Note per un Manifesto femminista

Questo è un estratto da Feminism for the 99 Percent: a Manifesto, da “The New Left Review” n.114, novembre-dicembre 2018, pubblicato da Laterza nella traduzione di Alberto Prunetti.
Nella primavera del 2018, la miliardaria direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg suggeriva alle donne che la spietatezza e il successo negli affari fosse la via maestra dell’uguaglianza di genere. Se solo “la metà dei paesi e delle aziende fossero amministrati da donne, e la metà di tutte le case fosse gestita da uomini”, il mondo sarebbe un posto migliore: non dovremo essere soddisfatte finché non avremo raggiunto questo obiettivo. Esponente di spicco del femminismo aziendale, Sandberg è nota per aver incoraggiato le manager a essere più assertive durante i consigli d’amministrazione aziendali. Ha iniziato la sua carriera a Harvard, proseguendo con un incarico presso l’ufficio del Segretario del Tesoro e ha lavorato anche alla raccolta e analisi di dati e target marketing per Google e Facebook, sempre supervisionata dal suo mentore Lawrence Summers, influentissimo economista ed ex segretario del Tesoro.
Quella stessa primavera, l’8 marzo 2018, uno sciopero femminista di scala nazionale ha paralizzato la Spagna. Sostenuta da cinque milioni di manifestanti, l’organizzazione della huelga feminista ha invocato una “società libera dall’oppressione sessista, dallo sfruttamento e dalla violenza (…) per una ribellione e una lotta contro l’alleanza del patriarcato e del capitalismo che ci vuole obbedienti, sottomesse e pacifiche”. Mentre il sole tramontava su Madrid e Barcellona e una folla di donne esultanti riempiva le strade, le scioperanti femministe annunciavano: “L’8 marzo incrociamo le braccia e interrompiamo ogni attività produttiva e riproduttiva”. Rifiutavano di accettare condizioni di lavoro peggiori di quelle degli uomini o di essere meno retribuite per lo stesso lavoro.
Questi due appelli rappresentano due strade opposte per il movimento femminista. Sandberg e quelle del suo stampo considerano il femminismo come un’ancella del capitalismo. Vogliono un mondo in cui i benefici dello sfruttamento sul posto di lavoro e l’oppressione nell’ordine sociale siano equamente condivisi tra uomini e donne della classe dirigente – una forma di “eguaglianza dell’opportunità di dominare”. In netto contrasto, le organizzatrici dello sciopero femminista chiedono la fine del dominio capitalista e patriarcale.
Il bivio
Fronteggiando queste due concezioni del femminismo, ci siamo trovate a un bivio. Una strada porta a un pianeta carbonizzato in cui la vita umana viene devastata, se non resa impossibile alla maggioranza. L’altra indica il mondo che l’umanità ha sempre sognato: un mondo le cui ricchezze e risorse naturali siano condivise da tutti, dove l’uguaglianza e la libertà siano premesse e non aspirazioni. A rendere così cruciale la scelta è la scomparsa di qualsiasi via di mezzo, a causa del carattere predatorio che il capitalismo finanziario neoliberista ha sviluppato negli ultimi quarant’anni di dominio – ingigantendo la posta in gioco di ogni lotta sociale e trasformando gli sforzi per ottenere riforme modeste in estreme battaglie di sopravvivenza. In queste condizioni le femministe, come chiunque altro, devono prendere posizione. Continueremo a perseguire la “pari opportunità di dominare” mentre il pianeta brucia? O sapremo immaginare la giustizia di genere in una forma anticapitalista, che superi l’attuale carneficina portando a una nuova società?
Il nostro manifesto è una sintesi per la seconda strada. Ciò che rende pensabile oggi un femminismo anti-capitalista è la natura politica della crisi attuale: la squalificazione delle élite in tutto il mondo non colpisce soltanto i partiti neoliberali di centro ma anche i loro alleati femministico-corporativi alla Sandberg. È questo il femminismo che è affondato nelle elezioni presidenziali americane del 2016, quando la candidatura “epocale” di Hillary Clinton non è riuscita a provocare l’entusiasmo delle elettrici; per una buona ragione: Clinton incarnava la frattura tra l’ascesa delle donne privilegiate e la vita della stragrande maggioranza delle altre.
La sconfitta di Clinton deve svegliarci. Rivelando il fallimento del femminismo liberale, rappresenta l’inizio storico di una sfida da sinistra. Nella corrente vacuità dell’egemonia liberale, abbiamo l’occasione di costruire un altro femminismo e di ridefinirne gli obiettivi, sviluppando un diverso orientamento di classe e un’essenza radicalmente rivoluzionaria. Non scriviamo per tracciare un’utopia immaginaria, ma per chiarire la strada che dev’essere percorsa per raggiungere una società giusta. Vogliamo spiegare perché le femministe debbano scegliere la strada degli scioperi, unendosi ad altri movimenti anticapitalistici e sovversivi e diventando un “femminismo per il 99%”. Ciò che ora ci dà speranza è l’insorgere di una nuova ondata globale, con gli scioperi internazionali femministi del 2017-2018 e i movimenti sempre più coordinati che si stanno sviluppando intorno a loro. Come primo passo, abbiamo esposto undici tesi sulla situazione attuale e le basi per un radicale, nuovo, anticapitalistico movimento femminista.
Prima tesi: Una nuova ondata femminista sta reinventando lo sciopero
Il movimento dello sciopero femminista è cominciato in Polonia nell’ottobre del 2016, quando più di 100mila donne marciarono contro il divieto d’aborto in quel paese. Dopo meno di un mese, ha attraversato l’oceano verso l’Argentina, dove donne in sciopero protestavano contro l’omicidio di Lucia Perez al grido militante di “Non una di meno”. Presto si è diffuso in Italia, Spagna, Brasile, Turchia, Perù, Stati Uniti, Messico e Cile. Nato nelle strade, si è riversato nei luoghi di lavoro e nelle scuole, travolgendo infine gli ambienti dello show-business e dei media, quelli politici e quelli informatici. Durante gli ultimi due anni, quegli slogan hanno risuonato in tutto il mondo: Nosotras Paramos, We Strike, Vivas Nos Queremos, Ni Una Menos, Femminismo per il 99%. Prima un’increspatura, poi un’onda, infine una marea.
