Nuove forme della bellezza

Incontro con Giordana Piccinini
La figura e l’opera di Anke Feuchtenberger sono essenziali per comprendere alcuni dei processi che hanno portato il panorama fumettistico contemporaneo a essere quello che conosciamo oggi. Ancora con la Germania divisa, fonda a Berlino Est il collettivo Glühende Zukunft insieme a Henning Wagenbreth, Holger Fickelscherer e Detlef Beck. Ed è proprio dalla Ddr che vengono i segnali e la prima affermazione di una concezione più autoriale e sperimentale del racconto a fumetti, che in area tedesca non aveva conosciuto ancora una grande tradizione e una reale considerazione culturale.
In realtà Feuchtenberger si muove in un’area più ampia che comprende tutte le forme di narrazione disegnata, dall’illustrazione di libri e giornali al manifesto, dall’animazione alla scenografia. Questa apertura si sente con evidenza quando si leggono i suoi fumetti ed è lo strumento che le ha permesso di rifondarne in qualche modo il linguaggio, alla ricerca di una espressione estremamente personale e sempre mobile: la non solidità della trama, la natura della sequenzialità tra un’immagine e l’altra, il rapporto tra queste e i testi che le accompagnano si allontanano da ogni grammatica canonizzata per cercare di esprimere il mistero che si annida attorno e dentro i personaggi che mette in scena. Una dimensione onirica, l’uso preziosissimo dell’ellissi, il dialogo tra i personaggi e gli spazi che attraversano, una costruzione narrativa che si muove per allusioni e connessioni sotterranee sono alcune caratteristiche evidenti, ma esse nulla tolgono a un’opera che vuole incidere e raccontare la realtà, estremamente concreta nel segno e nell’impatto sul lettore, non priva di valenze politiche. La rappresentazione del corpo e della sessualità, con i meccanismi culturali e di potere che mettono in atto, si esprime con una forza che non ha mai nulla di didascalico ma che, anzi, si esprime attraverso un segno che ora ha violenza espressionista, ora insegue più fluidamente creature metamorfiche, sempre con una traccia evidente della materia e del gesto nel disegno.
La sua opera cresce e si afferma negli anni novanta, quando ancora non erano così diffuse certe estetiche né una tanto cospicua presenza di autrici nel panorama fumettistico. Anche in quest’ottica Feuchtenberger ha una valenza centrale, una sorta di figura ponte verso una presenza femminile oggi molto più ampia, spesso proveniente dall’area nord-europea. In questo processo non ha poca importanza il suo ruolo di docente presso la Hochschule für Angewandte Wissenschaften (University of Applied Science) di Amburgo a partire dal 1997: nelle sue classi si sono formate molte delle artiste che oggi sono considerate tra le migliori espressioni del fumetto contemporaneo.
Il contesto
Vorrei iniziare definendo un poco il contesto in cui hai cominciato a lavorare e via via sviluppato il tuo lavoro. Un contesto geografico e storico: sei cresciuta nella Germania dell’Est con un immaginario molto lontano da quello occidentale. Ma hai vissuto anche la caduta del muro e l’incontro e scontro tra questi due immaginari.
Sono cresciuta con tanti libri nella biblioteca dei miei genitori: la pittura del Rinascimento, la xilografia giapponese e i libri per bambini provenienti dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia con delle illustrazioni preziose. Erano libri che mi regalavano i miei genitori quando ero piccola, per esempio quelli di Jirí Trnka, ho ancora un amore totale per le sue illustrazioni. Oppure i libri di Rodolphe Töpffer, che è stato l’unico scrittore e disegnatore di fumetti che conoscevo, fino all’età adulta.
Anche alcune letture della mia infanzia mi hanno accompagnata per tutta la vita, come i libri di Kafka che ho letto a dodici anni, oppure la mitologia greca o ancora le fiabe del mondo.
Io avevo un’educazione molto accademica, basata sul realismo socialista. Volevo proprio lasciare questo realismo e ho cominciato, alla fine degli anni Ottanta, un processo per dimenticare l’anatomia e le mie esperienze nel disegno naturalista
Il mio immaginario visivo si è anche nutrito dei manifesti per il cinema e per il teatro che mio padre e i suoi colleghi e le sue colleghe realizzavano, davanti ai miei occhi. Con lui, quando avevo cinque anni, ho visitato una mostra internazionale di manifesti a Varsavia, la mia prima vera grande esperienza di una mostra.
