Ogni film sulla scuola è un film drammatico

Il regista sperimentale Éric Baudelaire ha tenuto degli incontri regolari con gli studenti della scuola media Dora Maar, a Saint-Denis, per quattro anni. In questo periodo, i ragazzi sono cresciuti portando sempre con sé una videocamera digitale, filmando per il mondo e inseguendo i propri umori. E ognuno ha elaborato una personalissima forma filmica, spesso vicina a quella del vlog o dell’autoritratto. Baudelaire ha quindi montato le centinaia di ore di girato insieme ad alcune riprese personali, che seguono i ragazzi in tutto il processo di scoperta del mezzo cinematografico. Il risultato si chiama Un film dramatique. Si tratta di un’opera collettiva, dove gli studenti protagonisti sono “al contempo personaggi, autori e promesse.”
È interessante notare come gli sguardi dei ragazzi sono talvolta indirizzati all’esterno – qualcuno si affaccia alla finestra per scrutare i passanti, le luci della strada, le finestre degli altri; qualcun altro approfitta di un viaggio in macchina per catturare immagini di miseria e degrado – anche se sono molto più comuni gli sguardi autoriferiti, e cioè indirizzati al proprio stato d’animo o alla casa in cui si vive. Con una videocamera tra le mani, i ragazzi imparano a non accontentarsi delle immagini che gli vengono imposte, ma sono spinti a cercare le proprie immagini. E anche quando filmano qualcosa che sembra distante dalle proprie vite, nello scoprire qualcosa del mondo, scoprono sempre qualcosa di se stessi. Come la ragazzina che dal finestrino della macchina vede un gruppo di migranti costretto a sbaraccare la propria roba da sotto un ponte. La studentessa, mentre filma la scena, chiede al padre alla guida cosa sta succedendo? perché vengono in Francia? perché la Francia non li aiuta? Ogni risposta scatena in lei un giudizio, e capisce che in quello che sta guardando (e filmando) c’è qualcosa di profondamente ingiusto. Guardare e quindi conoscere. Conoscere l’altro e quindi conoscere se stessi. È il senso profondo del cinema.
Si potrebbe scrivere, a questo punto, del ruolo della scuola nel cinema. Ma la filmografia di riferimento sarebbe davvero enorme, e un semplice articolo al riguardo rischierebbe di essere fin troppo sbrigativo. Piuttosto, preferisco parlare in questa sede del ruolo del cinema nella scuola. Perché la visione di Un film dramatique mi ha spinto a ricordare anzitutto i miei rapporti con il cinema interni alla scuola (più al liceo che alle medie), rapporti che sono stati spesso conflittuali, esasperanti e deludenti.
Mi sembra che nelle scuole italiane ci sia una concezione del film come oggetto a servizio di qualcosa, e mai come oggetto autonomo, con un proprio linguaggio e una propria dignità. L’idea, insomma, è che i film possano essere usati dai docenti come strumenti per tornare sulle opere letterarie discusse in classe, oppure come listening per allenare l’ascolto e la comprensione di una lingua, o ancora per avvicinare i ragazzi ai temi fondamentali dell’adolescenza e della formazione. Questo almeno nei casi migliori. Nei peggiori, invece, il film svolge il ruolo di un riempitivo. Professori indolenti, incompetenti, assenti: per tutti loro, o per chi li sostituisce, le due ore di un lungometraggio rappresentano la soluzione ideale per riempire il tempo. Tanto che nella maggior parte dei casi la scelta del film non solo è del tutto casuale, ma alla sua visione non segue nemmeno il minimo dibattito, o qualsivoglia intervento da parte del docente stesso, lasciando così i ragazzi senza gli strumenti necessari per capire, discutere, criticare quello che hanno visto. Spesso non viene nemmeno chiesto ai ragazzi di partecipare alla stessa visione, lasciando chiunque in condizione di disturbare, alzarsi o abbandonare l’aula. Tutto questo non sarebbe mai ammesso durante la lettura di un testo. E questo perché il film, nella scuola italiana, è ridotto a strumento pedagogico di secondo livello.
Per me, i problemi legati al rapporto scuola-cinema sono essenzialmente tre…
- La dittatura degli adattamenti. Le materie più colpite da questa piaga sono ovviamente la letteratura italiana e quella inglese. Nel primo caso tanti film vengono proiettati con lo scopo di vedere quello che si è letto nelle ultime lezioni, mentre nel secondo, a questo fine, si aggiunge quello di allenare i ragazzi alla comprensione di una lingua. Ma in entrambi i casi, non si coglie l’essenza dell’esperienza cinematografica e delle sue connotazioni pedagogiche. Far vedere Il Decameron senza discutere lo stile di Pasolini con la stessa attenzione dedicata a Boccaccio, alimenta l’idea che tutti gli adattamenti sono uguali, e che vanno intesi come delle semplici trascrizioni su pellicola. Una trasposizione cinematografica, invece, andrebbe considerata valida non tanto per la sua capacità di adattamento, ma proprio per la sua capacità di rielaborazione. Perché Pasolini ambienta il suo Decameron a Napoli e non a Firenze? Perché l’episodio di cornice vede lui stesso protagonista? E perché si concentra così tanto sugli aspetti sessuali e libertini di ogni novella? Sono queste le domande che spingono l’esperienza cinematografica verso qualcosa di più di un semplice ripasso. È così che si accede davvero a un altro mondo. Quello del cinema.