Ciò che ha trasformato una serie di azioni locali in un movimento internazionale è stata la decisione di scioperare insieme l’8 marzo 2017. Con quell’iniziativa coraggiosa, questa nuova forma di attivismo ha risvegliato il senso politico della Giornata Internazionale della Donna, restituendola alle sue dimenticate origini storiche radicate nella classe lavoratrice e nel femminismo socialista. Questi scioperi evocano le mobilitazioni d’inizio Novecento delle lavoratrici: gli scioperi statunitensi e le manifestazioni di massa, guidate prevalentemente da immigrate ed ebree, che ispirarono i socialisti americani a organizzare la prima Giornata Internazionale della Donna mentre in Germania Luise Zietz e Clara Zetkin invocavano una Giornata Internazionale della Lavoratrice. Incarnando quello spirito militante, gli scioperi femministi di oggi uniscono donne separate non soltanto da confini e recinzioni ma da oceani, montagne e continenti. Rompendo l’isolamento sia domestico che simbolico, dimostrano il potenziale politico di coloro che, retribuite o meno, sostengono il mondo.
Il movimento ha inventato nuovi modi di scioperare, incorporandoli a un nuovo tipo di politica: facendo coincidere l’interruzione del lavoro con marce, chiusure di piccole imprese, blocchi e boicottaggi, sta reintegrando il repertorio dello sciopero generale come forma di protesta – grande, un tempo, ma ridotta da decenni di aggressione neoliberale. Parallelamente, sta democratizzando lo sciopero e allargando la sua portata ridefinendo il senso del termine “lavoro”. Al di là di quello salariato, lo sciopero delle donne sta anche rifiutando il lavoro domestico, il sesso e il “sorriso” – rivelando il ruolo indispensabile svolto dal lavoro non retribuito nella società capitalista e valorizzando le attività da cui il capitale proviene ma per le quali non paga. Anche per quanto riguarda il lavoro retribuito lo sciopero femminista sta ridefinendo il concetto di lavoro: inquadrando non solo gli stipendi e gli orari, ma anche le molestie sessuali e le aggressioni, gli ostacoli al diritto riproduttivo e la repressione del diritto di sciopero.
Questa nuova militanza femminista può superare la persistente e frazionistica opposizione tra la “politica dell’identità” e la “politica di classe”. Rivelando il legame fra posti di lavoro e vita sociale, rifiuta di limitare la sua lotta a una sola delle due dimensioni. Ridefinendo cosa sia “lavoro” e cosa sia “lavoratore”, rifiuta la fondamentale svalutazione capitalista del lavoro femminile, sia retribuito che non retribuito. Anticipa la possibilità di una nuova fase della lotta di classe: femminista, internazionalista, ambientalista e antirazzista.
Lo sciopero delle donne è esploso in una fase in cui i sindacati dell’industria manifatturiera venivano gravemente indeboliti. La resistenza contro il neoliberismo si è spostata su altri scenari: sanità, istruzione, pensioni, alloggi – lavoro e servizi necessari alla riproduzione degli esseri umani e delle comunità. L’ondata di scioperi degli insegnanti in Nord America, la lotta contro la privatizzazione dell’acqua in Irlanda, le proteste dei lavoratori dei servizi igienico-sanitari dei dalit in India: sono queste le lotte più ammirevoli, guidate e alimentate dalle donne. Benché formalmente indipendenti, queste lotte hanno molto in comune con il movimento internazionale di sciopero femminile. Anch’esse vogliono valorizzare il lavoro necessario alla riproduzione sociale e si oppongono al suo sfruttamento; uniscono le richieste di salario e d’impiego a quelle per l’aumento della spesa pubblica dedicata ai servizi sociali.
In Argentina, in Spagna e in Italia, il femminismo ha ricevuto l’ampio sostegno delle forze politiche contrarie all’austerità, protestando contro i tagli a scuola, sanità, alloggi, trasporti e tutela ambientale. Opponendosi alle violazioni statali dei “beni pubblici” imposte dal capitalismo finanziario, gli scioperi delle donne stanno catalizzando e modellando gli sforzi per la difesa delle nostre comunità – esigendo il pane, ma anche le rose.
Seconda tesi: Il femminismo liberale ha fallito. È tempo di superarlo
Questa nuova ondata militante è ben lontana dal femminismo corporativo che ha predominato negli ultimi decenni. Tuttavia, i media equiparano ancora il femminismo in quanto tale al modello liberale. L’effetto è quello di seminare confusione, perché il femminismo liberale fa parte del problema. Dedicato alle donne in carriera, il femminismo liberale si concentra su princìpi come “appoggiarsi” e “infrangere il soffitto di vetro”, consente a poche privilegiate di scalare la piramide aziendale come la gerarchia militare, e aderisce a un concetto di uguaglianza centrato sul mercato che si sposa perfettamente con l’entusiasmo imprenditoriale per la “diversità”. Antidiscriminazione e libertà di scelta: ma il femminismo liberale non valuta i contesti socio-economici di scelte e uguaglianza. Alleato del neoliberismo, non beneficia la maggioranza delle donne, anzi la danneggia seriamente.
L’obiettivo del femminismo liberale è la meritocrazia, non l’uguaglianza. Anziché abolire la gerarchia sociale, mira a femminilizzarla, impegnandosi perché le donne al vertice possano pareggiare gli uomini della loro stessa classe. Per definizione, le sue destinatarie saranno coloro che godono già di notevoli vantaggi sociali, culturali ed economici. Compatibile con le disuguaglianze di ricchezza e reddito, il femminismo liberale offre al neoliberismo una patina progressista, nascondendo le sue politiche regressive con una chimera di emancipazione. Alleata dell’islamofobia in Europa e della finanza globale negli Stati Uniti, permette alle professioniste e alle manager di “sostenersi” solo perché possono contare su donne mal retribuite, migranti e lavoratrici, a cui delegano la cura e i lavori domestici.
Insensibile al classismo e al razzismo, lo pseudo-femminismo lega la nostra causa all’elitarismo e all’individualismo. Concependo il femminismo come movimento isolato, ci associa a politiche antipopolari e ci allontana dalle lotte che vi si oppongono. Insomma, il femminismo liberale calunnia e squalifica il femminismo reale. La nostra risposta è il rifiuto: non ci interessa affatto “infrangere il soffitto di vetro” per lasciare alla maggioranza delle donne il compito di raccoglierne le schegge.
Terza tesi: Abbiamo bisogno di un femminismo anticapitalista – un femminismo per il 99%
Il femminismo militante dello sciopero internazionale delle donne affronta una crisi di proporzioni epocali: crollo degli standard esistenziali e incombente disastro ecologico; guerra e spoliazione; migrazioni di massa accolte dal filo spinato; sdoganamento del razzismo e della xenofobia; rovesciamento dei diritti conquistati. Il femminismo che immaginiamo coglie la portata di queste sfide e aspira a vincerle. Sfuggendo alle mezze misure, sostiene i bisogni e i diritti di molte: donne lavoratrici, vittime di razzismo e migranti; queer, transessuali, povere, disabili; donne incoraggiate a considerarsi “borghesi” anche se il capitale le sfrutta. Non si limita alle “questioni femminili” tradizionalmente intese, ma può essere una fonte di speranza per tutti coloro che sono sfruttati, dominati e oppressi: per la maggioranza dell’umanità; un femminismo per il 99%.