In questo contesto ci sono state artiste, disegnatrici, pittrici che hanno influenzato il tuo lavoro?
Una delle prime artiste che ho conosciuto è stata Nuria Quevedo, un’amica di mio padre. Le sue illustrazioni della mitologia greca e il fatto di poterla incontrare, di conoscere la sua forza e la sua indipendenza come artista, sono state molto importanti per me.
Quando avevo quindici anni ho potuto disegnare e lavorare nello studio di un’amica, già adulta: la scultrice Kerstin Grimm. Ci disegnavamo l’un l’altra come modelle e facevamo anche sculture con i nostri ritratti. È stato un tempo importantissimo per me, perché lei mi insegnava senza prepotenza, senza volermi insegnare: semplicemente lavoravo con qualcuno che sapeva già molto più di me ed era un mio grande idolo.
In quel tempo sono sicuramente state fondative le immagini scaturite dalla lettura di scrittrici come Christa Wolf, Virginia Woolf, Sylvia Plath, Marlen Haushofer, Brigitte Reimann, Gertrud Kolmar e poi l’arte di Käthe Kollwitz, Rebecca Horn e di Louise Bourgeois.
Una grande esperienza e ispirazione è stato il teatro di Ariane Mnouchkine, che si poteva vedere nel centro di cultura francese di Berlino Est. Non capivo il francese, ma la maniera con cui lei metteva in scena le culture del mondo, le storie, i costumi, la musica e il modo di danzare, mi ha segnato per sempre. Ho pianto di gioia nel vedere le sue invenzioni. Ho cominciato presto a voler fare teatro anch’io e ho trovato gruppi teatrali indipendenti per i quali ho lavorato ai costumi, creando pupazzi e disegnando manifesti.
Questa formazione culturale ha influenzato anche il modo con cui vedi e disegni i corpi?
La costruzione dell’idea del corpo e quindi la ricerca, con il disegno, derivano dalle suggestioni nella mia vita. L’osservazione e il disegnare il corpo nudo, gli animali, le piante, creano un centro, l’essenza della vita organica, l’attrazione verso quella che per me era una forma di bellezza da quando ero piccola. Dal corpo maschile arrivava la violenza. Così ero sempre più interessata al corpo femminile, perché è anche il mio corpo, quello che conosco meglio.
Il fatto di vivere nella Germania Est avrà anche influenzato la tua “formazione fumettistica”, nel senso che credo fosse molto più difficile poter leggere ciò che in altri paesi circolava più diffusamente. Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi di questo percorso?
Vivendo nella Germania Est non ho incontrato il fumetto (Töpffer non lo chiamavo fumetto, per me erano storie in immagini, Bildgeschichten) fino a quando, entrando già adulta per la prima volta in un negozio di fumetti dopo la caduta del muro di Berlino, a ventisette anni, mi sono sovreccitata percettivamente per la quantità e i colori e mi sono concentrata istintivamente solo su due fumetti, uno di Mark Beyer e uno di Jacques de Loustal.
Fino a quel momento ero stata molto più influenzata dalla pittura, dalla scultura e anche dal teatro. Penso sia stato un bene non aver avuto idoli fumettistici, che avrei potuto cercare di copiare.
Quando seguivo i corsi di grafica e scultura, mi chiedevo cosa avrei potuto fare dopo gli studi. Diventare un’autrice di manifesti per il partito socialista? Fare libri per bambini sarebbe stato bellissimo, però sapevo già che non sarei riuscita ad adattarmi. Così mi concentravo sulla scultura e mi sono diplomata con un lavoro per il festival del cinema sovietico, che in quel tempo di Glasnost era bellissimo, forte, radicale.
