Non costruite più nulla

Il giorno successivo all’alluvione è quello peggiore di tutti, quando si rientra nelle proprie case e ci si rende conto di avere perso ogni cosa. Qui in Romagna l’acqua non ha ancora finito di ritirarsi e già si contano 14 morti e oltre 36.000 sfollati: oltre alle vite irreparabilmente perse, ci sono moltissime persone costrette ad accatastare fuori sulla strada i mobili e gli oggetti distrutti dall’acqua, in attesa che una ruspa se li porti via. Per chi viveva ai pianterreni ci vorranno mesi prima di poter tornare nella propria abitazione: il fango si è mischiato ai reflui fognari e i muri avranno bisogno di tutta l’estate per liberarsi dall’umidità e dall’odore. Molte strade sono ancora impercorribili e per ripristinare la circolazione ferroviaria, coi binari in alcuni tratti sospesi nel vuoto, occorreranno diversi giorni. Nonostante l’allerta rossa diramata con ventiquattro ore di anticipo, la quantità di pioggia caduta è stata enorme e si è combinata all’alta marea in corso nello stesso momento, che ha impedito all’Adriatico di accogliere l’acqua proveniente dai fiumi, determinando le esondazioni di 21 corsi idrici in più punti, con allagamenti in 35 Comuni secondo la Regione.
L’alluvione in Romagna è stata un evento apocalittico, ma non del tutto inaspettato. Da anni si dice che questa area è una delle più esposte al dissesto idrogeologico: le conseguenze della micidiale combinazione fra impermeabilizzazione del terreno, cementificazione degli argini dei fiumi, subsidenza del suolo, innalzamento del livello del mare e disboscamenti, in mezzo alla crisi climatica di causa antropica che sta provocando lunghi periodi di siccità alternati a piogge molto intense, sono rischi noti da decenni. Eppure, quando questi eventi accadono davvero, nessuno è mai pronto. E anche chi è stato risparmiato, magari per poche centinaia di metri, sente l’acqua alta tutto intorno a sé e sa che la prossima volta sarà peggio e potrebbe toccare anche a lui. Basta vedere cosa è accaduto con la prima alluvione del 2 e 3 maggio, che ha riguardato solo un quartiere di Faenza, e quella del 16 e 17 maggio, appena due settimane dopo, che oltre a infierire sulla stessa città in maniera ancora più intensa, ha allagato un’estesissima area fra le province di Ravenna e Forlì-Cesena, sommandosi alle circa 250 frane sulla fascia collinare che hanno riguardato anche la provincia di Bologna, elevando le dimensioni del cataclisma dall’Appennino alla costa. A novembre era toccato a Ischia, a settembre a Senigallia, e purtroppo accadrà di nuovo sia qui che altrove e fra non molto: se fino a poco tempo fa le conseguenze della crisi climatica apparivano sempre come un evento lontano da noi nel tempo e nello spazio, compromettendo la reale percezione del problema, oggi invece sono vicine, tangibili e sempre più frequenti.
Eppure i politici continuano a negare la questione. Il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, nei discorsi pronunciati in questi giorni, non ha mai menzionato la crisi climatica di causa antropica e la necessità di cambiare corso, seguito a ruota dai politici locali e nazionali che, per autoassolvere se stessi e il sistema politico-economico che rappresentano, hanno puntato tutto sull’effettiva eccezionalità delle piogge («quando in 36 ore cade l’acqua di sei mesi, e cade dove quindici giorni fa era caduta una pioggia record che aveva fatto cadere quello che cade in quattro mesi, non c’è territorio che possa tenere, anche perché la pioggia cade su un terreno che non assorbe più nulla, va tutta nei fiumi e non può scaricare in mare perché è ingrossato dalle mareggiate: su questo non ci si può far nulla», ha detto Bonaccini intervenendo al Tg La7 e ripetendo lo stesso disco in ogni successiva occasione). Ma non è affatto vero, come tende a far credere questa narrazione tossica, che si tratta solo di “maltempo”. La colpa è stata della pioggia eccezionale, sì, ma la politica omette di dire che tale pioggia è stata a sua volta provocata dall’umanità che a partire dalla seconda metà del novecento ha emesso troppe sostanze climalteranti in atmosfera, causando radicali mutamenti dell’ambiente che significano eventi meteorologici estremi come i lunghi periodi di siccità alternati alle piogge molto intense, con dinamiche tropicali e non più mediterranee. Se aggiungiamo che questa enorme quantità di acqua cade su un suolo secco e impermeabilizzato, come sottolinea Bonaccini senza specificare che anche questa è una colpa dell’uomo, il cerchio si chiude in modo drammatico e catastrofico.