Il nuovo femminismo sta emergendo dalle singole esperienze personali, e ispirato dalla riflessione teorica. Sta diventando chiaro che l’unico modo in cui le donne e coloro che rifiutano le codificazioni di genere possono ottenere l’accesso ai diritti fondamentali è trasformare il sistema sociale che li cancella. La sola legalizzazione dell’aborto non è sufficiente, se non è anche gratuito e accessibile a tutte; i diritti riproduttivi richiedono infatti un’assistenza sanitaria gratuita e universale e la fine delle pratiche eugenetiche in ambito medico. Allo stesso modo, l’uguaglianza salariale può significare solo l’uguaglianza nella miseria delle donne povere e della classe lavoratrice, a meno che non si tratti di diritti sostanziali del lavoro, di posti di lavoro che pagano una generosa sussistenza e una nuova organizzazione del domicilio e dell’assistenza. Le leggi che criminalizzano la violenza di genere sono una farsa, se ignorano la brutalità della polizia, l’incarcerazione indiscriminata, le minacce di deportazione, gli interventi militari, le molestie e gli abusi sul posto di lavoro.
L’emancipazione legale è un guscio vuoto se non include i servizi pubblici, l’alloggio sociale e i fondi per garantire che le donne possano liberarsi dalla violenza in casa e sul lavoro.
Per queste ragioni, il femminismo “per il 99 per cento” non può essere un movimento separatista. Si unirà a ogni movimento che lotta per le moltitudini, nel campo della giustizia ambientale, dell’educazione, dell’edilizia, dei diritti dei lavoratori, dell’assistenza sanitaria, e anche nell’opposizione alla guerra e al razzismo. Non siamo in concorrenza con la lotta di classe: al contrario, abbiamo motivo di parteciparvi, anche se stiamo contribuendo a ridefinirla in un modo nuovo e più inclusivo.
Quarta tesi: Stiamo uscendo da una crisi sistemica della società – e la sua causa principale è il capitalismo
La crisi finanziaria del 2008 è ampiamente percepita come la peggiore dagli anni trenta, ma questa concezione è ancora insufficiente. Stiamo vivendo una crisi sistemica della società – dell’economia, dell’ecologia, della politica e della “cura”. Una crisi generale dell’intera organizzazione sociale, in fondo una crisi del capitalismo, e in particolare di quello in cui viviamo oggi: globalizzato, finanziario, neoliberista. Che il capitalismo generi periodicamente queste crisi non è casuale. Non solo questo sistema sfrutta il lavoro salariato, ma si scatena anche contro la natura, i beni pubblici e il lavoro non pagato della riproduzione sociale. Guidato dalla ricerca del profitto, il capitale si espande egoisticamente e senza pagare il prezzo del proprio sviluppo, a meno che non sia obbligato a farlo. Impostato per degradare la natura, strumentalizzare i beni pubblici e imporre un lavoro di cura non retribuito, destabilizza periodicamente le condizioni della sua e della nostra sopravvivenza.
L’attuale crisi del capitalismo è particolarmente acuta, dopo decenni di salari bassi, diritti del lavoro indeboliti, danni all’ambiente e usura delle energie disponibili per sostenere famiglie e comunità – mentre i tentacoli della finanza si sono diffusi attraverso l’intero tessuto sociale. Non c’è da stupirsi che ora così tanti stiano ripudiando i partiti del sistema e tentando nuove prospettive politiche. Il risultato è una crescente crisi dell’egemonia, un vuoto di leadership e di organizzazione, e l’impressione che qualcosa debba cedere.
Il movimento di sciopero femminista è tra le forze che hanno aperto una breccia. Ma non padroneggiamo il terreno. Nuovi movimenti di destra promettono di migliorare il destino delle famiglie (di una determinata etnia) ponendo fine al libero commercio, reprimendo l’immigrazione e violando i diritti delle donne, delle persone di colore e delle persone Lgbtq+. Nel frattempo, le correnti liberali dominanti offrono un programma analogamente sgradevole: vogliono femministe, antirazzisti e ambientalisti per serrare i ranghi del loro liberismo e rinunciare a progetti egualitari di trasformazione sociale. Decliniamo quest’invito. Rifiutando sia il populismo reazionario che i suoi oppositori progressisti, identifichiamo e affrontiamo la vera origine della crisi e della miseria: il sistema capitalista stesso.
Una crisi non è solo un periodo di sofferenza. È anche il momento di un risveglio e un’opportunità per la trasformazione sociale, quando masse critiche di persone disistimano i poteri costituiti e cercano nuove idee e alleanze. Il processo con cui la crisi generale porta alla riorganizzazione della società si è ripetuto più volte nella storia moderna, con il capitalismo che si reinventava ripetutamente. Nei loro tentativi di ripristinare il principio del reddito, i suoi esponenti politici hanno solo riconfigurato l’economia ufficiale, ma anche la politica, la riproduzione sociale, il nostro rapporto con la natura; hanno ristrutturato le forme prevalenti di sfruttamento classista, di genere e razzista. Riproducendo quelle gerarchie, sono spesso riusciti a canalizzare energie ribelli, comprese le energie femministe, a sostegno del nuovo status quo.
Questa dinamica si ripeterà? Le élite dominanti contemporanee appaiono particolarmente pericolose. Focalizzate sui profitti a breve termine, sembrano indisposte a valutare la profondità della crisi, indifferenti alla minaccia che rappresenta per la tenuta del sistema stesso. Preferirebbero trivellare petrolio qui e ora piuttosto che assicurare le condizioni ecologiche dei propri profitti futuri. Di conseguenza, la crisi che affrontiamo oggi è una crisi della vita così come la conosciamo. La lotta per risolverla pone le domande fondamentali dell’organizzazione sociale. Dove distinguere l’economia dalla società, la società dalla natura, la produzione dalla riproduzione e il lavoro dalla famiglia? Come usare il surplus che produciamo collettivamente? E chi dovrebbe deciderlo? Resta da vedere se i responsabili del profitto riusciranno a trasformare le contraddizioni sociali del capitalismo in nuove opportunità per accumulare ricchezza privata, cooptando correnti femministe anche quando riorganizzeranno la gerarchia di genere – o se una rivolta di massa, con le femministe alla sua testa, tirerà, secondo la formula di Walter Benjamin, “il freno di emergenza”.