Quando lavoravo per i gruppi teatrali cresceva la voglia di fare non solo programmi di sala, ma anche piccole storie disegnate usando i testi di Shakespeare o di Büchner, per esempio. Non essendo cresciuta con i fumetti, mi inventavo un modo, fondato sulla mia conoscenza del teatro. All’inizio le mie storie erano forse più teatrali e non come quelle dei fumetti classici, sicuramente avevano tanti difetti: non avevo la pratica artigianale del fumetto, ma questo mi ha spinto a usare la mia energia per creare un mondo più in rapporto con la cultura che ho descritto prima.
Quando ti sei affacciata al fumetto, negli anni novanta, c’era un momento di grande trasformazione. Hai sentito una vicinanza con il processo di rinnovamento che questo linguaggio stava sviluppando?
Già nella Ddr quando lavoravo per compagnie teatrali indipendenti, disegnando manifesti, costumi e scenografie, ho sviluppato spontaneamente un disegno sempre più narrativo. La rivista svizzera “Strapazin” è stata la prima a scoprire e pubblicare disegnatori che lavoravano nella Germania dell’Est. Dopo la pubblicazione, sono stata invitata in Svizzera per il festival Fumetto dove ho potuto incontrare disegnatrici e disegnatori che stavano ricercando in maniera indipendente come facevo io.
È stato così importante per me trovare per esempio Dominique Goblet, Julie Doucet, Thomas Ott, M.S. Bastian, Lorenzo Mattotti, Max, David B., perché in Germania non c’erano tanti fumettisti interessanti a quel tempo, e pochissime erano donne. Così si sono sviluppate amicizie e una rete di respiro internazionale.
Immagini e immaginari femminili
Hai iniziato a fare fumetti negli anni novanta e hai vissuto già da adulta gli anni ottanta. Per noi quel decennio ha significato anche essere immersi in un immaginario sul femminile molto stereotipato, quasi a cancellare i risultati di un decennio di lotte femministe. Senza contare che anche la tradizione del fumetto aveva forti stereotipi sulla rappresentazione femminile. Come ti sei posta di fronte a questo immaginario?
Ho vissuto la mia adolescenza negli anni Settanta nella Germania Est, dove molte delle cause per cui le donne dell’Ovest stavano lottando erano legate alla realtà: il diritto di abortire, il lavoro, il salario pari a quello dell’uomo, l’asilo per i bambini. L’emancipazione delle donne era imposta dal governo. Non conoscevo nessuna donna che stesse a casa, come casalinga. Non ho visto immagini pornografiche pubblicate, non c’era nemmeno la pubblicità. Credo che questo sia stato molto importante per l’educazione di un immaginario.
Le città erano grigie, sporche, piene di manifesti con i ritratti di Marx, Engels, Lenin… non c’era grande possibilità di perdersi nel consumo, nel fashion. Quando volevo portare un vestito chic, me lo facevo io. Il mio desiderio – come quello di altre artiste e artisti – era di rendere migliore il socialismo attraverso azioni illegali e sovversive.
Con la caduta del muro, il socialismo è stato velocemente mangiato dal capitalismo, la rivoluzione che poteva cominciare è stata affogata nel consumo, che improvvisamente era possibile. Una strategia molto efficace per interrompere un’azione politica rivoluzionaria.
Penso che lo spirito della distruzione di Berlino si senta ancora. Adesso è anche dimostrato scientificamente, ma è una cosa che penso già da molto tempo e su cui mi sono confrontata anche con in miei cari amici e colleghi del gruppo Actus di Tel Aviv
Ho preso consapevolezza del fatto che la situazione politica e sociale, per le donne, era come tornata indietro storicamente. Immagini pornografiche, prostituzione (davanti alla finestra di casa mia), entravano nelle città, perché l’Est era un campo libero per il mercato. Era tutto nuovo per me. Qui ha preso forza la mia idea di resistenza a questo “nuovo” sistema, con il disegno di manifesti che potessero dare voce alle donne, insieme alla ricerca di luoghi sicuri (le Case delle Donne) lontani dalla paura e dalla violenza, accanto alla costruzione di asili per l’infanzia, diversi da quelli della Ddr. I temi della mia ricerca con il disegno erano incentrati su questo. Da qui il desiderio di scrivere e disegnare storie servendomi degli strumenti del fumetto.
