Territorio e società nel voto Usa

L’interpretazione del voto americano ha assunto una gravità (in parte) imprevista. Ogni volta che gli Usa votano la stampa internazionale è inondata di dati che vogliono prendere le misure delle determinanti socio-territoriali del voto. Gli Usa si prestano in modo eccellente all’esercizio: la capacità di raccogliere e analizzare dati è straordinaria – per rendersene conto basta guardare al livello delle elaborazioni fatte da giornali e riviste, paragonabile a quella di molti dipartimenti universitari – e la semplicità delle rappresentazioni dei gruppi socio-demografici e tipi territoriali impiegate per sostanziare quei fattori rende il loro racconto molto persuasivo.
Questo non significa che l’America sia un posto semplice, tutt’altro. Significa che la imponente e insuperata modernizzazione della tecnica della politica in quel paese ha implicato una sua “semplificazione”, in parte facilitata dalla maggiore leggibilità del territorio (meno stratificato per la minore profondità storica e per altre ragioni che non abbiamo il tempo di discutere qui). Quindi non sono moltissimi gli elementi in gioco, quantomeno nelle analisi di più larga circolazione.
Dal punto di vista sociale vediamo circolare dati sui gruppi di reddito, livello di scolarizzazione, il genere, occupazione per settore e quelli che riguardano quelle che negli Usa è invalso definire “razze”. Dal punto di vista territoriale, invece, abbiamo sempre a che fare con la triade città, suburbio, area rurale e le grandi partizioni della geografia storica del paese: le due coste (che ora costituiscono una sorta di unità culturale, di per sé oggetto di discorsi politici), la Sun belt, la Rustbelt, i Great Plains (il cuore della cosiddetta Fly Over Country, ovvero quei territori a bassa densità e a forte vocazione agricola e mineraria che la gran parte degli americani vede solo dal finestrino di un volo fra le due coste).
Questi discorsi si rivelano strumenti potenti, non solo per rappresentare il come vanno le cose ma anche per trasformarle, considerato che gli strateghi elettorali cercano ad ogni elezione di conquistare il voto delle donne suburbane o dei maschi working class della rust-belt e così via. L’industria della politica rappresenta il paese come un paese mosaico, ma anche un paese meccano nel quale singoli segmenti possono essere disassemblati e ricombinati in sempre nuove coalizioni elettorali sperabilmente maggioritarie attraverso la costruzione di discorsi che possano parlare a ciascun segmento, tenendoli allo stesso tempo assieme.
Una geografia istituzionale sempre più lontana da quella antropica
Il farsi e disfarsi delle coalizioni e il formarsi delle maggioranze dipende però prima ancora da fattori istituzionali. Nel tempo, le istituzioni degli Usa si sono progressivamente allontanate dai reali processi sociali e territoriali, disegnando in gran parte una geografia della rappresentanza sostanzialmente parallela a quella reale. Da un certo punto di vista, è come se le istituzioni americane (complice ovviamente l’ordinamento federale) rappresentassero più la geografia fisica che quella antropica del paese.
L’urbanizzazione è cresciuta – la quota di popolazione delle aree “rurali” era al 19% quattro anni fa, poco più della metà del 1950 – come è cresciuto il peso di alcuni stati rispetto ad altri (ovvero quelli che contengono le aree metropolitane più dinamiche), ma le regole che presiedono la produzione delle maggioranze in gran parte non riconoscono questi cambiamenti. È evidente nella formazione del collegio elettorale presidenziale, come è ancora più evidente nell’elezione del Senato: ovvero le istituzioni che riflettono l’ordinamento federale del paese.
Questa divergenza strutturale e crescente rende possibile la sistematica distorsione della volontà popolare. Fino al 1996 ogni presidente eletto aveva ottenuto più voti dello sconfitto, dal 2000 in avanti due presidenti sono stati eletti – come noto – avendo meno elettori dello sconfitto. Alle recenti elezioni di medio termine del 2018, i candidati democratici nei seggi al Senato in palio hanno ottenuto circa 12 milioni di voti più dei repubblicani ma questo non gli ha comunque permesso di conseguire la maggioranza. E da qui al 2040 si prevede che il paese sarà diviso fra una metà prevalentemente urbana che eleggerà 16 senatori ed un’altra metà prevalentemente rurale che invece ne eleggerà 84.
