Novara: “Orientare al lavoro non serve a niente”
Colpito dalla drammatica morte di Lorenzo Parella, avvenuta in un’azienda mentre frequentava un percorso di formazione duale ho voluto intervistare gli studenti, i docenti e i dirigenti di diversi istituti di Novara: l’agenzia formativa Filos, il Liceo delle scienze umane C.T. Bellini e il Liceo scientifico Antonelli. Un tentativo per raccogliere più elementi e fare un po’ di chiarezza rispetto alla confusione ideologica emersa nelle settimane a seguire, durante le quali il discorso si è fin da subito polarizzato tra “buoni e cattivi”, “scuola e lavoro”, “sicurezza e sfruttamento”.
I percorsi duali sono percorsi educativi, della durata di 2, 3 o 4 anni, promossi dagli istituti professionali e dagli enti di formazione professionale che permettono ai giovani di raggiungere una qualifica o un diploma professionale. Prevedono lo studio delle cosiddette materie di base (italiano, matematica, storia, geografia, le lingue) unite allo sviluppo di competenze di mestiere; queste competenze vengono poi affinate attraverso esperienze di stage (400-500 ore) e di apprendistato di primo livello nelle realtà aziendali.
Per undici anni ho insegnato presso l’agenzia formativa Filos a Novara, che propone percorsi di formazione come operatore termoidraulico (tre anni), meccanico (due anni), tecnico di acconciatura (tre anni) e moda (tre anni). Ricordo bene l’inizio traumatico. Tra quei banchi insegnavo “orientamento al lavoro”, una disciplina che incrocia e forma su diverse competenze: dalle capacità riflessive a quelle relazionali in ambito lavorativo e aziendale. Come “formare”, “orientare” o “qualificare” dei ragazzi demotivati e per di più consapevoli che il lavoro – così come gli viene raccontato dai genitori, dai social network e dalla televisione – non esiste?
Nei primi anni ho fatto fatica a trovare una risposta. Fino a quel sabato al mercato comunale di Novara. Ecco Yassine, un ex studente del corso di meccanica. In classe aveva sempre le spalle contratte, preoccupato da tutto e, fuori dal tutto, sempre accigliato. I capelli neri spumosi fuori dalle mode nel tentativo di essere dentro la moda, gli occhi nocciola di una disperata vitalità, i vestiti da mercato rionale che scimmiottano qualche frase di Tupac Shakur. Yassine è arrivato a Novara dalla provincia di Khouribga (città a sud-est di Casablanca) nel 2000. Quando l’ho incontrato a Filos, aveva 15 anni e non sapeva parlare l’italiano se non usando la terza persona. Non vedevo Yassine da almeno tre anni e quel sabato lo incontrai al mercato dietro al bancone della frutta e della verdura. Un grande commerciante suk. Lo splendore dello sguardo che ammicca, seduce, che usa la tattica del sollazzo. Con allusioni sessuali, elargisce complimenti del tutto gratuiti a potenziali clienti; raccoglie battute, addolcisce i bambini e infinocchia le mamme. Non tutti lo sanno, ma il mestiere del fruttivendolo richiede grande professionalità e competenza. È infatti richiesto un fisico eccezionale in grado di sopportare i rigori delle stagioni, di svegliarsi quando canta il gallo, organizzare la merce, allestire il bancone con sguardo estetico per attrarre potenziali clienti. Non so se Yassine – dopo la qualifica professionale al Filos – sarebbe diventato un “buon meccanico”. Effettivamente il lavoro al tornio e alla fresa non gli piaceva. Si accontentava di pulire nel dopolavoro. La finitura e la filettatura dei metalli gli erano odiosi. Faceva un pezzo al tornio e si fermava a modellare omini con i fili di ferro dello scarto. La lezione era quindi un momento di distrazione e attesa fino all’intervallo per incontrare le ragazze dell’acconciatura. Eppure è riuscito a trovare un’occupazione da adulto, nonostante me, nonostante Filos.
