da gentiluomo qual era, ha letto i primi versi senza battere ciglio, si è fermato, in italiano ha commentato: “Amputazione” e poi ha ripreso a leggere l’ultima parte. Discreto, sottile, capace di trovare la parola che dà alle cose il loro nome. Ciò che rendeva il tutto ancora più ironico era che Adam aveva scritto copiosamente, in versi e in prosa, su questo genere di atteggiamento: l’elogio formale e la fruizione tiepida della cultura – senza flash – al posto della reale partecipazione al mistero dell’arte, la rischiosa apertura a riceverlo dentro di sé e esserne trasformati.
Sotto quel suo aspetto placido, quasi schivo, Adam era un difensore appassionato dell’ardore, della bellezza, della compassione, del significato – una sorta di infiltrato delle schiere angeliche nel mondo degli uomini. Sapeva bene come l’esistenza sia per sua natura prevalentemente dominata dall’angoscia, dall’inquietudine e, nel peggiore dei casi, dall’indifferenza – “Le sere sono solo una custodia vuota, / una scatola priva di segreti, / verso il mattino invece il cosmo sembra/ estraneo e arido come lo schermo del televisore” – ma non ci stava a lasciare che avessero la meglio: “C’è sempre un po’ di gioia, e persino il bello / lo abbiamo sempre accanto, sotto la corteccia / di ogni ora, nel cuore silenzioso del raccoglimento, / e in ognuno di noi si cela un’altra persona: / universale, forte, invincibile”.
Ci siamo visti per l’ultima volta due anni fa a Milano. Era venuto all’Università Cattolica per un evento in suo onore. Ha letto dal suo ultimo libro, Asimmetria, alcune poesie molto toccanti su sua madre (lui, che ai suoi studenti diceva di non scrivere mai sulla famiglia, perché è noioso). Alla fine dell’incontro, il sole stava tramontando, c’era una luce stupenda, l’aria era mite, ma una macchina lo stava già aspettando per portarlo a Novara, dove aveva un altro impegno. Non voleva andarsene subito, così ci siamo attardati un po’ sul marciapiede. Il tempo incalzava. Le cose belle durano sempre poco, ma, se non fosse così, i poeti sarebbero senza lavoro, abbiamo scherzato. Alla fine è salito in macchina, continuando a sorridere e a salutare dal finestrino finché l’auto non è arrivata in fondo alla via e il suo viso gentile è scomparso dietro l’angolo, lasciandomi addosso, come sempre, un gran voglia di rivederlo.
Cerca di lodare il mondo mutilato
Cerca di lodare il mondo mutilato.
Ricorda i lunghi giorni di giugno,
le fragole, gocce di vino rosé.
Le ortiche che metodiche ricoprono
le case abbandonate degli esuli.
Devi lodare il mondo mutilato.
Hai visto yacht eleganti e navi;
una aveva davanti a sé un lungo viaggio,
il nulla salato attendeva le altre.
Hai visto i profughi fuggire senza meta,
hai sentito le urla di gioia dei carnefici.
Ricorda i momenti in cui eravamo insieme
in una stanza bianca e la tenda fluttuava.
Ripensa al concerto quando la musica esplodeva.
Hai raccolto ghiande nel parco in autunno
e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.
Loda il mondo mutilato
e la piuma grigia persa da un tordo
e la luce delicata che si smarrisce e svanisce
e ritorna.
Adam Zagajewski
Trad. Matteo Campagnoli
Andare a Leopoli
Andare a Leopoli. Da quale stazione
per Leopoli, se non in sogno all’alba,
quando la rugiada luccica su una valigia
e gli espressi e i rapidi nascono. Partire in fretta
per Leopoli, in piena notte o di giorno, a settembre
o a marzo. Soltanto se Leopoli esiste,
se la trovi tra i confini e non solo
nel mio nuovo passaporto, se lance di alberi,
frassini, pioppi, respirano ancora pesante
come Indiani e i ruscelli farfugliano
il loro oscuro Esperanto e i serpenti come soffici
segni nella lingua russa svaniscono
nell’erba. Fare i bagagli e andare, partire
senza addii, a mezzogiorno, scomparire
come fanciulle che svengono. E bardane, il verde
esercito delle bardane, e più in basso, sotto i parasole
di un caffè veneziano, le lumache conversano
sull’eternità. Ma la cattedrale s’innalza,
ricordi, così verticale, così verticale
come la domenica e i tovaglioli bianchi e un secchio
sul pavimento traboccante di lamponi e il mio
desidero che non c’era ancora,
solo giardini di erbacce e l’ambra
delle ciliegie e l’indecente Fredro.