Negli anni Novanta, a causa del contesto in cui mi muovevo, non ho fatto guerra allo stereotipo femminile del fumetto perché non lo conoscevo, non lo frequentavo. Ma mi sono impegnata a seguire la necessità di formare la mia idea e di andare più in profondità nella ricerca di quello che mi interessava, trovando connessioni con la fertilità, un’immagine del corpo non contaminato dal commercio. Mi piaceva, essendomi formata negli anni Ottanta, che il disegno fosse brutto. Essere provocatoria, emotiva, un po’ come Anne Clark.
Molti studi sul genere affermano che il corpo, nel momento in cui entra nello spazio pubblico, per come si mostra diventa una dichiarazione politica; quando hai iniziato a disegnare i corpi nei tuoi fumetti hai pensato a questo? O hai semplicemente seguito il tuo gusto e la tua direzione artistica?
Nel 1989, durante i cambiamenti politici nell’Est, avevo molti nuovi contatti con donne che agivano come me nell’underground: erano scrittrici, filosofe, fotografe. Abbiamo fondato il giornale “Y”, che era molto forte e bello, per il contenuto come per il design. Ho pubblicato disegni e, soprattutto, ho trovato delle donne importanti per la mia vita, per il mio pensiero. Discutevamo tanto, ero abbastanza consapevole, penso. Però non credo che l’arte debba essere didascalica. Stavo cercando immagini diverse del corpo femminile senza escludere la sensualità. Era una cosa molto ambivalente.
Un amico scrittore diceva che le mie creazioni erano caratterizzate da Liebreiz und Schrecken, “fascino e orrore”, un’espressione che, ancora oggi, mi sembra giusta per il mio lavoro. Ci sono il dolore, la tristezza, ma anche la dolcezza e la forza del corpo femminile.
L’idea del corpo veniva dalla mia esperienza, non da una costruzione teorica: l’esperienza di aver avuto un bambino, ancora nel sistema della Ddr all’inizio del 1989 (in modo ancora molto brutale e senza tutte le conquiste della medicina per le madri e bambini), e di crescere mio figlio da sola mi ha fatto aprire gli occhi. Mi sembrava di poter vedere cosa la società aveva fatto per centinaia di anni alle madri e ai bambini. In particolare, capivo che cosa avesse fatto l’educazione prussiana per tante generazioni. A quel tempo avevo un grande desiderio di liberarmi dalle cose che avevo visto o vissuto in rapporto alla maternità.
La Puttana P è protagonista di tre libri tuoi con Katrin De Vries. Sono tutti composti da tre storie che sembrano ritrarre tre momenti della vita della protagonista. Come sono nati questo personaggio e il progetto in generale? Quali esigenze secondo te vi hanno spinto a crearlo? Si può considerare la Puttana P come un paradigma di femminilità?
Katrin de Vries mi ha scritto una lettera, quando è uscito il mio secondo libro all’inizio degli anni novanta. Era una scrittrice e aveva voglia di conoscermi. Mi piacevano i suoi testi e mi sono messa a disegnare subito.
Prima di lavorare con Katrin le mie storie erano colorate, con colori molto accesi, ma scurissime nel senso, provocatorie e aggressive. Con i testi di Katrin arrivavano una luce e una tenerezza, qualcosa privo di cinismo, che mi faceva felice mentre disegnavo. La Puttana P era un personaggio suo che mi piaceva molto, perché il nome (Hure H) produceva una provocazione, l’idea di un segreto in rapporto con il corpo e le relazioni sessuali degli adulti, come lo sentivo quando ero piccola. La protagonista cerca di capire le tradizioni, i cliché che rendono “normale” il rapporto tra uomo e donna.
Mi attirava come Katrin lasciasse aperti i suoi racconti. Non erano didascalici e non erano “giusti”; e mi aprivano uno spazio per disegnare: improvvisamente c’erano ambienti da inventare, senza rispecchiarsi nella psicologia come facevo prima. Volevamo contaminare il nome “Puttana” con un’idea contraria. Questa nostra puttana non ha fatto ancora delle esperienze, non lavora come prostituta: è semplicemente insultata dalla società con quel nome e non lo sa neanche. Il nome è già un giudizio, secondo i criteri della società, per come una ragazza dovrebbe essere secondo il cliché.
