Pandemia, povertà e impoverimento

Nell’ultima pubblicazione dell’Istat sulla povertà, diffusa a inizio marzo, ci sono molti dati che rappresentano la situazione della popolazione italiana all’ombra della pandemia.
Lo shock dell’evento esogeno, il blocco delle attività economiche, l’esposizione continua a chiusure a riaperture hanno determinato una caduta del prodotto interno lordo, nel 2020, di quasi nove punti e questo si è tradotto per molti in una forte incertezza nella possibilità di contare su un reddito se non proprio stabile, almeno prevedibile nel corso dell’anno. Su molti è calata una sorta di nebbia che ha oscurato progetti e opportunità e che ha demolito le piccole speranze di poter costruire o ricostruire una condizione soddisfacente di vita.
Rispetto al 2019, nel 2020 il numero di famiglie in povertà assoluta è aumentato di 335mila e il numero delle persone povere di circa un milione. La quota delle famiglie povere è oggi il 7,7% contro il 6,4% del 2019. La quota di individui poveri è il 9,4% contro il 7,7% dell’anno prima. In totale le famiglie povere sono oltre due milioni, gli individui 5,6 milioni.
Rispetto a qualche anno prima, nel 2019 le cose erano leggermente migliorate, ma la pandemia ha bruciato le attese di miglioramento, complicando di nuovo la condizione consolidata delle sacche di povertà ed estendendo il perimetro del rischio anche a tanti che si ritenevano al riparo da tale rischio.
Se ci portiamo sulla prospettiva di lungo periodo, e cioè a partire dal 2005, possiamo anche osservare che il fenomeno della povertà, nel frattempo, si è cronicizzato ed è diventato meno elastico all’andamento della situazione dell’occupazione in generale.
Rispetto al 2005, anno a partire dal quale si è cominciato a misurare la povertà assoluta, il fenomeno ha mantenuto una tendenza di lungo periodo comunque negativa: la famiglie povere sono raddoppiate, gli individui poveri sono triplicati e, soprattutto, si è allargata la forbice fra famiglie e individui, con una crescita più accelerata di questi ultimi. Si è progressivamente modificata anche la fisionomia delle famiglie povere: aumentano quelle il cui capofamiglia è comunque occupato (sia come dipendente, sia come autonomo), quelle con presenza di minori, le famiglie con stranieri (in questo caso la percentuale sale al 25,7%). Scontato ricordare che al Sud le condizioni sono peggiori che nel resto del Paese, ma in quest’ultimo anno la dinamica della povertà è stata molto più severa nelle regioni settentrionali.
Volendo tirare le somme da queste indicazioni, si potrebbe facilmente affermare che il reddito da lavoro in molti casi non è più sufficiente per sfuggire al rischio della povertà, che avere figli piccoli aumenta l’incertezza, che essere stranieri in Italia significa, per una famiglia su quattro, restare ai margini. Non solo. Se ci portiamo sulla prospettiva di lungo periodo, e cioè a partire dal 2005, possiamo anche osservare che il fenomeno della povertà, nel frattempo, si è cronicizzato ed è diventato meno elastico all’andamento della situazione dell’occupazione in generale. Nel 2005 il tasso di occupazione era del 57,5% e le famiglie povere il 3,6%. Nel 2019, a fronte di un aumento del tasso di occupazione di un punto e mezzo rispetto al 2005 (59%), la povertà assoluta ha raggiunto il 6,4% delle famiglie (quasi tre punti in più).
L’emergenza ha certamente scardinato molte certezze sugli strumenti di contrasto al fenomeno della povertà, ma in ogni caso, in questi ultimi anni non siamo riusciti a contenerlo nonostante siano stati attivati strumenti nuovi come il reddito di inclusione e il reddito di cittadinanza. Oggi ci troviamo spiazzati dall’emergenza del 2020 nonostante siano stati erogati “ristori” per decine di miliardi di euro, siano stati autorizzati più di quattro miliardi (!) di ore di cassa integrazione, sia stata stanziata una massa di risorse a compensazione dell’impatto economico che ha comunque generato debito pubblico e portato il deficit dell’anno al 10%.