C’era troppa Leopoli, nessuno poteva
comprenderne i quartieri, sentire
il sussurro di ogni pietra scottata
dal sole, di notte la chiesa ortodossa era silenziosa,
non come la cattedrale, i Gesuiti battezzavano
le piante, foglia a foglia, ma queste crescevano,
crescevano così incuranti e la gioia aleggiava
ovunque, nei corridoi e nei macinacaffè
che giravano da soli, nelle teiere
celesti e nell’amido, che fu il primo
formalista, nelle gocce di pioggia e nelle spine
delle rose. Forsizie ghiacciate ingiallivano alla finestra.
Le campane suonavano e l’aria vibrava, le cuffie
delle suore veleggiavano come golette accanto
al teatro, c’era così tanto mondo che doveva
concedere un bis dopo l’altro,
il pubblico era in estasi e non voleva
lasciare la sala. Le mie zie non sapevano
ancora che le avrei resuscitate
e vivevano così fiduciose, così sole;
le domestiche, pulite e stirate, correvano
a prendere la panna fresca, in casa
un po’ di rabbia e grandi speranze, Brzozowski
venne a tenere una lezione, uno dei miei
zii lavorava a un poema intitolato Perché
dedicato all’Onnipotente, e c’era troppa
Leopoli, non ci stava nel piatto,
faceva scoppiare i bicchieri, straripava
da stagni e laghi, fumava da ogni
camino, si mutava in fuoco, in temporale,
rideva col fulmine, diventava docile,
tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento,
dormiva sul divano accanto al tappeto dei Carpazi,
c’era troppa Leopoli e ora
non ce n’è più, cresceva in continuazione e le cesoie
la tagliavano, gelidi giardinieri, come sempre
a maggio, senza pietà, senza amore,
ah, aspetta che arrivi il tiepido
giugno con le sue soffici felci, gli sconfinati
campi dell’estate, vale a dire la realtà.
Ma le forbici tagliavano, lungo le linee e nelle
fibre, sarti, giardinieri e censori
tagliavano corpo e ghirlande, le cesoie lavoravano
diligenti, come in un ritaglio per bambini,
lungo le linee tratteggiate di un capriolo o di un cigno.
Forbici, temperini e lamette graffiavano,
tagliavano e accorciavano le vesti voluttuose
dei prelati, delle piazze, dei palazzi, gli alberi
cadevano silenziosi come in una giungla
e la cattedrale tremava, la gente si diceva addio
senza fazzoletti, senza lacrime, la bocca
così secca, non ti vedrò mai più, tanta morte
ci attende, perché ogni città
deve diventare Gerusalemme e ogni uomo un ebreo,
e ora, in fretta, soltanto fare
le valigie, sempre, ogni giorno,
e andare senza fiato, andare a Leopoli, dopotutto
esiste, calma e pura come
una pesca. Leopoli è ovunque.
Adam Zagajewski
Trad. Matteo Campagnoli
Senza flash
(un divieto spesso incontrato nei musei italiani)
Senza fiamma, senza notti insonni, senza ardore,
senza lacrime, senza una forte passione, senza convinzione,
così continueremo a vivere; senza flash.
Tranquilli e calmi, docili, assonnati,
le mani macchiate dall’inchiostro dei quotidiani,
i volti unti di crema; senza flash.
I turisti sorridono nelle loro camicie linde,
Herr Lange e Miss Fee, Monsieur, Madame Rien
entrano nel museo; senza flash.
E stanno davanti a un Piero della Francesca dove
Cristo, quasi folle, esce dalla tomba,
risorto, libero; senza flash.
E forse allora accadrà qualcosa di imprevisto:
si scuote il cuore, nascosto sotto il cotone liscio,
cala il silenzio, scatta il flash.
Adam Zagajewski
Trad. Paola Malavasi
Dalla rivista “Poesia”, Anno XVII, Maggio 2004, N. 183, Crocetti Editore
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