Ma anche alle Camera dei rappresentanti per i repubblicani è mediamente più facile ottenere eletti rispetto ai democratici, che hanno un voto più concentrato rispetto ai primi. Su questo intervengono poi le politiche di cosiddetto disenfranchisement, ovvero strategie e misure volte a privare determinati gruppi socio-demografici dell’esercitabilità concreta del diritto di voto.
Non è cosa nuova: queste strategie esistono dalla Ricostruzione, dopo la Guerra Civile, e dal 2010 21 stati a guida repubblicana hanno introdotto nuove norme volte a “ripulire” (purging) le liste elettorale sulla base di criteri che colpiscono le minoranze. Le strategie di disinfranchisement possono assumere anche una forma specificatamente spaziale, ovvero il gerrymandering, una pratica volta alla riperimetrazione dei distretti in modo da diluire sempre il voto delle minoranze. La crescente divergenza fra la geografia immaginata del sistema istituzionale e delle concrete pratiche elettorali e quella reale è una grande questione di democrazia, come evidente.
La polarizzazione di luogo e la (assai relativa) depolarizzazione razziale
Come noto, la partecipazione è stata elevatissima con Biden e Trump che hanno ottenuto un numero assoluto di voti da record (certo anche l’elettorato è un po’ cresciuto: diversamente dall’Europa, la popolazione ancora cresce). Vediamo alcune tendenze socio-territoriali.
La prima: i democratici sono riusciti a vincere in gran parte grazie a loro ottimi risultati nei suburbi delle aree metropolitane. Ma che cosa è il suburbio? Il suburbio è un’area abitata ad una densità inferiore a 2000 famiglie per miglio quadrato – e quindi minore di quello che è definito “città” e maggiore di quello che è definito “zona rurale” – e collocata entro un’area metropolitana di almeno un milione di abitanti (questo è il modello, ovviamente discutibile, proposto dall’economista Jed Kolko). In alcuni stati, è stato il voto di queste contee a determinare sia il ribaltamento di sconfitte impreviste nel 2016 (è il caso del Wisconsin) sia delle svolte storiche (è il caso della Georgia). I suburbi metropolitani non sono più quelli di Long Island in cui vive famiglia di Revolutionary Road oppure la famiglia di Don Draper di Mad Man: si sono largamente urbanizzati dal punto di vista degli stili di vita, hanno attività economiche diversificate e una popolazione con elevati livelli di scolarizzazione, e sono caratterizzati da una forte partecipazione delle donne al mercato del lavoro e una crescente eterogeneità etnica.
Per riconquistare questo voto Trump aveva giocato una carta classica dei repubblicani post-Nixon, ovvero quella della paura contro la minaccia del crimine e del disordine sociale (una tarda iniziativa contro le norme federali a sostegno della realizzazione di case a basso prezzo è da segnalare, da questo punto di vista). Ed è di grande significato politico e culturale che questa sua scommessa si sia rivelata anacronistica e non abbia funzionato, perfino in una fase di eccezionali turbolenze sociali quali quelle rappresentate dal movimento di Black Lives Matter. Una parte crescente dell’elettorato bianco non considera più quel discorso pertinente e tutto sembra suggerire che Biden abbia guadagnato voti proprio fra loro, nell’elettorato bianco suburbano.
Seconda tendenza, questa più sorprendente: la variabile razziale è diventata un po’ meno determinante, pur restando – su questo bisogna esser chiari – molto determinante. Lo è, come noto, a favore dei democratici sia per gli ispanici sia, in misura ancora maggiore, per gli afro-americani. Tuttavia, al di là del caso molto discusso del voto dei cubani in Florida (che ha chiarito definitivamente quanto parlare di Latinos come gruppo generico sia ormai sostanzialmente fare dell’orientalismo), un’analisi del New York Times dimostra che nelle aree urbane e suburbane dove è maggiore la presenza di ispanici e asiatici anche nel quadro schiaccianti affermazioni di Biden il voto per Trump è aumentato in modo significativo.
Per dare concretezza a questo dato, più che rilevare alcuni casi singoli – ad esempio la clamorosa affermazione di Trump nella Rio Grande Valley, in Texas, a grande maggioranza messicana – si deve segnalare la crescita di Trump nel Bronx o nel Queens a New York oppure nella città di Philadelphia. Qui le maggioranze per Biden superano l’80%, ma con Clinton superavano il 90% (qui invece conta di più un aumento del voto afro-americano per Trump, che è rimasto tuttavia ultra-marginale). È significativo? Da un punto di vista qualitativo sì, perché questo fenomeno mette in discussione l’idea secondo la quale i democratici godrebbero di un vantaggio strutturale dovuto alla transizione demografica verso una società più eterogenea: non solo perché i fattori istituzionali ed elettorali descritti sopra temperano di molto questo vantaggio, ma anche perché a quanto pare la nuova polarizzazione del paese attraversa in modo nuovo anche i tradizionali gruppi socio-demografici del meccano elettorale.