La Puttana P è in tre volumi, ogni libro ha tre storie. Non so se sono un paradigma della femminilità, non l’ho fatto pensando a questo: disegno sempre per cercare di conoscere le cose. Le domande che si formano, quando leggo un testo, vogliono essere avvolte nel disegno. Non mi piace disegnare le cose secondo un concetto. Io stessa devo sorprendermi, altrimenti sarebbe un lavoro noioso.
Nei racconti di Puttana P entra spesso in scena un contrasto tra maschile e femminile, un contrasto che risiede nel potere, negli strumenti per esercitarlo e nella possibilità di metterlo in atto. Quanto ti interessa e cerchi di rappresentare quella conflittualità e, nel caso, come cerchi di rappresentarla?
Penso di aver risposto già nel disegno, non so dirlo con le parole. Però il campo di battaglia è molto più grande: non si tratta solo del banale contrasto tra maschile e femminile.
All’inizio degli anni Novanta c’era una grande discussione nei giornali tedeschi (sì, già allora!) sull’abuso sessuale sui bambini e sulle donne. Io avevo un progetto con una scrittrice – che aveva fondato anche lei un giornale per le donne – dove abbiamo pubblicato una ricerca sulle donne spie durante il nazismo e la Ddr, lei scrivendo, io disegnando. Era interessante leggere i documenti storici sulle vite di queste donne che lavoravano per i servizi segreti. Come poteva succedere che si fossero lasciate corrompere? Spesso avevano già subito un abuso di tipo sessuale, che le aveva manipolate fin dall’infanzia, queste donne si erano frantumate e per questo non provavano empatia per le altre donne.
Nei giornali comuni di quel tempo, ho trovato spesso donne che negavano completamente la necessità di misure sociali contro l’abuso sessuale sui bambini e le bambine, e sulle donne.
Per questo mi sembra anche logico che ci fosse bisogno oggi di una nuova frattura con il movimento Me Too.
Disegnare il e con il corpo
I corpi dei tuoi personaggi provocano due reazioni che sembrano quasi contraddittorie ma invece si completano l’una con l’altra: da una parte emerge la “mostruosità”, mettendo in scena corpi deformi, sghembi, senza capelli, a volte anche fluidi; dall’altra si sente con forza che i tuoi corpi sono stratificati, complessi e per questo “veri”. Insomma, mostruosità e autenticità: trovi un legame tra queste due parole?
Scusa, mi sembra un po’ giudicante quello che dici. Cosa sarebbe un corpo non deforme, un corpo “forma” nel fumetto? Nel fumetto tradizionale tutti i corpi sono deformi, per raccontare meglio c’è bisogno di farlo, penso. Un topo come Mickey Mouse non esiste. È completamente deforme.
La sessualità del nostro tempo non è privata. Forse non lo è mai stata, è sempre un campo di battaglia per il potere maschile
Io avevo un’educazione molto accademica, basata sul realismo socialista. Volevo proprio lasciare questo realismo e ho cominciato, alla fine degli anni Ottanta, un processo per dimenticare l’anatomia e le mie esperienze nel disegno naturalista. Per me era un’evasione dalla prigione accademica, e chiaramente era anche una provocazione: una donna senza tette e senza capelli provocava molta resistenza, non solo da parte dei maschi. Per questo sono stata anche insultata. Però non mi sono mai fissata su un certo stile. Ho cercato sempre di cambiare i corpi e di fare il contrario di quello che avevo fatto prima. C’erano donne senza capelli, ma anche donne con tantissimi capelli. Cercavo e cerco un’altra forma di bellezza, che include anche i vermi, i bruchi e forme organiche che non vengono adorate per la loro bellezza.
In un disegno di Der Palast ci sono due bambine che si tengono per mano (e questa presenza attraversa più volte i tuoi libri): questa e altre immagini mi hanno ricordato il lavoro di Diane Arbus, che fotografava freaks, emarginati, transessuali, tutti corpi fuori dalla norma. Questa dimensione disturbante l’ho ritrovata anche nei tuoi corpi e volevo sapere se Diane Arbus è un tuo punto di riferimento.