Quinta tesi: L’oppressione di genere nella società capitalista è fondata sulla subordinazione della riproduzione sociale alla produzione di profitto. Vogliamo rimettere le cose a posto
Molti sanno che le società capitaliste sono per definizione società classiste: autorizzano una piccola minoranza ad accumulare profitti privati sfruttando il gruppo molto più grande che deve lavorare per i salari. Ciò che è meno compreso è che sono anche fonti di oppressione di genere, che il sessismo partecipa delle sue fondamenta. Il capitalismo non ha inventato la subordinazione delle donne, che è esistita in modi diversi in tutte le precedenti società di classe, ma ha stabilito nuove forme tipicamente moderne di sessismo, sostenute da nuove strutture istituzionali. L’innovazione chiave era quella di separare la riproduzione umana dalla produzione di profitto, di assegnare il primo lavoro alle donne e subordinarlo al secondo.
La perversità diventa chiara quando ricordiamo quanto sia vitale e complesso il lavoro di partorire e formare le persone. Non solo questa attività crea e sostiene la vita umana in senso biologico, ma crea e sostiene anche la nostra capacità di lavorare – ciò che Marx chiamava la nostra “forza-lavoro”. E questo significa manipolare le persone secondo atteggiamenti, disposizioni e valori “giusti”: abilità, competenze e talenti. Tutto sommato, il lavoro di riproduzione e formazione delle persone fornisce alcune precondizioni fondamentali – materiali, culturali, sociali – per la società umana in generale e per la produzione capitalista in particolare. Senza di esso, né la vita né la forza-lavoro potrebbero essere incarnate dagli esseri umani. Chiamiamo questo vasto corpo di attività vitale riproduzione sociale.
Nelle società capitaliste, l’importanza cruciale della riproduzione sociale è mascherata e rinnegata. La riproduzione umana è trattata come un semplice mezzo per la realizzazione del profitto. Poiché il capitale procrastina infinitamente la retribuzione di questo lavoro, mentre tratta il denaro come fine assoluto totalizzante, relega chi lo svolge a una posizione subordinata rispetto non solo ai proprietari del capitale ma anche a quei lavoratori salariati più privilegiati che possono scaricare compiti sugli altri. Quegli “altri” sono in gran parte altre. Nelle società contemporanee, la riproduzione sociale viene assegnata al genere o associata alle donne. La sua organizzazione dipende dai ruoli di genere e convalida l’oppressione di genere.
La riproduzione sociale è quindi una questione femminista. Ma è anche attraversata dai nodi della classe e della razza, della sessualità e della nazionalità. Un femminismo volto a risolvere l’attuale crisi deve comprendere la riproduzione sociale attraverso una prospettiva che includa e colleghi questi molteplici cardini del dominio. Le società capitaliste hanno da tempo istituito divisioni razziali del lavoro riproduttivo. Attraverso la schiavitù o il colonialismo, l’apartheid o il neoimperialismo, questo sistema ha costretto razzisticamente le donne a fornire gratuitamente o poco più questo lavoro per la maggioranza della loro etnia o per le “sorelle” bianche. Costrette a occuparsi dei bambini e delle case dei loro amanti o dei loro datori di lavoro, hanno dovuto lottare sempre più duramente per prendersi cura dei propri figli e delle proprie case.
Il carattere di classe della riproduzione sociale è fondamentale. L’accumulazione di capitale dipende tanto dalle relazioni sociali che producono e ricostituiscono il lavoro quanto da quelle che lo sfruttano direttamente. La classe, in altre parole, non è “semplicemente economica”, è fatta di persone concrete, delle loro comunità, dei loro habitat e delle loro condizioni di vita. Le loro esperienze, i loro legami sociali e la loro storia sono tutti prodotti e riprodotti da attività che trascendono di molto i rapporti economici: non sono solo la produzione, ma anche le relazioni umane coinvolte nella riproduzione sociale. La classe lavoratrice globale non include solo coloro che lavorano per i salari nelle fabbriche o nelle miniere, include anche coloro che lavorano nei campi, nelle case private, negli uffici, negli alberghi, nei ristoranti, negli ospedali, negli asili nido e nelle scuole – i precari, i disoccupati e coloro che non ricevono alcuna retribuzione in cambio del loro lavoro. Analogamente, la lotta di classe non riguarda solo i guadagni economici ottenuti sul posto di lavoro ma include anche le lotte sulla riproduzione sociale; sono sempre state centrali, ma oggi sono particolarmente esplosive, perché il neoliberalismo richiede più ore di lavoro mentre revoca il sostegno statale per il welfare, soffocando le famiglie, le comunità, e soprattutto le donne. In queste condizioni, le lotte dedicate alla riproduzione sociale sono diventate centrali, possono trasformare rami e radice della società.
Sesta tesi: La violenza di genere ha molte forme, tutte intrecciate con i rapporti sociali capitalistici. Facciamo voto di combatterle tutte
I ricercatori stimano che una donna su tre nel mondo subisce una forma di violenza di genere nel corso della sua vita. Coloro che commettono la violenza sono spesso i partner, responsabili per il 38% dei femminicidi. Che sia fisica, emotiva, sessuale o tutte e tre le cose insieme, la violenza da parte del partner è riscontrata in tutti i paesi, in tutte le classi e in tutti i gruppi etnici. Radicata nelle dinamiche contraddittorie della famiglia e della vita personale, e perciò anche nella divisione tra chi produce capitale umano e chi produce profitto insita nel capitalismo, riflette il passaggio dai precedenti gruppi parentali allargati, dove i maschi anziani detenevano il potere di vita e di morte su coloro che costituivano quel gruppo, alla famiglia nucleare basata sull’eterosessualità propria della modernità capitalista, che investe un uomo del diritto (moderato) di dare delle regole ai propri familiari. Questo passaggio ha cambiato la natura della violenza di genere all’interno della famiglia. Quello che in passato era apertamente politico ora diviene “privato”: più informale e psicologico, dunque meno razionale, socialmente sanzionato e controllato. Spesso alimentato dall’alcol, dalla vergogna e dall’ansia di mantenere un dominio, questa forma di violenza diventa particolarmente aggressiva e pervasiva nei momenti di crisi. Quando ansia, precarietà economica, instabilità politica incombono pesantemente, anche l’ordine di genere sembra vacillare. Alcuni uomini sentono che le donne sono “fuori controllo”, che le loro case sono “disordinate”, i loro figli “selvaggi”. I loro capi sono spietati, i colleghi ingiustamente favoriti, il loro lavoro a rischio. Le loro abilità sessuali e il loro potere seduttivo sono messi in discussione. La loro mascolinità è minacciata. Esplodono.
