Nella Russia di Putin
Quando, alla fine del secolo scorso, studiavo la mafia russa mi imbattevo spesso in funzionari dell’ex Kgb in ottimi rapporti con i gangster. Tra le due categorie vi era una attrazione reciproca. Negli anni Ottanta, le spie operavano sotto copertura in ambasciate, banche occidentali e aziende di import-export. Il loro compito consisteva nell’aiutare l’Urss ad aggirare l’embargo sulle importazioni di tecnologia e materiali strategici e tenere i contatti con i movimenti politici alleati. E così acquisirono conoscenze profonde del sistema finanziario occidentale, in particolare su come pagare fornitori e alleati in nero. In altre parole, erano maestri del riciclaggio su vasta scala. Quando crollò l’Unione Sovietica, le spie si attivarono per creare canali per far uscire dal paese i beni del Partito Comunista e nasconderli in quelle società fittizie che già estivano da decenni. Le loro competenze divennero improvvisamente cruciali anche per i mafiosi che volevano nascondere e investire il proprio denaro all’estero. In quel mondo di mezzo, le spie convivevano felicemente con la criminalità organizzata ed entrambi beneficiavano della deregulation dei mercati finanziari occidentali iniziata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher e continuata da Bill Clinton e Tony Blair.
Questi intrecci sono al centro dello straordinario affresco dedicato alla Russia contemporanea dall’ex corrispondente del Financial Times a Mosca, Catherine Belton, in Putin’s People: How the Kgb Took back Russia and then Took on the West (William Collins). Il libro, uscito a fine aprile, è già un caso editoriale in Inghilterra, recensito da tutti i maggiori quotidiani e di prossima pubblicazione anche in Italia. Frutto di otto anni di lavoro certosino, basato su un centinaio di interviste con i maggiori protagonisti dell’epoca (alcuni dei quali preferiscono rimanere anonimi), il saggio sostiene che un vastissimo sistema occulto di tangenti è centrale per far funzionare il sistema politico putiniano. I metodi di oggi sono gli stessi di quelli usati dal Kgb nell’era tardo sovietica, di cui il futuro presidente era parte integrante. Belton racconta fatti poco noti o del tutto inediti sui compiti del giovane funzionario di stanza a Dresda dal 1985 al 1990. Secondo l’autrice, quella città era il cuore delle operazioni commerciali per “ottenere valuta pregiata… e tecnologia occidentale sottoposta a embargo” da condividere con Mosca. Agenti tedeschi e russi crearono società di comodo con sedi in Germania, Austria, Svizzera e Lichtenstein, usate poi negli anni Novanta per nascondere i denari del Partito comunista. Putin era il “faccendiere capo” dei fondi neri che passavano per la Germania dell’Est, secondo Horst Jehmlich, il vicedirigente della Stasi di Dresda. L’autrice scova persino un ex membro del gruppo terroristico Raf che sostiene di aver incontrato Putin e di aver ricevuto dal Kgb armi e denaro. Secondo Benton, Putin affinò i ferri del mestiere a Dresda e li ha continuati a usare quando arrivò al Cremlino quasi vent’anni dopo.
Putin si trasferì a San Pietroburgo nel 1990 per lavorare nell’amministrazione del sindaco democratico Anatoly Sobchack. Il suo compito consisteva nel gestire gli investimenti provenienti dall’estero. Un imprenditore straniero arrivato per incontrare i funzionari del Comune venne scortato dalla polizia al cospetto di Ilya Traber, il rappresentante della Tambovskaya, il gruppo criminale che controllava il porto, in una residenza-bunker fuori città. Circondato da guardie armate e cani con denti digrignati, al collo una catena d’oro, Traber indossava una tuta da ginnastica e ciabatte di plastica, la divisa d’ordinanza del boss russo di quegli anni. Dopo aver ottenuto il permesso da Traber, l’imprenditore fu rispedito in città per finalizzare il contratto con il funzionario del comune, Putin appunto. Parte dei profitti di quelle joint-venture venivano nascosti nei conti di società di comodo e diventavano tangenti estero-su-estero per politici e amministratori. Belton non misura le parole quando sostiene che vi fosse un patto tra mafia e politica a San Pietroburgo, anche se gran parte delle sue fonti rimangono anonime.