Non conoscevo Diane Arbus quando ho disegnato Der Palast. E non so a che norma ti riferisci. Quando ho avuto in mano per la prima volta un giornale di moda come “Vogue”, dopo la caduta del muro, ero già adulta, avevo già un figlio. Guardavo le immagini, le modelle, la pubblicità per avere una pelle più bella… e dopo aver guardato a lungo, entrata per la prima volta nel mondo della “norma”, mi sentivo brutta, troppo grassa, brufolosa e deforme. Cerco di attraversare la mia paura, il mio disgusto o le preoccupazioni, e di rappresentare queste cose nel disegno. Non posso disegnare quello che odio. Oppure quando disegno mi avvicino a una bellezza altra, e comincio ad avere tenerezza per il soggetto.
Mi vengono in mente le lumache in Grano Blu. Qual è la fluidità con cui immagini e rappresenti il corpo? Mi riferisco alla parola fluidità in due modi: da una parte alla disponibilità a trasformarsi, a perdere di solidità per diventare altro, dall’altra penso agli studi di genere che tanto hanno ragionato sulla fluidità (e anche alle tue lumache, ragazzine che studiano in un collegio e che rivelano un piccolo pene sorprendendo il lettore).
Le lumache, che mangiavano tutto nel mio giardino ed entravano anche in casa, mi hanno impressionato. Dapprima ero disgustata, ma quando ho visto che tutti i miei vicini facevano una battaglia orribile, si scambiavano modi sempre più efficienti per ucciderle, ho pensato che queste lumache, senza casa, sono una parte di noi, qualcosa che non vogliamo essere: cannibali, ermafroditi, nudi e umidi. Mi provocavano empatia, perché in uno stato del nostro sviluppo fisico siamo tutti così. Questa immagine-pensiero mi dava la possibilità di avvicinarmi all’infanzia, a uno stato dell’essere dove certe cose non sono ancora disgustose, prima del linguaggio.
In contrasto a questa fluidità penso agli ambienti in cui si muovono i tuoi personaggi: esemplari in questo senso sono i disegni di Puttana P, dove ho sentito una dialettica molto intensa tra corpo e architettura, tra organico e inorganico, tra metamorfismo e rigidità. Quale dialogo cerchi di instaurare tra questi due elementi?
Ho vissuto tanti anni nel centro di Berlino Est. Attorno a grattacieli di cemento. Dieci anni all’undicesimo piano. Nel sopravvivere a questa anomalia per il corpo, per il fatto di essere così lontana da terra, ho cercato di capire gli spazi. Mi piace molto camminare e sentire lo spazio e le distanze fisiche. Solo nella città la luce può disegnare sui muri.
Nell’adolescenza ho passegiato con la mia cagna per chilometri e mi sentivo come un cane io stessa: non mi piace la città, mi manca la terra sotto i piedi, però è molto seducente quello che si sente. Odori interessanti. Spazi artificiali per trovare altre persone, che sono segnate da questi posti. Berlino è un mostro gigantesco, con tanti spazi vuoti perché è stata distrutta durante e dopo la guerra Il socialismo cercava di realizzare un’architettura economica, per tante persone, case alte con abissi tra una e l’altra.
Come in Wee Willie Winkie di Feininger, ogni casa mi sembrava avesse un diverso odore, un altro carattere. In Das Haus ho cercato di usare il mio desiderio, la nostalgia che avevo quando ho dovuto lasciare Berlino come un desiderio del corpo. Scrivere le memorie di certi posti come memorie del corpo, che è una casa. Capivo che il corpo è l’unica casa permanente che abbiamo.
Penso che lo spirito della distruzione di Berlino si senta ancora. Adesso è anche dimostrato scientificamente, ma è una cosa che penso già da molto tempo e su cui mi sono confrontata anche con in miei cari amici e colleghi del gruppo Actus di Tel Aviv: i nostri genitori non ci hanno lasciato in eredità solo il colore dei capelli, ma anche il trauma della guerra, per esempio, oppure quello dell’educazione prussiana. La città, gli edifici, mi sembrano una bella metafora per questi resti che sono lasciati nel nostro corpo dal passato. Lo spirito di una città appare, per me, quando lo sento con tutto il corpo, passeggiando. Questo ho cercato di descrivere in Die Spaziergängerin, con saggi grafici da e su diverse città dove sono stata.