Terza tendenza, forse la più interessante: la citata polarizzazione territoriale che, in media, si è accentuata (con delle eccezioni, vedere seconda tendenza). La distanza fra il comportamento elettorale fra aree urbane e aree rurali, già elevatissima, si è ulteriormente accresciuta: secondo l’Economist nel 20% delle contee a più elevata densità il vantaggio democratico si è allargato da 25 a 29 punti percentuali, mentre nelle venti meno urbanizzate quello di Trump è cresciuto da 32 a 35 punti. Anche in stati con orientamenti molto netti, chi vive nelle aree rurali tende a votare in modo sempre più distante da chi vota nelle aree metropolitane dello stesso stato. Il voto democratico rimane quindi straordinariamente concentrato dal punto di vista territoriale, rappresentando più la geografia antropica del paese (alte densità) che quella fisica (basse densità): nel 2011 i distretti del congresso a maggioranza democratica coprivano il 39% della superficie nazionale, nel 2018 questo dato era sceso al 20%.
Il partito dei territori impoveriti e quello dei territori arricchiti
Dietro questa polarizzazione elettorale se ne cela come noto una strutturale, e anch’essa è una grande questione di democrazia: (alcuni) economisti la fanno facile ma il fatto che gli individui “scelgano” di abbandonare certi luoghi e abitarne altri ha degli effetti sistemici che hanno anche dimensioni direttamente politiche. I democratici dominano su una parte sempre minore del territorio, una parte del territorio non solo più abitata ma anche più produttiva. È come se negli ultimi decenni fossero andati coagulandosi dei tipi socio-territoriali opposti lungo una varietà di dimensioni: economiche, culturali, politiche.
Se non è vero che, come detto con la consueta sciatteria dei media italiani, i “poveri votano per Trump” (le rilevazioni per gruppi di redditi mostrano il contrario, ed il voto di latinos e afro-americani – gruppi sociali in gran parte subordinati – è nettamente a favore dei democratici) è però vero che in media gli abitanti delle società locali che si sono nel tempo relativamente impoverite votano per lui, mentre di converso gli abitanti di quelle che si sono relativamente arricchite votano per i democratici. Ovviamente, si può essere anche molto poveri in una città che si arricchisce e allo stesso tempo ci si può sentire molto più poveri di quello che si è come individui se si ha l’impressione che il territorio nel quale si vive si stia impoverendo, specie rispetto ad altri territori. O se si ha l’impressione (o l’evidenza) che i propri figli stiano relativamente peggio della generazione dei genitori oppure che siano “costretti” a emigrare verso le coste e le grandi aree metropolitane.
Nudi dati sul Pil quindi non spiegano tutto: questi processi hanno molto a che fare con percezioni, rappresentazioni e discorsi che possono anche amplificare la o divergere dalla realtà rappresentata dai dati. Dati che tuttavia sono inequivoci. Da un lato, sappiamo che dal 2008 in avanti pochi territori hanno concentrato una quota crescente di crescita: le aree metropolitane oltre il 1 milione di abitanti hanno assorbito il 72 % della crescita dell’occupazione, mentre le aree urbane fra i 50 e i 250.000 abitanti hanno assorbito solo il 6% (quindi al di sotto del loro peso demografico). Dall’altro sappiamo che alle elezioni di novembre la specializzazione dei democratici per i territori economicamente forti è addirittura cresciuta: dieci anni fa i due partiti erano quasi in parità da questo punto di vista: secondo i dati del Brookings Institute, dal 2008 al 2018, i distretti a maggioranza democratica hanno visto il reddito mediano delle famiglie aumentare da 54,000 a 61,000 dollari mentre quelli repubblicani hanno visto una contrazione da 55,000 a 53,000 dollari. Se guardiamo al Pil la divaricazione è ancora più sconcertante, i primi l’hanno visto salire da $35.7 a $48.5 miliardi, i secondi declinare da $33.2 a $32.6 miliardi.
