In Nagorno-Karabakh: un vecchio conflitto e nuove dinamiche
Il 2020 rischia di essere un anno drammaticamente cruciale per il Nagorno-Karabakh, il territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian dal 1988, quando la regione (Oblast) autonoma del Nagorno-Karabakh ha chiesto al Soviet supremo di Mosca il trasferimento dall’allora Repubblica sovietica azera a quella armena. Gli scontri a fuoco iniziati il 27 settembre 2020, ancora in corso nel momento in cui scriviamo, sono i più gravi dal cessate il fuoco del 1994, quando un accordo precario tra Baku (Azerbaigian) e Yerevan (Armenia) ha congelato la situazione dal punto di vista diplomatico, senza scongiurare sporadici scontri a fuoco, come quelli del luglio 2016 e 2020, e il rischio di una guerra regionale.
Una prospettiva oggi più allarmante che mai, alla luce del rinnovato protagonismo militare della Turchia, che sostiene l’Azerbaigian e considera l’Armenia “la più grande minaccia per la pace nella regione” (così il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan), e del ruolo equivoco giocato dalla Russia di Vladimir Putin, al tempo stesso parte attiva del conflitto e mediatore, preoccupata finora di espandere la propria influenza nel Caucaso meridionale più che di trovare soluzioni consensuali come Paese co-responsabile, insieme a Francia e Stati Uniti, del Gruppo di Minsk, l’organismo dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa istituito nel 1994 con il mandato di favorire il negoziato.
L’eventuale confronto tra Turchia e Russia, l’uso da parte degli eserciti armeno e azero dell’artiglieria pesante, dei tank, di missili a media gittata e dei droni, i bombardamenti anche sulle città e sulle aree abitate da civili: tutto ciò fa pensare che sia definitivamente saltato quello status quo che per anni è andato bene a tutti, tranne che a Baku. Grazie alla distrazione diplomatica e al disimpegno statunitensi e alla maggiore assertività regionale turca, l’Azerbaigian sta cercando di scongelare la situazione di stallo, che ha finito per istituzionalizzare un equilibrio lesivo dei suoi interessi. Vista da Baku, questa nuova fase del conflitto è l’occasione per riconquistare i territori che le sono stati sottratti e che le appartengono. Vista da Yerevan, va da sé, la storia è un’altra. Proviamo a ripercorrerla brevemente.
La posta in gioco
In un’ottica bilaterale, nel Nagorno-Karabakh si combatte per il controllo di un territorio circoscritto, non particolarmente ricco ma collocato in un’area strategica, incastonato tra le montagne del Caucaso meridionale, in una regione sempre più centrale nel connettere l’Europa all’Asia e nelle rotte della distribuzione energetica (non lontano passano sia il cosiddetto “Corridoio meridionale del gas”, sia l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan). Il conflitto tra la maggioranza armena e la minoranza azera che abitano nell’ex Regione autonoma del Nagorno-Karabakh ha radici antiche, ma è l’implosione dell’Unione sovietica, con la nascita nel 1991 delle Repubbliche indipendenti dell’Armenia e dell’Azerbaigian, ad alimentare nuovamente lo scontro, già esplosivo da quando, nel 1988, i cittadini armeni del Nagorno-Karabakh – preoccupati anche per la politica di “azerizzazione” forzata dell’allora presidente del Soviet centrale dell’Azerbaigian, Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente – hanno avallato con un referendum boicottato dai residenti azeri la decisione del parlamento di entrare nell’orbita armena. La guerra combattuta tra il 1991 e il 1994 ha causato circa 30mila vittime, mentre più di 700mila azeri e 400mila armeni hanno dovuto abbandonare le proprie case. La situazione è in stallo dal 16 maggio 1994, quando con la mediazione di Mosca è stato raggiunto un cessate il fuoco, che non ha però impedito la ripresa delle ostilità militari negli anni successivi e che non soddisfa del tutto né Yerevan né, tanto meno, Baku.