Nelle tue storie e nei tuoi disegni diventa labile (labile in maniera sensibile) il confine tra interno ed esterno. Ci sono paesaggi che sono o potrebbero sembrare l’interno di un corpo ed esterni che assumono una sorta di fisicità carnale (nella grana dei disegni a matita e ancora di più nei dipinti). È anche volontà di andare oltre lo sguardo e raggiungere una qualità tattile?
Sì, per avere una percezione più sottile, ampia, ci si deve aprire. Questo è anche pericoloso, perché così sei aperto anche alle esperienze brutte e violente. La ricompensa è sempre maggiore!
Non potrei fare cose, oppure usare tecniche, che facciano perdere sensibilità a una percezione finissima, voglio capire tutta la complessità dell’incontro tra organico e non organico, l’ambiguità tra vita e morte. Significa che la pelle deve diventare molto permeabile, nel senso metaforico che diventa sempre anche fisico. Spero molto di poter disegnare una qualità tattile, ma non so come si fa…
Quanto influisce per te la materia sul disegno? Mi riferisco ai materiali utilizzati, alla tua postura, a quanto del corpo si trasferisce attraverso il gesto nel disegno.
Quando ho cominciato a disegnare fumetti ero ancora nella tradizione: inchiostro e pennino. Dopo un po’ qualcuno ha comiciato a copiarmi e ricevevo anche committenze che mi chiedevano di disegnare esattamente nello stile con il quale ero conosciuta. La ripetizione mi annoiava. E mi annoiava che mi dicessero come si deve disegnare un fumetto (perché non lo sapevo): prima lo schizzo, dopo lo storyboard e poi il definitivo. Com’è noioso ripetere i propri disegni. Volevo imparare altre cose, volevo mantenere la tensione dell’invenzione durante il processo: disegnare e inventare nello stesso momento, sorprendendo me stessa. Così avevo bisogno di tecniche con le quali potevo correggere. E ancora oggi, prima di cominciare un lavoro, devo capire quale tecnica è adatta al soggetto. E sono tornata – dalla “deformazione” (come dicevi) – a una direzione più realistica. Il disegno con il carboncino, per esempio, è molto sensuale. È quasi polvere. Produce subito uno spazio, la luce. Posso correggere fino a che appare il disegno, che c’era già nella carta (così almeno mi sembra). Siccome correggo tanto, sotto alcuni disegni ce ne sono già stati altri, e questo mi piace, anche la pelle ha una trasparenza, con molti livelli. Non si vede quello che c’è sotto, però si sente qualche cosa di complesso.
Disegno anche in grandi formati, questo significa che non disegno con la mano, ma con tutto il braccio. C’è più gesto, posso entrare anche io nello spazio che disegno. E sono una parte del disegno con il mio corpo, non solo con la mente. Sto in piedi, perché cosi mi muovo, avanti e indietro, come un ballo, per cercare un equilibrio tra distanza e vicinanza.
Le tecniche della riproduzione di adesso permettono questo lavoro, che negli anni Ottanta, quando studiavo, i miei professori mi vietavano sempre: disegnare su formati grandi con materiali “metamorfici” (matita, carboncino, colori grigi). Ultimamente ho ricominciato anche con il colore e ho molto da imparare, lo sto ancora studiando.
Una domanda sugli animali, sui disegni degli animali nei quali riesci sempre a infondere una scintilla di vita. Tendi a cancellare i confini tra l’umano (l’animale umano) e gli altri animali. In che modo per te è diverso disegnare esseri umani e animali?
Ho sempre vissuto con cani e altri animali, vicino a foreste e laghi, e questo ha avuto una grande influenza sulla mia vita e sulla mia persona, penso. Sono cresciuta senza un’educazione religiosa, laica, ma una religione animista sarebbe la mia scelta. Comparare le anatomie dei vertebrati ti fa capire che abbiamo tutti quasi le stesse ossa, solo un poco diverse, per esempio nella lunghezza.