Non tutta la violenza di genere prende questa forma apparentemente “irrazionale”. Altri tipi di violenza sono fin troppo “razionali”: l’uso dello stupro di schiave e donne colonizzate per terrorizzare le comunità autoctone e rafforzare il loro assoggettamento; il ripetuto abuso delle prostitute da parte dei trafficanti e degli sfruttatori per “addestrarle”; il massiccio stupro delle donne del nemico come strumento di guerra; non ultima, la diffusione di abusi sessuali sul lavoro o a scuola. In questo ultimo caso gli uomini detengono un potere istituzionale sulle loro vittime. Possono imporre prestazioni sessuali, e quindi lo fanno. L’origine è la vulnerabilità economica, professionale, politica e razziale della donna: il nostro dipendere dallo stipendio, dalle raccomandazioni, dalla discrezione del datore di lavoro circa il nostro status di immigrate. Ciò che consente questo tipo di violenza è un sistema di potere gerarchico che unisce genere, razza e classe.
Queste due tipologie di violenza di genere condividono una base strutturale all’interno della società capitalista. Questa base è la divisione – e reciproca influenza – tra la produzione di beni di consumo, per profitto, e la capacità riproduttiva, per “amore”. Il nodo della questione di genere che assegna il lavoro riproduttivo, per la stragrande maggioranza dei casi, alle donne, ci svantaggia di fronte agli uomini nel mondo del lavoro produttivo, dove siamo relegate a lavori marginali insufficienti al sostentamento della famiglia. Il principale beneficiario è il capitale, ma l’effetto è renderci doppiamente soggette a sopruso: da un lato da parte di familiari e persone vicine, dall’altro da coloro che rafforzano il capitale.
Una comune risposta femminista alla violenza di genere consiste nel rivendicarne la criminalizzazione e punizione. Questo “femminismo carcerario” dà per scontato esattamente ciò che va messo in discussione, ossia che la legge, la polizia e i tribunali siano sufficientemente autonomi dalla struttura di potere capitalista da poter rispondere alla profonda tendenza di generare e tollerare la violenza di genere. Infatti, il sistema giudiziario colpisce sproporzionatamente i poveri e i lavoratori di colore, inclusi i migranti, lasciando spesso impuniti i colletti bianchi. Allo stesso modo, le campagne anti-tratta e le leggi contro lo sfruttamento sessuale, sono spesso usate per arrestare le donne, mentre gli stupratori e gli speculatori restano in libertà. Importante comunque, la risposta carceraria sottovaluta le alternative. Le leggi che criminalizzano lo stupro coniugale o gli abusi sul luogo di lavoro non aiuteranno le donne che non hanno altro luogo in cui andare o maniera per giungervi. Le soluzioni basate sul mercato – ad esempio la promozione dell’indipendenza economica femminile attraverso micro-crediti – aiutano poco le donne a ottenere una reale autonomia dagli uomini delle loro famiglie, mentre aumentano la loro dipendenza dai creditori.
Rifiutiamo sia l’approccio femminista-carcerario che quello neoliberista. La violenza sessuale sotto il capitalismo non è una rottura dell’ordine delle cose, ma una sua parte costitutiva, una condizione sistemica, non un problema criminale o interpersonale. Non può essere capito se isolato dalla violenza biopolitica delle leggi che negano la libertà riproduttiva, da quella economica del mercato, dalla violenza della polizia di stato e della polizia di frontiera, da quella interstatale commessa da eserciti imperialisti, dalla violenza della cultura capitalista e dalla lenta violenza di un contesto che divora i nostri corpi, erode le nostre comunità e i nostri habitat. Nelle aree di esportazione e in altri settori che contano principalmente sulla forza-lavoro femminile, la violenza di genere è comunemente impiegata come strumento di disciplina del lavoro: i direttori utilizzano lo stupro, l’abuso verbale e l’umiliante ispezione corporale per aumentare la produzione e annientare i sindacati. Queste dinamiche sono peggiorate nella crisi capitalista attuale, dove i governi hanno tagliato i fondi, mercificato i servizi pubblici e riassegnato alla famiglia l’onere della cura. In queste circostanze, ripetuti inviti a essere una “buona madre” o una “buona moglie” possono giustificare la violenza contro coloro non si conformano a ruoli di genere.
La violenza di genere ha le sue radici strutturali in un ordine sociale che intreccia la subordinazione delle donne con la divisione del lavoro basata sul genere e con le dinamiche di accumulo del capitale. In questa prospettiva, il movimento MeeToo rappresenta una forma di rivolta di classe. Come hanno dimostrato le contadine immigrate che per prime hanno dichiarato solidarietà alle donne dello spettacolo, Harvey Weinstein non è stato solo un predatore, ma un capo potente, capace di decretare chi lavorasse a Hollywood e chi no.
La violenza in tutte le sue forme è insita nella società capitalista, che si sostiene grazie a un intreccio di coercizione e consenso artificiale. Una forma di violenza non può essere fermata senza fermare le altre. Votate a sradicarle tutte, le femministe dello sciopero uniscono la lotta contro la violenza sessuale e a quella contro ogni forma di violenza nella società capitalista, e contro il sistema sociale che le sottende.
Settima tesi: Il capitalismo cerca di regolare la sessualità. Noi vogliamo liberarla.
A prima vista, le lotte che riguardano la sessualità oggi pongono una questione chiarissima. Da un lato, le forze reazionarie cercano di bandire quelle pratiche sessuali che violano i valori della famiglia o la legge divina, minacciando di lapidare le “adultere” o obbligando lesbiche e gay a “terapie di guarigione”; dall’altro, il liberalismo lotta per i diritti legali dei dissidenti sessuali e delle minoranze, per il riconoscimento di relazioni un tempo proibite, per l’uguaglianza matrimoniale e per i diritti Lgbtq+. Mentre i reazionari mirano a ristabilire arcaismi regressivi – patriarcato, omofobia, repressione sessuale – i liberali si schierano dalla parte della modernità: libertà individuale, espressione di sé, diversità sessuale. Ma nessuna delle due è ciò che sembra. Oggi l’autoritarismo sessuale è tutto fuorché arcaico. Le proibizioni che mira a imporre sono risposte neo-tradizionaliste allo sviluppo neoliberista del capitalismo. Allo stesso modo, i diritti sessuali che il liberalismo promuove sono concepiti in termini che presuppongono forme capitalistiche della modernità, insieme normalizzanti e consumiste.
Le società capitaliste hanno sempre cercato di organizzare la sessualità. Prima che le relazioni capitalistiche dilagassero, le autorità preesistenti – specialmente la chiesa e il senso comune – avevano il compito di stabilire e rafforzare le norme che distinguevano il sesso accettabile da quello peccaminoso. Dopo, mentre il capitalismo rimodellava l’intera società, si coltivavano nuove norme borghesi e nuovi modi per regolare la sessualità, incluse il binarismo (cioè la rigida distinzione di genere) e l’etero-normatività (cioè l’identificazione dell’eterosessualità con la normalità). Queste norme “moderne” si sono ampiamente diffuse grazie al colonialismo, alla cultura di massa e allo stabilirsi di una società basata sulla famiglia. Ma non è andato tutto liscio. Al contrario, si sono scontrate sia con i precedenti regimi sessuali che con le nuove aspirazioni alla libertà sessuale, espresse dalle sottoculture gay e lesbiche e nei contesti d’avanguardia.