Ma ciò che è peggio non è il negazionismo, bensì la retorica della ripartenza, incarnata dalla narrazione dell’operosità emiliano-romagnola di cui il tronfio governatore dell’Emilia-Romagna ha fatto ampio uso mentre ancora si contavano i morti e gli sfollati («ricostruiremo tutto» è la frase più spesso pronunciata da Bonaccini, così come dalla Regione che giovedì mattina scriveva che «l’Emilia-Romagna guarda già anche alla ricostruzione e alla ripartenza dopo la drammatica ondata di maltempo ancora in corso»). Ma ricostruire significherà gettare altro cemento in un territorio già compromesso, quello della regione terza nella classifica italiana per la cementificazione (col 9% di suolo impermeabilizzato secondo Ispra) e per l’incremento del consumo di suolo (circa 658 ettari in più ricoperti nel 2021, il 10,4% del consumo di suolo nazionale di quell’anno). È il cemento, in Emilia-Romagna troppo abbondante per il malgoverno degli interessi economici legati all’edilizia, all’industria e al turismo, che ha reso questo territorio fragile ed esposto al dissesto idrogeologico; ed è il cemento, e non il maltempo, la vera causa del disastro avvenuto. Eppure riprendere a fare tutto come prima continua a essere l’unica strategia per la “ripartenza”, proprio come abbiamo già visto con la pandemia del covid-19, altra conseguenza dell’antropizzazione del pianeta che però, a quanto pare, non è affatto servita da lezione.
Nell’antichità la Pianura Padana era una grande palude in cui non si distingueva il confine fra la terra e l’acqua, una grande area umida ricca di biodiversità, ma anche povera e malsana, in cui si viveva in abitazioni erette su palafitte. Le prime bonifiche sono iniziate nel Medioevo e sono proseguite fino a inizio Novecento, facendo assumere a questa area le caratteristiche che conosciamo ora, quelle cioè di un territorio pianeggiante e fertile, dove tutto è stato delimitato, addomesticato, antropizzato e piegato ai voleri dell’uomo. Un profondo mutamento che ha permesso lo sviluppo economico e di benessere di questa regione, ma che è avvenuto senza alcuna armonia con la natura: se i fiumi vengono deviati e i loro argini artificializzati, non hanno più lo spazio intorno a sé per esondare senza fare danni e non possono più apportare sedimenti alle spiagge, che a loro volta vanno in erosione mentre il mare si innalza in assenza di barriere che lo fermino, poiché anche le dune naturali costiere sono state abbattute per fare spazio agli edifici sulla costa. Un circolo vizioso che, con l’aumentare dei fenomeni meteorologici estremi, continuerà a presentare il conto in maniera sempre più difficile da gestire.
Davanti a questo scenario la risposta non è affatto ricostruire tutto; è invece necessario non costruire più nulla, e dove possibile, tornare persino indietro. Non alle paludi malsane dell’Alto Medioevo, ma almeno in una situazione di equilibrio tra uomo e natura, e tenendo conto che anche se dovessimo smettere da un giorno all’altro di inquinare del tutto, dovremo comunque fare i conti con altre catastrofi innescate dal clima ormai alterato. Se la Regione Emilia-Romagna e il suo governatore vogliono continuare a dimostrare di essere davvero più avanti e migliori di tutti gli altri, come da queste parti è sempre piaciuto fin troppo fare, devono essere i primi a cambiare modello. Essere avanti non deve più significare costruzioni, emissioni climalteranti, pulizia e addomesticamento di flora e fauna, bensì decementificare, decrescere e rinaturalizzare, senza più aggiungere un solo centimetro cubo di cemento o asfalto. Questo implica anche un profondo cambio culturale, che riguarda molti livelli: dalla semplice erba alta, che oggi per i pensionati alla finestra significa scarsa manutenzione del territorio meritevole di una scandalizzata lettera al quotidiano locale, e che invece dovrà essere accettata perché mantiene il suolo più fresco e poroso, fino alla rinuncia alle grandi opere inutili come il passante di Bologna, che in nome del progresso e della velocità implica l’ennesima vasta porzione di suolo cementificato. Invece, finora la politica è stata ambientalista solo a parole e non con le azioni: lo dimostra, proprio in Emilia-Romagna, la farlocca legge del 2017 definita “contro il consumo di suolo”, che in realtà di fatto ha permesso di continuare la cementificazione indiscriminata. L’Emilia-Romagna dimostri, proprio a partire dai territori alluvionati, che un cambio di rotta radicale si può e si deve prendere: smettendo di costruire e cementificare, abbandonando i combustibili fossili, avviando un arretramento gestito degli insediamenti sull’acqua più a rischio e propagandando uno stile di vita più lento, meno consumistico e in totale armonia con la natura. In un concetto, abbandonando quell’idea di “sviluppo” su cui si è costruita la civiltà capitalista, che com’è evidente dopo l’alluvione romagnola, sta portando l’umanità ad affrontare catastrofi continue.