“Orientare al lavoro non serve a niente”, mi dissi quel giorno al mercato. Quell’episodio mi ha fatto riflettere molto. Forse, ciò che importa in un lavoro, non è solo la paga, ma anche il fine, lo scopo, la passione che ci metti, l’ambiente e le relazioni che costruisci con gli altri. Yassine al mercato era un’altra persona. Non si trattava allora di “orientare”, “qualificare” o “formare” Yassine, ma di sostenere le sue capacità: la socievolezza all’intervallo, la creatività con i fili di ferro, saper lavorare con ironia di fronte l’altro sesso. Tutti aspetti fondamentali da un punto di vista educativo. Eppure nel nostro sistema altamente organizzato, la prassi è quella di “adattare” studenti e studentesse al mercato del lavoro attraverso “l’orientamento”, il “percorso formativo” o la “categoria professionale”. Ci sono alcune agenzie professionali che svolgono la sola funzione “allocativa” indipendentemente dai desideri, i bisogni e le capacità degli studenti. Funzione che viene spesso legittimata da un percorso di selezione e da meccanismi perversi all’interno mercato del lavoro. Ma non sempre è così. Ho imparato negli anni che la formazione professionale è prima di tutto un compito inedito che riguarda la “questione educativa”. Un’educazione in grado di scoprire e valorizzare le attitudini specifiche degli allievi. Un’educazione – per dirla alla Rousseau – “negativa” che possa fare a meno della “formazione” a condizione di servirsene.
Mi spiega Milena Duro, direttrice dell’istituto Filos: “La scelta della formazione professionale per i ragazzi oggi è quella di chi – si dice – non è bravo a scuola, ha alle spalle percorsi fallimentari, ha esigenze di vita particolari, ha un disagio. Le motivazioni sono molteplici, forse tutte vere, che partono però da presupposti negativi. Il nostro compito è proprio questo: sostenere i ragazzi nel costruirsi delle opportunità future attraverso relazioni educative all’interno di un progetto. Il lavoro può essere uno degli sbocchi, oppure la crescita personale e la consapevolezza ritrovata di ‘potercela fare’ e re-inserirsi nella scuola di Stato per prendere il diploma, qualcuno lo ha fatto anche mentre lavorava.”
“Come viene scelta la sede di stage? Quali sono i criteri e come vengono validati?” chiedo a Milena.
“La sede di stage viene valutata in base ad alcuni criteri forniti dalla Regione, ad esempio la disponibilità del tutor aziendale e la sua capacità di trasmettere competenze, la congruenza degli obiettivi dello stage e le mansioni svolte, la qualità e il rispetto delle norme di sicurezza dell’ambiente di lavoro, l’affidabilità dell’azienda rispetto agli accordi iniziali (…) Il tutor formativo concorda e progetta il percorso di alternanza con il tutor aziendale in vari momenti prima dell’inizio dell’attività e mantiene con lui un rapporto di verifica costante, cosi come con l’allievo/a. Gli obiettivi vengono quindi concordati e ridefiniti e valutati costantemente attraverso il piano formativo individuale dell’alunno (…) I ragazzi, inoltre fanno un’autovalutazione dell’esperienza all’inizio, a metà percorso e alla fine”.
Gli studenti di Filos che ho incontrato mi dicono di essere contenti. Non tanto per il percorso di stage in sé, ma per il rapporto che hanno con i loro insegnanti e tutor. “Il lavoro per me è una cosa faticosa, ma che vorrei fare perchè mi piace. Nella nostra scuola c’è un vantaggio, cioè che abbiamo il laboratorio con cui possiamo già esercitarci a lavorare” mi dice Eugenia. E ancora “Il mondo del lavoro per me è il mondo degli adulti, composto da diverse cose, le più fondamentali secondo me sono: rispetto, educazione, disponibilità, capacità di affrontare imprevisti, stare dietro a diverse mentalità, stare a contatto con le persone e vedere la loro soddisfazione quando finisci il tuo lavoro. Questa è la cosa fondamentale” risponde Asia del corso di acconciatura.