Chiamato a Mosca nel 1996, Putin fece una carriera fulminante, ricoprendo in rapida successione incarichi importanti nell’amministrazione presidenziale (una struttura burocratica potentissima). Nel 1998 venne nominato capo dei servizi segreti civili, l’Fsb. Pur essendo un ex funzionario del Kgb e quindi sospetto agli occhi dei democratici, riuscì ad accreditarsi presso i politici corrotti e i familiari di Yeltsin come un efficiente esecutore, senza ambizioni personali, disposto a proteggerli dalle indagini della procura. “Sono solo un manager, assunto per portare a termine un compito limitato,” ebbe a dire. Intorno al 1999 Putin diventò così il successore designato e per un solo mandato, con l’appoggio convinto dell’occidente terrorizzato che i “comunisti” potessero vincere le elezioni parlamentari e poi la presidenza. Osservatori stranieri e cittadini comuni non avevano mai sentito parlare di questo grigio funzionario. Ricordo ancora lo stupore quando in Russia sentimmo la notizia al telegiornale. Per accreditarlo presso gli elettori stanchi della corruzione dell’era Yeltsin, Belton abbraccia la tesi piuttosto controversa che gli attentati terroristici del 1999 (che fecero 367 vittime) furono orditi per facilitare le chance elettorali del candidato, anche se gli indizi rimangano incerti e tutti negano.
Eletto nel Duemila, Putin si rivelò molto più astuto dei suoi padrini politici. Un episodio rivelatore avvenne la notte della sua elezione, quando fece sapere di essere troppo impegnato per rispondere a una telefonata di Yeltsin. Il nuovo presidente si mise subito al lavoro per riaffermare il potere dello stato a scapito dei potentati economici. Quando Mikhail Khodorkovsky, all’epoca l’uomo più ricco del mondo e padrone della società petrolifera Yukos, si mosse per far entrare Exxon e British Petrolium nel capitale di Yukos, Putin impose il suo arresto e smembrò l’azienda. Fu l’inizio del capitalismo di stato e la fine dell’indipendenza della magistratura. Gli Usa fecero flebili proteste e ben presto i banchieri occidentali si ritrovarono a fare la fila per gestire le aste dell’impero di Khodorkovsky smembrato da Putin. Lo studio legale di James Baker, l’avvocato texano ministro del Tesoro con Reagan e segretario di stato con Bush Junior, rappresentò l’azienda russa che acquisì Yukos in una causa intentata dagli azionisti fedeli a Khodorkovsky negli Usa. La situazione non era molto migliore sulle sponde del Tamigi. Un imprenditore russo dice all’autrice che “a Londra, i soldi parlano. Tutto e tutti possono essere comprati”, di norma con lucrosi posti nei consigli di amministrazione di aziende di stato russe. È infatti molto più facile quotare una azienda nella Borsa di Londra piuttosto che in quella di New York. La deregulation inglese ha aperto le porte a ogni tipo di business senza fare troppe domande.
Un capitolo affascinante del volume esplora la sostituzione dell’ideologia di stato comunista con il cristianesimo ultra-conservatore della Chiesa Ortodossa e con visioni messianiche della Terza Roma, alimentate da aristocratici russi cresciuti in esilio tra Parigi e Ginevra. L’oligarca oggi prediletto da Putin, Konstantin Malofeyev, guida la Fondazione devota a San Vasilio il Grande dedita a promuovere queste idee, ma si diletta anche di geopolitica: una azienda controllata da Malofeyev e da un suo dipendente avrebbe dovuto essere l’intermediaria per l’operazione discussa da Savoini all’hotel Metropol e mai andata in porto, come ha raccontato “l’Espresso”.
Putin’s People è destinato a far discutere. Belton è al suo meglio quando mostra come interessi strategici e interessi personali si mescolano e si confondono. La generale opacità dei meccanismi decisionali rende difficile capire dove finisce il sistema delle tangenti e dove inizia quello dei ‘segreti disegni del potere’ già descritto da Tacito (gli arcana impèrii). Eppure vi sono aspetti del libro che convincono meno di altri. Paradossalmente l’uomo Putin è troppo poco e troppo centrale. Da una parte è molto difficile credere alla tesi che vi fosse sin dall’inizio un piano del Kgb per “riprendersi” la Russia attraverso Putin, come recita il sottotitolo del libro (e vedi anche p.113). Per riprendersi una cosa bisogna prima averla posseduta. L’Unione Sovietica non era di proprietà dei servizi segreti, i quali erano fermamente sotto il controllo politico del partito dalla morte di Stalin in avanti. Dall’altra, la tesi di Belton paradossalmente fa torto alle qualità personali di Putin. Fu merito suo se riuscì a navigare le turbolenti acque del Cremlino nel periodo 1996-1998 e diventare il successore designato. Alcune delle interviste concesse all’autrice ci ricordano che la storia è un processo aperto. Vi erano altri nomi sui possibili successori a Yeltsin che circolavano con insistenza fino all’ultimo momento. Bastava ben poco perché il futuro della Russia post-sovietica fosse molto diverso. Poi non stupisce che Putin all’inizio della sua ascesa si affidasse a persone che facevano parte della sua cerchia di colleghi fidati, molte dei quali avevano un passato nei servizi. Ad un certo punto, i suoi collaboratori più stretti erano i membri di una piccola cooperativa di amici che, nei primi anni Novanta, comprò delle dacie che si affacciavano su un lago nei pressi di San Pietroburgo. La fiducia personale piuttosto che l’appartenenza ai servizi spiega come sono emersi ‘gli uomini di Putin’.
