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Napoli, prima e dopo le elezioni

Credit Valeria Scrilatti/contrasto
15 Ottobre 2021
Gianluca D’Errico

La campagna elettorale per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale di Napoli ha visto contrapporsi quattro ex (un ex magistrato, un ex rettore e ex ministro, un ex presidente di regione e prima ancora ex sindaco, una ex assessora). Il magistrato, Catello Maresca, appoggiato da tutto il centro destra, compresa la Lega Nord (anche se la lista della Lega, “Prima Napoli”, è stata esclusa dalla competizione elettorale per irregolarità formali); Gaetano Manfredi, già rettore dell’Università Federico II di Napoli e ministro dell’Università nel secondo Governo presieduto da Giuseppe Conte, appoggiato da tutto il centro sinistra con l’aggiunta del Movimento 5 stelle (ma anche da una lista nata su impulso dell’ex coordinatore cittadino di Forza Italia, una lista che peraltro ha ottenuto un risultato elettorale, quasi 18mila voti, tutt’altro che trascurabile); Antonio Bassolino, sindaco di Napoli dal 1993 al 2000 e successivamente presidente di Regione per due mandati consecutivi, dal 2000 al 2010; Alessandra Clemente, ex assessora nelle giunte De Magistris, appoggiata appunto dall’ex sindaco e da Potere al popolo.

Gaetano Manfredi è stato eletto sindaco con il 62,88% dei voti espressi, Catello Maresca ha ottenuto il 21,88%, Antonio Bassolino l’8,2% e Alessandra Clemente il 5,58%.

Dopo i dieci anni di amministrazione De Magistris, periodo in cui il primo cittadino stesso amava definirla “città ribelle”, Napoli è ridiventata (lo è mai stata?) “responsabile e moderata”?

Per commentare le elezioni comunali di Napoli di questo ottobre bisogna fare un salto indietro di dieci anni, al momento in cui venne eletto, per la prima volta, Luigi De Magistris e confrontare lo “stato d’animo” che la città aveva allora con quello che ha oggi.

Le città hanno uno stato d’animo, sì, e su di esso amministratori e politici costruiscono la propria azione: molto spesso, quasi sempre, si limitano a usarlo per affermare se stessi e le proprie fazioni. Raramente ne fanno un propellente per trasformare in meglio le cose e i luoghi. Nel 2011 Napoli era una città che aveva raggiunto il colmo dell’umiliazione: il livello di tolleranza all’insufficienza delle strutture pubbliche, che da queste parti è un dato strutturale, era stato abbondantemente superato. La città tentò un colpo di reni; la risposta al se ci riuscì o meno dovrebbe essere il punto di partenza di un’onesta riflessione sulle ultime elezioni. Invece, di quello che è successo nei dieci anni di amministrazione De Magistris non si è mai veramente discusso. La campagna elettorale è stata la più brutta e triste da che si elegge direttamente il sindaco anche perché è mancata una valutazione approfondita del passato prossimo. Anche da parte di chi appoggiò quell’esperienza. Resta poco: la retorica della monnezza che aveva raggiunto, nel 2011, i primi piani dei palazzi e che solo la nuova amministrazione seppe rimuovere ci ha inseguito fino ad oggi. Resta la prassi (minima, debole, frammentaria e quindi oggi in pericolo) dei beni comuni: esperienze di mutualismo e autoorganizzazione sociale sorte in spazi pubblici della città, il più delle volte abbandonati, che la Giunta ha riconosciuto appunto come beni comuni.

Oggi Napoli è, mi pare, una città impaurita e preoccupata. La pandemia l’ha messa, crudelmente, dinnanzi ad uno specchio e, semmai ce ne fosse ancora bisogno, le ha svelato mancanze, difficoltà, il suo stato di abbandono.