Il problema alla base, però, sta nella scelta dei film. Anche perché sono pochi i docenti che si sognano di proiettare Il Decameron in una scuola… - La retorica della formazione. Ho un ricordo molto vivido del primo giorno di lezioni nel mio liceo. Tutti noi delle classi prime fummo raccolti in aula magna per partecipare alla visione di un film: Il signore delle mosche. Non la versione di Peter Brook, che nelle scuole italiane è considerata obsoleta, ma quella del 1990 che ormai sembra sostituirla. Oggi, dopo diversi anni da quella visione, posso immaginare che la stessa fu voluta dalla preside come una sorta di rito di iniziazione alla scuola superiore. Forse non siamo stati i primi, né tantomeno gli ultimi a prendere parte a questo rito che, tra le altre cose, rende manifesto un ulteriore criterio che docenti (e presidi) applicano alla scelta dei film per le scuole: Il signore delle mosche non solo è l’adattamento del libro di William Golding, ma in quanto tale si pone come un racconto di formazione. Ripensandoci, forse quella fu una delle visioni più azzeccate tra quelle proposte in cinque anni di liceo, ma l’idea che un ragazzo possa digerire solo storie di questo tipo è da ripudiare e distruggere. I film più gettonati nei licei oltre agli adattamenti e ai racconti biografici (categoria che preferisco non discutere, perché rischierei di ripetermi) sono proprio i racconti di formazione. Credo che chiunque, in tre anni di medie e cinque di superiori, sia stato sottoposto almeno una volta alla visione forzata de L’attimo fuggente, che è un film semplicistico e tutto sommato retorico. Il punto, però, non è quello di vietare certi film, ma di favorire la varietà degli stimoli proposti. Non solo l’adattamento, la biografia, il racconto di formazione, ma anche il film d’essai, la commedia popolare, il documentario poetico. Se non si opera in questa direzione, il momento del film rischia di sclerotizzarsi e diventa per i ragazzi un momento noioso e piatto quasi quanto la lezione in aula, con l’unico sollievo di non essere interrogati. Quando viene annunciata la visione di un film a scuola, ogni studente si aspetta già un certo tipo di film. Spesso un film drammatico. Per questo ho sempre ammirato il mio professore di filosofia, che passava dai capolavori di Sidney Lumet alle commedie di Carlo Verdone. Quelle sì che sono state lezioni importanti per la mia formazione.
- L’impero della burocrazia. Se è vero che il momento del film rappresenta in linea di massima una piaga per molti studenti, come possono questi difendersi dalle immagini che gli vengono imposte? Éric Baudelaire, l’abbiamo visto, propone una soluzione molto pratica, armando tutti i ragazzi di videocamere e microfoni. Il mio vecchio liceo, invece, ha sempre permesso ai suoi studenti un certo movimento all’interno di attività culturali autogestite. Una tradizione durata per molti anni è stata quella del cineforum studentesco. Ogni anno, uno o più studenti potevano prendere in mano le redini di questo cineforum e organizzarlo a proprio piacimento, proiettando di tutto e stimolando qualsiasi tipo di dibattito. Quando mi sono iscritto a questo club ero al secondo anno di liceo: ero il più piccolo del gruppo, tutti gli altri sembravano conoscersi e avevo paura a dire la mia sui film proiettati. Ma in quelle occasioni ho scoperto le opere dei fratelli Dardenne, le commedie di Allen e qualche stranezza underground dall’Est Europa. Mi sentivo iniziato a qualcosa di squisitamente adolescenziale, come quando da bambino i miei fratelli maggiori mi lasciavano vedere qualche film con loro. Film violenti, volgari, difficili. Film di un’età adulta. Incontro dopo incontro, prendevo più confidenza con l’ambiente del cineforum. Al quarto anno l’ho organizzato insieme a due ragazzi più grandi, e poi in quinto ero pronto a gestirlo completamente da solo. Ma da subito si sono presentati degli ostacoli che non avevo assolutamente considerato. Prima di darmi il via libera, la preside desiderava avere un elenco dei film che avrei proiettato. Così scrissi i titoli di dieci bei film, i primi che mi sono venuti in mente, inserendo tra gli altri qualche film sessualmente esplicito e vietato ai minori. La preside, che di cinema non ne capiva molto, non contestò i film in elenco, ma l’elenco stesso. Non bastava scrivere i titoli su un semplice foglio di Word: dovevo compilare un modulo. Sì, ma quale? Iniziò allora il mio rapporto ossessivo e travagliato con gli uffici scolastici: segreteria, protocollo e soprattutto vice-presidenza. Perché ogni contatto diretto con la preside mi era assolutamente vietato. Non avrei mai potuto disturbarla per questioni così futili. Quell’anno, poi, tutta la modulistica venne rivisitata. La