Nasce anche qualche riserva nel riporre tutte le speranze di ripresa nel Piano nazionale di ripresa e relisienza (Pnrr): se in meno di un anno abbiamo speso qualcosa come 140 miliardi per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia, viene da chiedersi come potremmo riprenderci con un Piano sì da 200 miliardi, ma che – al netto di tutte le condizioni di spesa, delle difficoltà di fare investimenti a breve, delle regole di rendicontazione cui sono sottoposte le tranche di erogazione delle somme da parte dell’Unione Europea – ha un orizzonte temporale di sei anni (anzi cinque, visto che fra una cosa e l’altra i primi interventi non sarà possibile realizzarli che dal 2022), prevede una quota di investimenti del 70% (circa 140 miliardi), soprattutto in opere pubbliche (in media in Italia ci vogliono almeno cinque anni per realizzare un intervento infrastrutturale).
L’emergenza ha certamente scardinato molte certezze sugli strumenti di contrasto al fenomeno della povertà, ma in ogni caso, in questi ultimi anni non siamo riusciti a contenerlo nonostante siano stati attivati strumenti nuovi come il reddito di inclusione e il reddito di cittadinanza.
Un altro punto di vista dal quale osservare il fenomeno della povertà è dato dalla spesa per consumi delle famiglie italiane. Fra il 2019 e il 2020 si è passati dai 2.560 euro di spesa media mensile ai 2.328, 232 euro in meno. La riduzione è stata del 9,1% e ha riportato il valore dell’indicatore al livello di venti anni fa. Al Nord la spesa media supera i 2.500 euro, nel Mezzogiorno si attesta poco sopra i 1.900 euro. Sono aumentate in maniera modesta le spese alimentari (+0,8%), si sono ridotte tutte le altre (abbigliamento -23,2%; trasporti -24,6%; cultura -26,5%); per le famiglie povere le spese alimentari rappresentano il 77% della spesa totale, per le altre famiglie il 56,8%.
La riduzione dei consumi ha portato, tra l’altro, all’aumento dei risparmi per molte famiglie: nei primi nove mesi del 2020 sono aumentati di 122 miliardi di euro, portando la liquidità sui conti correnti degli italiani alla cifra di 1.700 miliardi di euro, una somma vicina al Pil medio degli ultimi anni. Nello stesso tempo, circa un terzo delle famiglie è dovuto ricorrere ai propri risparmi per far fronte alla crisi: dalle sei alle settecentomila si sono trovate in grave difficoltà economica e hanno ridotto una quota significativa delle proprie risorse messe da parte o hanno dovuto indebitarsi. Paradossalmente, alcuni hanno tratto vantaggio dai mesi di chiusura e di restrizioni alle attività sfruttando l’opportunità di un risparmio “forzoso” che ha rafforzato la propria situazione patrimoniale; altri hanno subito una drastica riduzione delle proprie risorse precauzionali.
Secondo l’indagine straordinaria sulle famiglie italiane della Banca d’Italia, svolta fra aprile e maggio 2020, prima dell’emergenza Covid quasi la metà degli italiani lamentava una certa difficoltà nell’arrivare alla fine del mese con il proprio reddito familiare. La quota di chi affermava di avere difficoltà o molta difficoltà raggiungeva il 14,2% sul totale, dato questo leggermente inferiore per la parte più giovane (11,0%) e lievemente più ampia fra le donne (14,8%). Durante i mesi di lockdown, 15 italiani su 100 hanno visto ridursi il reddito del proprio nucleo familiare per più del 50%, mentre altri 19 italiani su 100 hanno subito una contrazione compresa fra il 25 e il 50% del reddito, per un totale di 34 italiani su 100. Più grave la situazione fra le persone con un’età compresa fra i 18 e i 34 anni, per le quali il peggioramento inatteso delle propria situazione economica ha riguardato 41 individui su 100.