Sviluppi più recenti hanno ristrutturato quella configurazione. Le norme borghesi si sono svigorite, mentre la corrente “libertaria” è diventata la tendenza principale, e le fazioni dominanti di entrambe si sono unite in un unico progetto: normalizzare le pratiche sessuali un tempo proibite entro una più ampia zona di regolazione istituzionale, in forme capitalistiche che incoraggiano l’individualismo, la vita familiare e il consumismo. Dietro a questa riconfigurazione c’è un cambiamento della natura del capitalismo. Sempre più finanziarizzato, lontano dal territorio e dalla famiglia, il capitale non è più implacabilmente nemico delle formazioni di sesso/genere queer e non-cis. Le grandi corporazioni ora permettono ai loro lavoratori di vivere al di fuori di famiglie eterosessuali – purché righino dritto sul luogo di lavoro.
Questo è il contesto attuale delle lotte per la liberazione sessuale. È un momento di crescente fluidità di genere tra i giovani, di aumento dei movimenti queer, non-cis e femministi e di significative vittorie dal punto di vista giuridico. La formale uguaglianza di genere, i diritti Lgbtq+ e l’uguaglianza matrimoniale sono ora sancite in molti paesi. Queste vittorie, risultate da dure battaglie, riflettono anche i cambiamenti sociali e culturali del neoliberalismo. Ciononostante, sono intrinsecamente fragili. Nuovi diritti giuridici non impediscono le aggressioni a persone Lgbtq+, che continuano a subire violenza di genere e sessuale, simbolico misconoscimento e concreta discriminazione. Il capitalismo finanziarizzato stesso sta alimentando un contraccolpo sessuofobico: i populisti di destra possono accusare le negatività della modernità capitalista identificando la famiglia tradizionale come vittima del mercato. Ma distorcono argomenti legittimi per promuovere un tipo di opposizione innocua al capitale. La loro “difensività” espelle la libertà sessuale, ottenendo un risultato perfettamente capitalistico.
La repressione sessuale diventa così speculare al liberalismo sessuale, che – anche nel migliore scenario possibile – è basato su strutture che privano la maggioranza dei requisiti materiali necessari per realizzare le libertà formali. Conta anche su regimi normativi che contemplano solo la coppia monogama, un compromesso per gay e lesbiche. Anche se sembra valorizzare la libertà individuale, il liberalismo sessuale non mette in discussione le condizioni strutturali che alimentano l’omofobia e la transfobia, incluso il ruolo della famiglia nella riproduzione sociale. Le nuove culture eterosessuali, basate su incontri e appuntamenti online, inducono le giovani donne ad “appropriarsi” della loro sessualità ma continuano a giudicarle per il loro aspetto e le sollecitano a soddisfare i ragazzi, autorizzando l’egoismo sessuale maschile secondo l’esemplare moda capitalista. Nuove forme di “normalità gay” presuppongono la normalità capitalista, dove l’apparenza di un gay borghese è determinata dai suoi consumi e dal suo prestigio: la sua esistenza è strumentalizzata come segno di “illuminata tolleranza occidentale” per legittimare progetti neocoloniali. Ad esempio, le agenzie israeliane esaltano la loro superiore cultura “filo-gay” per giustificare l’assoggettamento dei palestinesi arretrati e omofobi, mentre gli europei liberali vi basano l’islamofobia.
Le femministe per il 99 per cento rifiutano di giocare a questo gioco. Rigettiamo sia la cooptazione neoliberale che l’omofobia e misoginia neo-tradizionale e vogliamo rianimare lo spirito radicale di Stonewall, delle correnti di femminismo sessuale positivo (da Aleksandra Kollontay a Gayle Rubin), e della storica campagna gay e lesbica a sostegno dello sciopero dei minatori nel Regno Unito. Lottiamo per liberare la sessualità dalla procreazione e dalle forme normative familiari, ma anche dalle deformazioni del consumismo. Questo richiede un nuovo ordine sociale non-capitalista che assicuri le basi materiali della liberazione sessuale, incluso un generoso supporto pubblico per la riproduzione sociale, ridisegnato per la più ampia serie di famiglie e associazioni umane.
Ottava tesi: Il capitalismo è nato fra la violenza razzista e coloniale. Il femminismo per il 99% è antirazzista e antiimperialista
Oggi, come in occasione di precedenti crisi del capitalismo, la “razza” è diventata un tema cruciale. Gli aggressivi etno-nazionalismi rinunciano al linguaggio diplomatico e sbraitano in favore della supremazia bianca. I governi centristi si uniscono alle controparti razziste respingendo i migranti e i rifugiati, sequestrandone i figli e dividendone le famiglie, o lasciandoli annegare in mare. Le forze di polizia continuano ad assassinare persone di colore rimanendo impunite, mentre i tribunali archiviano le loro pratiche. Qualcuno ha provato a reagire, partecipando in forze alle proteste contro la violenza della polizia razzista e contro i giochi di potere dei suprematisti bianchi. Negli Stati Uniti, alcuni stanno lottando per dare un nuovo significato al termine “abolizione”, chiedendo la chiusura e la condanna dell’agenzia Ice (Immigration and Customs Enforcement), disposta dal Dipartimento della sicurezza interna di Bush.
In questa situazione le femministe, come chiunque altro, devono prendere posizione. In generale, storicamente l’esperienza femminista circa la razza è stata molto varia. Le suffragiste bianche influenti hanno espresso un’invettiva razzista dopo la Guerra civile, quando agli uomini neri era concesso votare e a loro no. Nel ventesimo secolo inoltrato, le capofila femministe britanniche hanno difeso il colonialismo in nome della civilizzazione per “l’emancipazione delle donne di colore”. In maniera simile, illustri femministe europee giustificano oggi le politiche contro i musulmani. Anche se non intenzionalmente razziste, le femministe liberali e radicali hanno concepito “sessismo” e “questioni di genere” come termini che universalizzano falsamente la situazione delle donne bianche borghesi. Isolando il genere dalla razza e dalla classe, hanno proclamato il bisogno delle donne di fuggire la vita familiare e di andare a lavorare, come se fossimo tutte casalinghe bianche di provincia. Secondo la stessa logica, le principali femministe degli Stati Uniti hanno insistito sul fatto che le donne nere possano essere davvero femministe solo privilegiando un’immagine di sorellanza non razziale rispetto alla solidarietà anti-razzista con gli uomini neri.