Resta una “erede” di De Magistris, Alessandra Clemente, che, data in pasto ad una città insoddisfatta (soprattutto dal secondo mandato di De Magistris, quello che doveva essere, a detta dello stesso primo cittadino, il mandato “delle periferie” e non lo è stato), raccatta meno di 20mila voti, arrivando ad un risicato 5,58%. Alessandra Clemente ottiene meno voti di Antonio Bassolino, il candidato che viene dal passato. Questo resta di quel colpo di reni (presunto). E soprattutto la confusione su ciò che debba essere un’amministrazione comunale: persa appresso a un’idea “straordinaria” di metropoli (capitale del mediterraneo, argine ai vari razzismi nordici, elargitrice di cittadinanze onorarie…), la giunta De Magistris ha perso di vista l’ordinario, il giornopergiorno, la “manutenzione” della città: argomento più banale, più “triste”, più grigio, ma drammaticamente più importante. Tutti sanno che sul funzionamento ordinario della città (strade, mobilità, raccolta rifiuti, politiche sociali, edifici scolastici…) pesa un macigno impressionante: il comune ha più di tre miliardi di euro di debito; Napoli è una città in dissesto finanziario permanente, tutto ciò che accade (o meglio non accade) sul piano urbano è la conseguenza di questo nodo irrisolto. La posizione del nuovo sindaco, Gaetano Manfredi, è cristallina: serve un intervento da Roma di alcuni miliardi. L’ennesimo commissario? O “semplicemente” un fiume di soldi per tappare la voragine?

Oggi Napoli è, mi pare, una città impaurita e preoccupata. La pandemia l’ha messa, crudelmente, dinnanzi ad uno specchio e, semmai ce ne fosse ancora bisogno, le ha svelato mancanze, difficoltà, il suo stato di abbandono. Se il Covid ha certificato quanto fossero fragili i sistemi di protezione sociale nel nostro Paese (sanità e scuola in testa), in terra napoletana questa fragilità confina con l’inconsistenza. La scuola ad esempio: a valle delle lunghissime chiusure decise in sede nazionale, ma soprattutto dal governo regionale, molte scuole non hanno riaperto o hanno riaperto a singhiozzo (doppi turni, rotazioni, spostamenti in altre sedi…) perché in molti casi le strutture, Covid o no, versano in uno stato tale da non riuscire a garantire l’ordinario, figurarsi i nuovi protocolli dettati per la pandemia.

La mobilità locale anche peggio: in città il trasporto pubblico più che assente è aleatorio. E ogni vero pendolare sa bene che, rispetto all’autobus che lo dovrà portare a lavoro, un “no” chiaro è molto meglio di un “forse sì”. La discussione nazionale sul potenziamento del trasporto pubblico per assicurare il distanziamento a Napoli ha assunto i toni della farsa.
Il popolo napoletano, soprattutto nella sua componente proletaria e sottoproletaria, a dispetto di quanto starnazzato dai media, ha interpretato in maniera assai rigorosa i lockdown del periodo pandemico. Questo non per spirito di “responsabilità nazionale”, ma per lucido e tragico realismo: l’ultimo argine al “pericolo”, all’attacco al corpo, è l’autodifesa individuale, di famiglia, di clan. Banalmente: i napoletani sanno bene che “tutela sociale” non c’è e quindi bisogna vedersela da soli; prendere il Covid a Napoli è molto diverso dal prenderlo in città dove l’ordinaria assistenza sanitaria si assesta su ben altri standard.

In questo hanno agito, come è stato lucidamente osservato, una memoria e una “sapienza” antiche, legate ad altre epidemie. Il colera ad esempio.
Questo “sentimento” ha, a mio avviso, condizionato, almeno in parte, le elezioni in città. Quando è oramai chiaro che si è rotta ogni connessione tra le proprie condizioni reali di vita e il governo del territorio, le elezioni diventano un fatto tendenzialmente marginale, trascurabile. Il dato sull’affluenza racconta questo: Napoli segue certamente il trend nazionale (e internazionale), ma ci aggiunge un dato che non è solo simbolico. Se vota il 47% circa della popolazione, è anche formalmente corretto dire che il sindaco della città è scelto dalla minoranza degli aventi diritto al voto: è come se si fosse superato un confine dal quale molto difficilmente si tornerà indietro. Era già avvenuto per le ultime elezioni regionali in cui aveva votato poco più del 46% degli aventi diritto.

Quest’anno su 776mila aventi diritto hanno votato in 366mila. 218 mila hanno eletto Manfredi.