Alla base del conflitto c’è infatti la contraddizione tra due principi chiave del diritto internazionale: da una parte l’integrità territoriale, rivendicata dall’Azerbaigian che chiede la restituzione del territorio sottrattogli militarmente dall’Armenia per difendere i separatisti del Nagorno-Karabakh e che invoca la condanna dell’Armenia per aver non solo occupato, ma “annesso” i territori azeri; dall’altra il diritto all’autodeterminazione, invocato dalla popolazione che vive nell’enclave e che ha espresso la volontà unilaterale di unirsi all’Armenia, che da parte sua difende gli interessi dei separatisti, armeni, pur non riconoscendo ufficialmente la Repubblica dell’Artsakh, come gli armeni chiamano il Nagorno-Karabakh. È intorno a questi due principi che si articola il più lungo conflitto nei territori dell’ex Unione sovietica.
Conflitti post-sovietici
Per comprendere meglio il conflitto per il Nagorno-Karabakh, occorre collocarlo dentro un contesto più ampio: i conflitti nei territori contesi dell’ex Unione sovietica. Oltre al Nagorno-Karabakh c’è la Transnistria, l’autoproclamata repubblica moldova che rivendica l’indipendenza da Chisinau e che ambisce all’annessione nella Federazione russa, pur mantenendo significativi legami economici con l’Unione europea, mentre Mosca preferisce mantenere lo status quo per non rinunciare alla possibilità di influenzare la Moldova, ancora incerta se guardare all’Europa o alla Russia. C’è poi il conflitto per l’Abkhazia, la regione georgiana sul Mar Nero che nel 1992 si è rivoltata militarmente contro Tbilisi per ottenere l’indipendenza dalla Georgia, contro cui ha combattuto fino al cessate il fuoco del maggio 1994, dichiarando l’indipendenza nel 1999, pagata con un embargo internazionale. In questo caso Mosca sostiene la rivendicazione di indipendenza, ma sconta la diffidenza di buona parte della leadership politica locale, che guarda con sospetto alle mire russe e che ambisce a un’indipendenza che la comunità internazionale non intende concedere. Infine l’Ossezia del Sud, la regione del Caucaso georgiano che si dichiara repubblica autonoma dai primi anni Novanta, e che nel 2008 ha ottenuto il sostegno russo nella guerra contro Tbilisi che ha coinvolto anche l’Abkhazia, oltre che nella richiesta di indipendenza. L’Ossezia del sud auspica la piena integrazione nella Federazione russa, ma anche in questo caso Mosca non intende cedere, per mantenere leve di condizionamento sulla Georgia, che dopo l’annessione russa di parte dell’Ucraina spinge per una maggiore integrazione euroatlantica.
Ogni territorio ha una storia a sé. Ma i casi di Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh possono essere letti insieme, come esempi della politica perseguita da Mosca nei primi anni Novanta e con più mezzi e convinzione dagli anni Duemila: affermare la propria area di influenza in Eurasia sfruttando conflitti etnici e politici di matrice sovietica. Un gioco rischioso, una politica di instabilità controllata (radicalizzata nel caso della Crimea e della guerra nel Donbas, dove Mosca ha alimentato in modo diretto il conflitto secessionista), con cui contenere i rischi dell’allargamento dei conflitti locali e assicurarsi il quasi-monopolio degli accordi sul cessate il fuoco, come garante. Al fondo, un preciso obiettivo strategico, definito in reazione al progressivo espansionismo della Nato, degli Usa e dell’Unione europea nella cintura ex sovietica (per Mosca un vero e proprio assedio): assicurarsi che lo spazio post-sovietico sia la propria sfera di influenza euroasiatica.
L’ultima escalation del conflitto per il Nagorno-Karabakh rischia di porre Mosca di fronte alle contraddizioni di questa consolidata strategia. Fino a quando il confronto bellico tra Armenia e Azerbaigian resterà circoscritto al territorio del Nagorno e ai suoi dintorni, è difficile pensare che Mosca – che vende armi a entrambi i Paesi e che oggi invoca un cessate il fuoco – entri direttamente nel conflitto. Ma se il conflitto dovesse prolungarsi nel tempo ed espandersi geograficamente Mosca potrebbe intervenire per difendere la propria cintura di sicurezza. E si troverebbe nei guai: da una parte Putin dovrebbe soddisfare le richieste dell’Armenia, un Paese membro della Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare che raggruppa nazioni ex sovietiche rimaste nell’orbita russa; dall’altra dovrebbe alzare lo scontro con la Turchia di Erdoğan, subito dopo che con il presidente turco era riuscito a trovare un compromesso – per quanto instabile – sui fronti libico e siriano.