Grazie a decenni di resistenza delle femministe di colore, queste concezioni sono viste sempre più per quello che sono e rifiutate da un numero crescente di femministe di ogni sorta. Prendendo coscienza di questa storia vergognosa, scegliamo di romperne la tendenza. Comprendiamo che niente che meriti di essere chiamato “liberazione delle donne” possa essere raggiunto in una società razzista e imperialista. Ma capiamo anche che la radice del problema è il capitalismo: razzismo e imperialismo non sono accidentali, nel capitalismo, ma costitutivi. È un sistema che si vanta del lavoro gratuito e di un contratto salariale dovuto a violente razzie coloniali, dalla commerciale “caccia al nero” in Africa al reclutamento forzato per la schiavitù nel Nuovo Mondo. L’espropriazione razzista di persone subalterne o soggiogate è stata sempre necessaria allo sfruttamento vantaggioso del lavoro gratuito. Questa specificità ha preso diverse forme nell’arco della storia del capitalismo, nella schiavitù, nel colonialismo, nell’apartheid e nella divisione internazionale del lavoro. Ma in ciascuna fase ha coinciso, grossolanamente ma in modo inequivocabile, con la bussola del colore della pelle. In ogni fase, inoltre, la depredazione imperialista ha permesso al capitale di aumentare i profitti assicurando il proprio accesso a risorse naturali e capacità umane per le quali la riproduzione non paga. Il capitalismo ha creato classi razziali di esseri umani, sottovalutati nel lavoro e soggetti a espropriazione. Un femminismo veramente antirazzista e antimperialista deve essere anche anticapitalista.
Questa proposizione non può essere più vera oggi, quando il capitalismo finanziarizzato promuove l’oppressione razziale attraverso un esproprio dovuto al debito. Nel sud del mondo, l’espropriazione terriera delle corporazioni per sanare il debito sradica i popoli indigeni dalle loro terre, mentre il risanamento del Fondo monetario internazionale taglia i fondi sociali e condanna le generazioni future a lavorare duramente per ripagare gli affamatori globali. In questo modo continua l’espropriazione razzista, insieme all’aumento dello sfruttamento, sospinto dal trasferimento della manodopera nel Sud del mondo. Nel Nord del mondo, analogamente, mentre il lavoro precario sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari non coprono il costo della vita e i lavoratori contano sugli anticipi dello stipendio a tassi altissimi; l’espropriazione razzista continua indisturbata. Qui, inoltre, le entrate fiscali che prima erano destinate alle infrastrutture pubbliche ora sono dirottate al servizio del debito, con effetti disastrosi per le comunità di colore e con effetti altrettanto pesanti sulle donne.
In questo contesto, proclamazioni astratte di sorellanza globale sono controproducenti. Considerare un obiettivo politico come se fosse già dato trasmette una falsa impressione di omogeneità. La realtà è che, nonostante tutte soffriamo di oppressione misogina nella società capitalista, la nostra oppressione assume forme diverse. Il collegamento tra queste forme di oppressione deve essere svelato politicamente, attraverso sforzi coscienti per costruire solidarietà. Solo in questo modo, lottando attraverso e nella diversità, possiamo raggiungere il potere congiunto necessario a trasformare la società.
Nona tesi: Contro la distruzione capitalista del pianeta Terra, il nostro femminismo è ecosocialista
La crisi odierna del capitalismo è anche ecologica. Come abbiamo argomentato, il capitalismo è predisposto a espropriare la natura senza riguardo per la sostenibilità, e periodicamente destabilizza le possibilità stesse delle proprie condizioni ecologiche – estenuando il suolo, esaurendo la ricchezza minerale, avvelenando l’acqua e l’aria. Il cambiamento climatico oggi è il risultato del ricorso del capitale ai combustibili fossili per alimentare le sue fabbriche. Non era “l’umanità”, ma il capitale, che strappava i depositi carbonizzati, formatisi sotto la crosta terrestre in centinaia di milioni di anni, e li consumava in un batter d’occhio. I cambiamenti dal carbone al petrolio, e poi al gas naturale e alla fratturazione idraulica, hanno incrementato le emissioni di carbonio, scaricando in modo sproporzionato le “esternalità” sulle comunità povere, tutto a scopi di profitto.
Le donne sono in prima linea nell’attuale crisi ecologica: l’80% delle persone rifugiate per motivi climatici sono donne. Nel Sud del mondo costituiscono la maggioranza della forza-lavoro rurale e portano sulle loro spalle il peso del lavoro socio-riproduttivo. A causa del loro ruolo chiave nel fornire cibo, indumenti e riparo, sopportano il peso della siccità, dell’inquinamento e dello sfruttamento intensivo della terra. Le donne povere e di colore del Nord del mondo sono anche molto vulnerabili al razzismo ambientale: costituiscono la spina dorsale delle comunità soggette a inondazioni e avvelenamento da piombo.
Le donne sono anche in prima linea nelle lotte contro il cambiamento climatico e l’inquinamento: quella contro l’oleodotto Dakota Access a protezione dell’acqua negli Stati Uniti; la fortunata battaglia peruviana di Máxima Acuña contro il gigante minerario statunitense Newmont; la battaglia delle donne Garhwali nel nord dell’India contro la costruzione di tre dighe idroelettriche; e la miriade di lotte in tutto il mondo contro la privatizzazione dell’acqua e delle sementi per la conservazione della biodiversità e dell’agricoltura sostenibile. Queste sono nuove forme di lotta che sfidano la tendenza dell’ambientalismo tradizionale a opporsi alla difesa della “natura” per il benessere materiale delle comunità. Rifiutando di separare le questioni ecologiche da quelle della riproduzione sociale, questi movimenti guidati dalle donne rappresentano una potente alternativa anti-corporativa e anticapitalista a progetti di “capitalismo ecologico”, che promuovono il commercio speculativo dei permessi di emissione, le compensazioni per il carbonio e i derivati ambientali. Invece, questi movimenti si concentrano sul mondo reale, dove la giustizia sociale, il benessere delle comunità umane e la sostenibilità della natura sono inestricabilmente legate. La liberazione delle donne e la conservazione del nostro pianeta dal disastro ecologico vanno di pari passo.
Decima tesi: Il capitalismo è incompatibile con una democrazia e una pace reali. La nostra risposta è il femminismo internazionalista
La crisi odierna è anche politica. Catturate dal potere delle imprese e indebolite dal debito, le istituzioni politiche danzano sulle note delle banche centrali e degli investitori internazionali, dei magnati dell’energia e dei profittatori di guerra. Anche la crisi politica è radicata nella struttura istituzionale della società capitalista. Il capitalismo divide il momento politico da quello economico, la violenza legittima dello stato dalla muta costrizione del mercato. L’effetto è quello di portare fuori dal controllo democratico vaste aree di vita sociale, trasformandole invece in territorio aziendale. Con la sua struttura, il sistema ci priva della capacità di decidere collettivamente cosa e quanto produrre, come organizzare il lavoro di riproduzione sociale. Il capitalismo, dunque, è fondamentalmente anti-democratico. Genera necessariamente una geografia imperialista del mondo, autorizzando gli stati più potenti a depredare i più deboli, schiacciandoli con il debito.