Hanno pesato anche altri aspetti: la mancanza di una proposta forte a sinistra, ad esempio. Il mondo di comitati e le realtà di base che in qualche maniera si era coagulato intorno all’esperienza politica di De Magistris, solo in minima parte ha appoggiato la Clemente.

Un mondo che ha toccato con mano, sempre durante la pandemia, quanto sia indifesa questa città, soprattutto nella sua componente popolare. Le reti di solidarietà (totalmente auto-organizzate e scarsamente supportate dalle strutture pubbliche) che si sono attivate già nella fase iniziale della pandemia hanno raggiunto e aiutato, soprattutto in termini di sostegno alimentare, un numero impressionante di famiglie. Nella capitale del lavoro nero lo stop a tutte le attività ha avuto un impatto devastante. Una situazione che letta in controluce è la prova tangibile di quanto sia stato fallimentare il processo di turistificazione che la città ha sperimentato negli ultimi dieci anni e sul quale tutti hanno puntato e puntano. Ne abbiamo parlato su questa rivista (rimando a “La monocultura del turismo a Napoli” di Marcello Anselmo sul numero di luglio di quest’anno, una lucidissima analisi): l’enorme flusso di ricchezza che il turismo porta in città non si traduce in maggiori diritti e maggiore protezione soprattutto per i lavoratori e le lavoratrici di quel settore che oramai è enorme. Quello che qui interessa sottolineare è che se nel “conflitto” tra city users e cittadini è ai primi che si dà centralità e rilievo nello sviluppo delle città (e la “cittadinanza” è degradata a scenografia antropologica dello spettacolo da offrire ai turisti), non ci si può stupire se uno degli effetti collaterali di questa “guerra” sia proprio il crollo della partecipazione civica.
Una città impaurita e preoccupata dicevamo. Cosa si costruisce a partire dalla paura e dalla preoccupazione?

L’area politica che vince a Napoli è il blocco che si afferma sempre quando prevalgono questi due sentimenti. Intorno a Manfredi si è coagulato quello che nella Prima repubblica chiamavamo il centro, a dispetto di quanto il Pd si ostini a dire di sé stesso e di alcune (piccole) formazioni che, altrettanto ostinatamente, continuano a stare in quell’area. E l’indicazione che ne viene per il Paese (e in questo Napoli è avanguardia) è chiarissima. L’operazione di “sterilizzazione” e addomesticamento definitivi del Movimento 5 stelle è portata a compimento nella “città ribelle”. E la sopravvivenza del Movimento che fu di Grillo è assicurata solo dall’agganciarsi al carro tecnocratico di questa “nuova” area centrista. Anche il risultato elettorale dà ragione a chi ha favorito la normalizzazione del Movimento. Il M5s a Napoli raccoglie più di 30mila voti, un risultato più che dignitoso se paragonato a quello di altre città in cui è politicamente marginale ed elettoralmente ai limiti dell’estinzione. All’interno della coalizione che vince non c’è un padrone assoluto: il Pd, il M5s e la lista “personale” di Manfredi superano le 30mila preferenze, ma poi ci sono almeno sette liste che ottengono più di 10mila voti. Anche da questo punto di vista la somiglianza con situazioni analoghe della prima repubblica è forte.

Manfredi diventa sindaco anche perché, in una logica di subalternità politica e culturale, in tempo di crisi e di conseguente stanziamento di risorse (grosse risorse) è sempre meglio eleggere un “amico del re”, e la nuova amministrazione, nella connessione tra governo locale e governo nazionale, passando per quello regionale, avrà solo amici. La dichiarazione più “pesante”, all’indomani del voto, è di Vincenzo De Luca che parla, cito a memoria, della fine di dieci anni di “nullità amministrativa”.

Una affermazione strumentale espressa da chi è considerato il più autoritario dei presidenti di Regione, ma che evidenzia quanto Regione e Comune da oggi cammineranno a braccetto.

La vera domanda è cosa verrà a partire da oggi: quale città produrrà la più “draghiana” delle amministrazioni locali elette a ottobre? Le premesse preoccupano.

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