Mi sembra che noi umani abbiamo tanto da imparare dagli animali. E potremmo capire anche qualcosa di più su di noi, invece di voler dominare e controllare tutto prima di aver capito qualcosa. Non sono romantica, vorrei imparare a poter guardare senza pregiudizi. Questo cerco nel disegno.
Un’altra caratteristica delle tue storie è la presenza forte ed esplicita della sessualità, senza che si scada mai in forme stereotipiche di racconto e di immagine. Io sento come una tensione a scoperchiare l’osceno, non per scandalizzare, ma per mostrare tutta l’ambiguità dei nostri corpi e dei nostri desideri, un’ambiguità in cui ciò che attrae può combaciare con quello che repelle. Questo crea anche un corto circuito tra la rappresentazione esplicita della sessualità e il potenziale erotico e seduttivo di tale rappresentazione. Cosa ne pensi? E, in generale, che importanza ha la rappresentazione della sessualità nei tuoi racconti?
Mi sembra che hai descritto molto bene quello che mi interessa. Grazie per questo!
La sessualità del nostro tempo non è privata. Forse non lo è mai stata, è sempre un campo di battaglia per il potere maschile. Cosa è attraente, come devi far nascere un bambino, cosa sarebbe sano e normale… Un art director di un grande giornale tedesco voleva che facessi dei disegni sull’orgasmo femminile. A lui non piacevano i miei disegni. Avevo disegnato una specie di “surfista” su tante onde grandi. Mi diceva che dovevo disegnare qualcosa come il colpo di una pistola. Ti puoi immaginare quanto fosse comico questo litigio al telefono sull’orgasmo femminile!
Hai mai avuto problemi da parte della critica e dei lettori per queste scelte?
Sì, all’inizio molti. Insulti, lettere ai giornali, proteste… gli art director si sentivano coraggiosi a lavorare con me. Non ho mai capito bene perché succedesse. Adesso, con il forte aumento del numero di donne nel fumetto, la situazione è cambiata.
Come autrice hai ormai attraversato quasi trent’anni di storia del fumetto e dell’illustrazione contemporanei e sono più di venti anni che insegni. Insomma hai un punto di vista che credo sia privilegiato. Una caratteristica oggettiva di questi ultimi venti anni sta proprio nella quantità di artiste che si sono affacciate a forme di fumetto e narrazione disegnata. Molte appartengono anche alla scena tedesca o comunque a paesi europei che un tempo non avevano una fortissima tradizione. Cosa ne pensi del fumetto femminile oggi e che cambiamenti vedi rispetto a quando hai iniziato tu?
Disegno da quarant’anni e pubblico manifesti, storie, disegni da più di trenta. Ho cominciato con lavori per associazioni di donne, erano sempre lavori politici: manifesti, cartoons, serie di disegni, opere per il teatro indipendente delle donne.
Quando ho cominciato con il fumetto venivo sempre invitata come unica donna. Spesso anche come forma di scusa, perché non ce ne erano tante altre, almeno in Germania.
Quando, per una mostra ad Angoulême nel 1994, ho incontrato alcune altre disegnatrici europee, sono stata felice. Avevamo un contatto forte e intenso l’una con l’altra. Nel 1996 ho cominciato ad insegnare ad Amburgo, e ancora non c’erano tante disegnatrici. Ho lavorato tanto con le studentesse, sui loro soggetti: essere indipendenti, analizzare gli stereotipi, contrastare il sessismo, capire come riappropriarsi del loro racconto, che fino a quel momento era stato un racconto degli uomini. Ho lavorato anche politicamente nell’Università, per dieci anni, come responsabile per le pari opportunità, per i diritti delle donne. Significava avere anche una influenza nella scelta dei nuovi professori e professoresse. In quel tempo ho pubblicato spesso opere di studentesse e studenti, quaderni o libri che avevano come soggetto il corpo femminile, cercando di evitare stereotipi. C’erano sempre più studentesse nei miei corsi. Oggi alcune di loro sono artiste forti e indipendenti e insegnano anche, come Birgit Weyhe, Jul Gordon, Katharina Gschwendtner, Marijpol, Judith Mall, Gosia Machon, per citare solo le più conosciute. Penso che ci stiamo avvicinando sempre di più a un equilibrio.
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