Dobbiamo quindi considerare che i percorsi duali della formazione professionale sono uno strumento imprescindibile per affrontare il tema della disoccupazione giovanile (che ricordiamo si attesta in Italia intorno al 30 per cento, peggior paese in Europa dopo la Spagna, rispetto a una media europea intorno al 15 per cento). Chi opera nella formazione professionale “cerca di tenere insieme il lavoro e la scuola, le famiglie e i servizi territoriali. Senza smettere di interrompere il legame con i ragazzi e le ragazze. Perché non è una questione di qualità ma di quantità di tempo che si dedica loro a fare la differenza” conclude la direttrice.
Oggi ho cambiato scuola. Insegno da quattro anni in un Liceo. Mi sono chiesto quale rappresentazione abbiano i ragazzi degli altri istituti di Novara del rapporto scuola e lavoro e come funzionano i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto). “Ho svolto la mia esperienza di Pcto in una scuola materna, personalmente mi sono trovata molto bene all’interno della struttura e questo credo sia fondamentale. Se si sogna di fare un determinato lavoro credo sia necessario avere un inizio positivo per evitare di scoraggiarsi fin da subito. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle il grande senso di responsabilità che si ha nel luogo di lavoro e ho avuto modo di imparare a gestire al meglio situazioni di ogni tipo. L’esperienza di Pcto è sicuramente un’esperienza utile ma non del tutto uguale a quello che sarà il nostro futuro lavoro. Siamo seguiti in qualsiasi momento e, nonostante le responsabilità che incombono, sappiamo che possiamo contare su un’altra persona in caso di difficoltà. Nel mondo del lavoro non sarà sempre così, dovremo imparare a cavarcela da soli. Nonostante questo credo che possa portare lo stesso alla crescita delle proprie competenze professionali”. Così mi racconta Ambra, della classe quarta. Nicolò invece è uno studente al quinto anno del Liceo scientifico. È rappresentante d’istituto e referente del collettivo studentesco novarese sceso in piazza dopo la morte di Lorenzo Parella: “La mia esperienza di Pcto ha avuto pochi alti e molti bassi negli ultimi tempi. L’impatto con il mondo del lavoro è stato pressoché nullo, assente nella maggior parte dei casi. Sul piano teorico, il lavoro in alternanza e la scuola dovrebbero coniugare la teoria e la messa in pratica di quello per cui ci stiamo formando. Purtroppo per noi studenti il problema riguarda il sistema e le modalità con cui i progetti vengono svolti e che non riescono a trovare una giusta intesa. Per la maggior parte di noi sono attività inutili e ben lontane dai nostri interessi scolastici. Lorenzo ci insegna che lo sfruttamento del lavoro e la manodopera gratuita, fanno comunella con una sicurezza inesistente all’interno dei luoghi di lavoro. Penso che il cambiamento debba partire con una maggiore serietà da parte degli istituti e delle aziende”
Cosa cogliere da queste interviste ed esperienze? Penso che il punto sia a scuola che nell’esperienza di lavoro, riguardi il desiderio di apprendere. L’essenziale nell’insegnamento di una disciplina o di un lavoro consiste nel mobilitare il desiderio di sapere e di saper fare. In questo senso, non possiamo sganciare l’istruzione dal processo di educazione, cioè all’umanizzazione della vita. Questo vale anche per il lavoro. Come diceva Goodman: “Per avere dei cittadini bisogna prima essere sicuri di avere prodotto degli uomini. Ritornare agli elementi materiali e alla situazione reale perché intrinseca e spontanea all’ azione nei ragazzi”. Non solo meccanica e idraulica, ma anche agricoltura, edilizia, falegnameria, sartoria. Una grande parte della ricchezza pubblica deve quindi essere destinata precisamente a coltivare questo tipo di educazione.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.