La politica dei milieux e dei cleavage
Stiamo quindi parlando di milieux in gran parte opposti e soprattutto divergenti. Divergenti anche dal punto di vista delle strutture sociali. Quelle egemonizzate dai repubblicani sono società locali caratterizzate mediamente da strutture sociali più egualitarie e tradizionali; viceversa, i democratici prevalgono in società locali più diversificate e con strutture sociali decisamente più stirate.
Il milieu dei democratici pare essere quello descritto dalla sociologa Saskia Sassen ormai vent’anni fa, ovvero quello caratterizzato da un’economia dei servizi con una forte polarizzazione dei redditi e della ricchezza, una classe media che si restringe e una nuova working-class – in parte significativa di origine migratoria – in via d’espansione e impegnata in gran parte nella prestazione di servizi alle classi superiori. I democratici prosperano in quel tipo di società costruendo una coalizione che vive al proprio interno le contraddizioni – e quindi anche il potenziale conflittuale – di quella struttura sociale.
Basti pensare alla nuova sinistra del partito, che è assolutamente urbana, e che in gran parte ha come bersagli attori e interessi legati alle economie capitalistiche metropolitane: i super-rich, le grandi concentrazioni capitalistiche nel digitale (GAFA e dintorni), i processi di finanziarizzazione dell’economia. Una sinistra che convive – con sempre maggiore difficoltà –nel medesimo partito con centristi che invece muovono da una visione non generalmente antagonistica della politica, fondata su idee generali quali il buongoverno, la democrazia, la crescita e le pari opportunità e che largamente si identificano con la cultura e le istituzioni della società neo-liberale.
Viceversa, il cleavage che sembrano agitare i repubblicani – non diversamente dalla nuova destra di altri paesi – è un cleavage prevalentemente territoriale, orientato all’esterno delle società locali: il nemico è retoricamente identificato con le grandi aree metropolitane che crescono, cambiano, si diversificano e producono i discorsi che l’altra parte del paese deve subire. In questa prospettiva anche il rapporto con la dimensione globale è molto importante, ma forse in una direzione diversa da quella diffusamente assunta – quella che vuole i territori della destra esclusi dal capitalismo globale e quelli dei liberali e della sinistra inclusi (e nel caso americano egemoni su quella dimensione). Non si può dire che i territori dalla Fly Over Country siano esclusi dal capitalismo globale in generale, quanto piuttosto da alcuni mercati e catene del valore – quelli più avanzati – mentre sono ben inclusi in quelli che riguardano l’economia delle risorse naturali e l’agricoltura industriale: settori che giova ricordare sono ovviamente target polemico di gruppi sociali a più forte base metropolitana, decisamente più orientati a sostenere politiche per la transizione ecologica. Sono territori con economie diverse, diversamente incluse nell’economia globale, egemonizzati da frazioni diverse del capitale e che occupano una posizione differenziata anche lungo un grande cleavage prossimi venturo, quello ecologico.
Egualmente, una parte del messaggio della sinistra del partito democratico – la critica alla concentrazione della ricchezza, a partire da quella di Big Tech, oppure la critica alla globalizzazione capitalistica e l’obiettivo di rilocalizzare la produzione industriale – su un piano del tutto teorico potrebbe risuonare con la domanda delle società locali oggi egemonizzate dalla destra, la cui narrazione tutta organizzata attorno ai cleavage territoriali e culturali ha fino ad oggi prevalso in modo schiacciante.
Inoltre, il destino delle grandi aree metropolitane nella fase post-pandemica è tutt’altro che necessariamente progressista. Non solo perché per la prima volta in trent’anni l’egemonia delle città potrebbe essere messa in discussione a causa di processi quali la smaterializzazione dei processi produttivi e nuove possibili preferenze sociali per le basse densità, ma anche perché la crisi violenta dell’occupazione nei settori che tradizionalmente impiegano i gruppi sociali subordinati – la ristorazione, il turismo, il commercio – potrebbe mettere in crisi la stabilità sociale delle società metropolitane (e quindi i loro equilibri politici). La storia quindi non è finita, tutt’altro: sta accelerando. Materiali sociali e territoriali nuovi potranno produrre discorsi e attori politici nuovi e ricombinazioni ulteriori del mosaico-meccano americano.
Alessandro Coppola ha curato per le nostre edizioni, insieme a Mattia Diletti, la prima edizione italiana di Radicali, all’azione! di Saul Alinsky.
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