Non si deve poi esagerare la capacità di Putin di controllare tutto ciò che avviene in Russia oggi (Belton sostiene che ogni investimento di una certa consistenza deve essere approvato dal presidente). La Russia continua a essere un regime con più centri di potere, ben oltre i “ministeri della forza”. Il ministero degli Esteri ha ruolo importante nel sistema attuale e gli stessi servizi – che includono anche il Gru –sono frammentati, senza un leader che possa dettare l’agenda al presidente. In diverse faide di potere, gli alleati di Putin con un passato nel Kgb non hanno avuto la meglio. Lo stile di governo del presidente consiste nel non prendere una posizione netta su molte questioni e lasciare che i sottoposti se la vedano tra di loro, rendendoli responsabili di decisioni difficili. Solo di rado Putin si interessa direttamente a un dossier. Studi recenti hanno mostrato che Putin non ha abolito l’elezione diretta di alcuni governatori proprio perché questi erano troppo potenti e ben radicati nelle regioni, costringendo il Cremlino a scendere a patti.
Una volta eletto, Putin colse tutti di sorpresa e mostrò di avere un progetto politico: riaffermare il potere dello stato a scapito dei potentati economici che si erano formati nel periodo 1993-1999. I cosiddetti oligarchi cercavano di imporre a Putin la propria agenda economica e geopolitica, dopo aver acquisito i loro beni attraverso aste truccate.
I primi anni della sua presidenza furono caratterizzati da una lotta senza quartiere contro gli oligarchi. Alcuni si sottomisero, altri scapparono in occidente, dove furono accolti come rifugiati politici. Negli anni successivi molte persone vicine al presidente si sono arricchite, sostituendo una classe di oligarchi con un’altra. Ma sarebbe riduttivo descrivere il regime come una cleptocrazia. Molte decisioni di politica estera, come l’intervento in Siria, l’appoggio ai ribelli del Donbass e l’annessione della Crimea, non sono motivate da interessi finanziari occulti. Senza dubbio il regime è cambiato, ma l’involuzione non può essere spiegata attraverso le lenti di un astuto piano del Kgb cucinato nel 1990. Piuttosto, sono gli avvenimenti esterni che hanno portato a una mutazione, non scontata, del regime. Oggi Putin sembra affidarsi sempre meno ai canali ufficiali dello stato russo e ricorrere sempre più a inviati speciali che godono della sua fiducia, come l’imprenditore che ha fatto da trait-d’union con i ribelli del Donbass. La riduzione della libertà di stampa ha avuto un effetto deleterio anche sulla capacità di analizzare la realtà da parte del presidente e dei suoi collaboratori. Putin, al pari dei suoi concittadini, non può contare su analisi autorevoli del mondo e così si è ritrovato a non capire (e non essere in grado di anticipare) gli eventi in Ucraina.
Anche chi scrive sulla Russia contemporanea fatica a trovare fonti attendibili. Quelle di Belton sono in gran parte anonime, oppure sono ex collaboratori di Putin caduti in disgrazia, come Sergei Pugachev. Per molti versi è inevitabile ricorrere a tali mezzi per raccontare una storia in parte segreta di un paese non liberale. Vi sono però diversi dati pubblici credibili che potrebbero essere usati per rafforzare o smentire le tesi del libro. Bisogna anche fare attenzione a non cadere nella fallacia del secundum quid: una regola generale non si applica a tutti i casi (a dicto simpliciter ad dictum secundum quid). Ad esempio, la morte del miliardario Boris Berezovsky in una villa nella campagna inglese nel 2013 potrebbe essere stato effettivamente un suicidio, come sostiene la polizia inglese (ho avuto modo di seguire questa vicenda da vicino e mi pare una ipotesi plausibile). In ogni caso, il libro di Catherine Belton rimane una lettura istruttiva.
Non è facile prevedere come e quando finirà l’era di Putin. Senza dubbio, vi sono elementi di fragilità nel sistema e nell’anima del suo presidente. Con il prezzo del petrolio ai minimi storici e gli investimenti stranieri drasticamente diminuiti, le casse dello stato sono quasi vuote e i soldi per i vassalli diminuiscono. Gli effetti della covid19 saranno deleteri per la classe media, che teme per il proprio futuro. Ed è cruciale chiedersi come questo gioco possa finire per Putin stesso. Al pari di Yeltsin e della sua famiglia nel 1999, è plausibile che anche Putin sia alla ricerca di un successore che gli assicuri una pensione serena e dorata, ma non l’abbia ancora trovato.
Abbiamo imparato in questi anni che le stelle del firmamento politico ed economico russo possono ascendere in maniera vertiginosa e cadere con la stessa rapidità.