quantità di moduli si era almeno raddoppiata e i vecchi modelli non andavano più bene. Questo non solo mise in difficoltà i docenti, ma la stessa vice-preside, che non sapeva più come aiutarmi col cineforum. La data della prima proiezione venne spostata dalla fine di ottobre alla metà di novembre. In realtà, a dicembre inoltrato il progetto non era ancora partito e io ero ormai disposto a mettere in piedi un cineforum clandestino e militante interno alla scuola. Poi però qualcosa si mosse dagli uffici scolastici. La vice-preside era riuscita finalmente a capire quale fosse l’iter esatto per il mio caso. Mi diede quattro o cinque lunghi moduli da compilare e mi cacciò dal suo studio. Mi vennero le vertigini a guardare tutte quelle scartoffie, e persi qualche giorno a capire come compilarle. Telefonai a tre diverse professoresse di italiano, le più impegnate nei progetti extrascolastici, e insieme riuscimmo a decifrare le richieste ultraspecifiche di ogni documento. Finalmente era tutto pronto. Dopo le vacanze di Natale il progetto sarebbe partito. Invece, dopo le vacanze, mi vennero riconsegnati i miei moduli, pieni di segni in rosso: non avevo svolto bene i miei compiti. Stavo rischiando l’esaurimento nervoso. Ero diventato l’incubo della vice-preside, saltavo le lezioni per andare nel suo ufficio e certe volte l’aspettavo sulla porta per quasi un’ora. Lei mi spiegò che il cineforum non è un progetto, ma un’attività, e tutte le attività vanno integrate all’interno di un progetto più grande. Insomma, un’attività può partire solo insieme a tutte le altre attività dello stesso progetto. Quindi, nel mio caso, il cineforum non poteva cominciare, perché negli stessi moduli andavano dichiarate tutte le attività culturali studentesche: il club di lettura, il corso di disegno, il laboratorio di fotografia… Così dovetti riunire tutti i ragazzi che mesi prima si erano proposti per gestire queste attività e spiegare loro quali moduli dovessero compilare. Quando fu tutto pronto allegai le loro carte alle mie. Ma questo portò via qualche settimana, e il primo film venne proiettato solo il 14 febbraio, quattro mesi dopo la prima lista di titoli.
Le maglie della burocrazia scolastica sono sempre più strette in modo da ostacolare consapevolmente qualsiasi proposta che nasca dal basso. L’obiettivo è quello di scoraggiare il singolo studente con una mole di scartoffie e operazioni impressionante. In questo modo, lo studente si ritrova presto inghiottito da processi burocratici di cui non può capire il senso (perché realmente insensati). E sull’orlo di un crollo psicologico, è costretto a scegliere tra due strade: continuare a lottare nel breve tempo di un anno scolastico (breve solo per la burocrazia) con una buona possibilità di fallire, oppure mollare tutto subito e risparmiarsi tanta fatica. Si obietterà che esiste una terza strada, quella di capovolgere il sistema stesso. E infatti l’idea di un cineforum militante mi aveva attraversato più di una volta. Ma il sistema burocratico è tanto sofisticato da zittire anche certi pensieri. Tu puoi realizzare il tuo progetto (che loro chiamano attività), basta compilare questo modulo. Ci credi e lo fai. Ma poi salta fuori un altro modulo, necessario per validare il primo. Poi un terzo. Un quarto. Un quinto. E ogni volta ti viene ripetuto che è l’ultimo. Un ultimo sforzo, un’ultima firma. Perché mollare tutto adesso quando sei arrivato fino a questo punto? E prima che te accorga, suona anche l’ultima campanella.
Mi sono diplomato nel 2019 e ho saputo di recente che dopo di me nessuno ha provato a portare avanti il club del cineforum. Molti ragazzi che mi hanno conosciuto in quel periodo sono rimasti impressionati (e scoraggiati) dalle mille difficoltà che ho incontrato, mentre i nuovi studenti ignorano del tutto che per molti anni sia esistito un club del genere nella loro scuola. Ho anche saputo che quelle stesse professoresse che mi avevano aiutato a compilare i moduli adesso sono impegnate in una protesta contro tanta burocrazia. Evidentemente, la scuola ha cambiato un’altra volta le regole del gioco… E intanto la pandemia ha messo fine a qualsiasi attività culturale studentesca. Così, in soli due anni, un semplice liceo scientifico di Latina è riuscito a cancellare le prove che simili momenti di libertà espressiva siano anche solo esistiti all’interno delle proprie mura, liberandosi per sempre di corsi, laboratori e club autogestiti che possano alimentare idee anarchiche e anti-scolastiche. Che poi in fondo, noi volevamo solo guardare i nostri film.
Forse allora è vero che il film di Baudelaire è un film drammatico.
Forse ogni film sulla scuola è un film drammatico.
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