Ovunque il capitale scarica il potere istituzionale, avvalendosi di regimi giuridici che proteggono la proprietà privata e di forze repressive che sopprimono le agenzie di opposizione e di regolazione incaricate di gestire la crisi. Allo stesso tempo, la sete di profitto tenta periodicamente alcune fazioni della classe capitalista alla ribellione contro il potere pubblico, in quanto inferiore al mercato. In questi casi, quando gli interessi a breve termine prevalgono sulla sopravvivenza a lungo termine, la tigre capitalista si morde la coda. Oggi la sua tendenza a generare crisi politica ha trovato nuovo slancio. I regimi neoliberisti impugnano l’arma del debito colpendo qualsiasi forza politica che possa sfidarli e annullando massicci voti popolari contrari all’austerità, come per esempio in Grecia.
Le donne sono di nuovo le vittime cruciali di questa crisi e le attrici centrali nella lotta per la democrazia e per la pace. Per noi, tuttavia, la soluzione non è solo quella di mettere più donne nelle roccaforti del potere. Essendo state a lungo escluse dalla sfera pubblica, abbiamo dovuto lottare con le unghie e con i denti per essere ascoltate su argomenti regolarmente liquidati come “privati”. Spesso, tuttavia, le élite progressiste si sono impossessate delle nostre affermazioni manipolandole in senso favorevole al capitale. Siamo invitate a votare per le donne in politica e a celebrare la loro ascesa al potere, come se questo potesse influire positivamente sulla nostra liberazione. Ma per noi non c’è nulla di femminista in donne che facilitano il bombardamento di altri paesi e sostengono gli interventi neo-coloniali in nome dell’umanitarismo, pur rimanendo in silenzio sui genocidi perpetrati dai loro stessi governi. Le donne sono le prime vittime della guerra e dell’occupazione imperiale in tutto il mondo. Affrontano sistematiche vessazioni, l’omicidio e la mutilazione dei loro cari, la distruzione delle infrastrutture che hanno permesso loro di provvedere a se stesse e alle loro famiglie. Siamo solidali con loro. A coloro che pretendono di giustificare i loro scopi guerrafondai sostenendo di liberare donne di diversi gruppi etnici e sociali, diciamo: “Non in nostro nome”.
Undicesima tesi: Il femminismo per il 99% invoca ogni movimento radicale per aderire insieme a una comune insurrezione anticapitalista
Come femministe, non agiamo isolatamente rispetto agli altri movimenti di resistenza e di ribellione. Non ci distacchiamo dalle battaglie contro il cambiamento climatico o lo sfruttamento del lavoro, né ci separiamo dalle lotte contro il razzismo istituzionale e l’espropriazione. Queste lotte sono le nostre, parte integrante di quella per smontare il capitalismo senza la quale non può esserci fine alla divisione di genere e all’oppressione sessuale. Per noi, lo scopo è chiaro: il nuovo femminismo dovrebbe unire le forze con altri movimenti anticapitalisti di tutto il mondo, con sindacati e gruppi ambientalisti, antirazzisti, antimperialisti e Lgbtq+, e soprattutto con le loro correnti anticapitaliste.
Rifiutando le opzioni politiche che il capitale ci presenta, respingiamo sia il populismo reazionario che il neoliberismo progressista. Vogliamo spezzare l’alleanza del progressismo neoliberista: separare la massa delle donne non privilegiate, degli immigrati e delle persone di colore dalle femministe corporative, dai meritòcrati anti-razzisti e anti-omofobi della “diversità” aziendale e dai capitalisti “verdi” che hanno cercato di deviare i problemi gonfiandoli in senso neoliberista. Vogliamo anche dividere il blocco populista reazionario: allontanare le comunità lavoratrici dalle forze che pur presentandosi come difese dell’“uomo comune” sono cripto-neoliberali e promuovono il militarismo, la xenofobia e l’etno-nazionalismo. In questo modo, cerchiamo di costruire una forza anticapitalista che sia abbastanza grande e potente da trasformare la società.
La lotta è un’opportunità e una scuola. Può trasformare coloro che vi partecipano, sfidando le priorità della nostra coscienza e rimodellando la nostra visione del mondo. Può approfondire la comprensione della nostra stessa oppressione, ciò che la causa, chi ne beneficia, che cosa dev’essere fatto per superarla. L’esperienza della lotta può anche indurci a reinterpretare i nostri interessi, a rinnovare le nostre speranze, a espandere il nostro senso del possibile. Può indurci a rivedere le precedenti interpretazioni dei nostri alleati e dei nostri nemici. Può allargare la solidarietà tra gli oppressi e affinare il loro antagonismo contro gli oppressori.
La parola chiave, qui, è “può”. Tutto dipende dalla nostra capacità di sviluppare una prospettiva che né semplicemente celebri né cancelli le differenze tra di noi. Contrariamente a quanto sostenuto dalla moda ideologica della “molteplicità”, le varie oppressioni che soffriamo non costituiscono una pluralità fondamentale. Benché ciascuna abbia le sue forme e caratteristiche distintive, tutte sono radicate nello stesso sistema sociale, che le rafforza. È nominando quel sistema come capitalismo e unendoci per combatterlo che possiamo superare meglio le nostre divisioni, che il capitalismo coltiva: le divisioni di cultura, razza, etnia, capacità, sessualità e genere. Ma il capitalismo deve essere capito correttamente. Il lavoro salariato industriale non identifica la totalità della classe lavoratrice, né il suo sfruttamento esaurisce l’essenza e il fine del dominio capitalista. Insistere sul primato di questo strato non favorisce ma indebolisce la solidarietà di classe, che è tanto più avanzata quanto più permette il reciproco riconoscimento delle nostre disparate situazioni di fondo, delle nostre esperienze e delle nostre sofferenze; dei nostri bisogni e desideri specifici e delle nostre richieste precise; delle varie forme organizzative attraverso cui possiamo esaudirle meglio. Il femminismo per cui lottiamo cerca di superare le opposizioni stantie fra politica dell’identità e politica di classe. Rifiutando l’impalcatura a somma zero che il capitalismo costruisce per noi, le femministe per il 99% mirano a unire i movimenti esistenti e futuri in un’insurrezione globale di ampia portata.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini. |