In sintesi, la metà degli italiani (50,8%) ha dichiarato di avere in qualche modo sperimentato un’improvvisa caduta delle proprie disponibilità economiche, con punte del 60% fra i giovani, del 70% fra gli occupati a tempo determinato, dell’80% fra gli imprenditori e i liberi professionisti. La percentuale fra gli occupati a tempo indeterminato ha in ogni caso raggiunto il 58,3%.
Fra fine agosto e settembre, la Banca d’Italia ha condotto la seconda indagine straordinaria sulle famiglie italiane. In quelle settimane, anche a fronte di una minore paura del contagio e a un miglioramento nelle aspettative sulla situazione economica generale, la quota delle famiglie che dichiarava una riduzione del proprio reddito a causa delle conseguenze della pandemia era rimasta intorno al 30%; questo dato saliva al 40,6% fra i dipendenti a termine e addirittura al 51,6% fra i lavoratori autonomi. Il 25% delle famiglie riteneva che il proprio reddito non sarebbe tornato al livello precedente l’emergenza sanitaria, il 32% prevedeva di dover comunque diminuire nei successivi tre mesi la spesa per alimentari, abbigliamento e servizi per la casa.
Paradossalmente, alcuni hanno tratto vantaggio dai mesi di chiusura e di restrizioni alle attività sfruttando l’opportunità di un risparmio “forzoso” che ha rafforzato la propria situazione patrimoniale; altri hanno subito una drastica riduzione delle proprie risorse precauzionali.
In sostanza, da quanto sopra si deve ammettere che alla consueta rappresentazione dei segmenti deboli si debba oggi dar conto anche di quella che riguarda altre categorie che, prima della pandemia, si consideravano o erano considerate al riparo dal rischio economico. Anche scontando eventuali comportamenti opportunistici, è di particolare effetto che ci siano stati, nel corso dell’anno, più di 4 milioni di beneficiari del bonus di 600 euro rivolto al lavoro indipendente, di cui un milione e 400mila commercianti, un milione e 200mila artigiani, 500mila fra professionisti e collaboratori con gestione separata Inps. Hanno anche ricevuto il bonus più di 400mila liberi professionisti aderenti agli ordini professionali e con proprie casse previdenziali. Fra questi, 100mila ingegneri e architetti (il 59,2% del totale di questi professionisti iscritti all’ordine), 140mila avvocati (57,5% sul totale), 26mila commercialisti (38%), 33mila psicologi (54,8%).
È evidente che, data la pervasività dell’impatto economico della pandemia e pur non potendo ancora mettere la parola fine alla fase di emergenza, stiamo assistendo a una ricomposizione del profilo della povertà e dell’area del rischio economico. Se alla povertà non abbiamo finora contrapposto soluzioni efficaci e non siamo riusciti a evitare che possa diventare irrimediabile su larga scala, ciò non toglie che sta diventando urgente presidiare l’area più ampia del disagio economico, oggi molto più sensibile che nel passato – e non solo a causa della crisi sanitaria – a fattori di incertezza e di criticità.
Non basta più un lavoro purché sia, non bastano gli ammortizzatori sociali (comunque da riformare in fretta) e anche la famiglia come elemento di compensazione e di redistribuzione ha perso parte della sua funzione.
A inizio 2020 non c’eravamo ancora ripresi del tutto dalla crisi finanziaria del 2008 e della lunga recessione che ne è seguita, nonostante una larga parte della popolazione abbia pagato in tutti questi anni un costo elevato di adattamento alla crisi e abbia accettato più incertezza, meno lavoro, meno reddito sicuro e sia stata privata di servizi e di strumenti idonei di protezione sociale. Oggi le prospettive sembrano ancora peggiori: le fratture sociali che stanno maturando in questi mesi, e di cui si avrà piena contezza anche solo in parte alla fine del blocco dei licenziamenti, sembrano di maggiore portata rispetto al passato e sembra che stiano lavorando nell’ombra per rendere ancora più ampio il solco fra i diversi segmenti sociali (soprattutto a sfavore di donne, giovani, stranieri), spingendo molti ancora una volta all’adattamento e provocando così un’altra rinuncia a condizioni accettabili di vita e di lavoro.
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