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Morire un poco e altre poesie

Illustrazione di Fabian Negrin
3 Agosto 2021
Romalyn Ante

A cura di Paola Splendore

Romalyn Ante è nata nelle Filippine nel 1989. Vive a Wolverhampton (GB) dove lavora come infermiera e psicoterapeuta. Nel 1917 ha pubblicato la plaquette Rice & Rain, premiata ex-aequo al Manchester Poetry Prize, e nel 2018 la prima raccolta Antiemetic for Homesickness (Chatto & Windus), da cui sono tratte le poesie qui pubblicate, accolta con grande favore dalla critica. Ha inoltre co-fondato la rivista on line Harana Poetry dedicata a poeti che scrivono in lingue diverse dalla lingua madre.

Le sue poesie esplorano in un linguaggio evocativo, ricco di rimandi alla cultura di origine, la condizione dell’esilio vissuta dalle lavoratrici migranti, in particolare le infermiere filippine di cui raccontano le storie personali e il lavoro svolto negli ospedali inglesi, dove costituiscono la presenza più rilevante dopo quella indiana.

Ringraziamo l’autrice e la casa editrice Chatto & Windus per il permesso alla pubblicazione.

Morire un poco

‘Partir es un poco morir, llegar nunca es llegar…’ ­­– Oracion de Migrantes

‘Quando ti ho lasciata, ho dovuto tagliarmi un pezzo di cuore’ – Mama

Eri dall’altro lato della barriera,

il tempo è una coperta lacera avvolta sulle tue spalle.

La membrana del timpano martellava quello che non dicevi,

Ma, wag mo akong iwan. Non lasciarmi, ma.

Il nostro giorno si frantumò con un rombo, un aereo attraversò il cielo

come una lumaca. Presi l’abitudine di tracciare una croce

su ogni giorno del calendario. Dentro e fuori, dentro e fuori

dalla bocca di un dio di cemento con la porta automatica.

Laggiù, in una ferita ignorata del mondo, sei a letto,

la flebo sospesa sulla testa come un giocattolo a batteria sulla culla.

Qui, metto una scodella per il vomito sotto il mento di qualcuno

e lo guardo dormire mentre le pareti sono scosse da un fiato magmatico.

È questa la verità: la membrana del timpano mi rimbomba,

wala kang kwenta, madre inutile.

*

Avevi detto che dovevo andare a dormire e che saresti tornata

prima ancora di accorgermene. Ma mi svegliai e c’era il riso da sciacquare,

le divise scolastiche di fratelli e sorelle da stirare.

Mi svegliai con la solita solfa degli ubriachi in strada.

Un uomo con un cappello da cowboy pizzicava la gitara

e cantava di una donna che preparava la valigia,

Proprio quando avevo più bisogno di te.

Mi svegliai quando la lavatrice era rotta

e dovetti lavare i panni in cortile.

Una faccia impastata di sonno schiumava in una pozzanghera

Proprio quando avevo più bisogno di te.

Alzai la testa dalle spire

di fumo di un wok che bruciava e mi chiesi

se quel vortice di nebbia scura sarebbe arrivato fino a te.

Ci credevo, Mama – che saresti tornata prima ancora di accorgermene.

Quando tirai i capelli a mia sorella dopo una rispostaccia,

mi aggrappavo alle tue parole.

Quando la notte soffocavo nel catarro,

e mi mancava il tocco di zenzero della tua tinola,

mi aggrappavo alle tue parole.

Quando le altre madri salivano sulla pedana

per appuntare le medaglie al petto delle mie compagne di scuola,

mi aggrappavo alle tue parole.

La domenica giocavo a Tumbang preso con gli altri bambini.

Ridevamo perché non eravamo orfani, solo dimenticati.

Un colpo netto – una ciabattina faceva cadere una lattina vuota

e gli anni rotolavano giù per la strada. L’odore della pioggia

sollevava la polvere da terra mentre correvo in cerca di riparo,

proprio quando avevo più bisogno di te.

Tinola: zuppa filippina a base di pollo o pesce e spezie

Tumbang preso: gioco di strada che consiste nel colpire una lattina vuota con una ciabattina di gomma

Mateo

‘Guardate gli uccelli dell’aria: non seminano né mietono né ammassano nei granai.’ Matteo, 6:26

Ma gli uccelli non hanno conti da pagare.

Così lei volò verso un paese dove

i venti erano piume e artigli

che graffiavano l’asfalto gelato,

dove il cielo scuriva a mezzogiorno

e gli infermieri di giorno

diventavano esperti

di feste e passatempi

di notte, dove

la carta del parato si riscaldava come una sacca di sangue

e l’uomo portato dall’ambulanza

prendeva a prestito il nome di suo padre, il cui sibilo

si fermava e

riprendeva con un ricordo

che per un attimo afferrava

poi perdeva. Era stata quella

telefonata: quando suo padre

disse che aveva i soldi. Era il peso

della luce tra le persiane, la sua

guancia a chiazze che faceva eco al ritornello dei

cardellini. Era stato il ricordo – quella mattina

aveva visto suo figlio camminare scalzo, battezzare le caviglie

nel fango – un paio di scarpe in mano, una con la suola

staccata. Era quella vita abbagliante, portarlo a cavalcioni,

i baci dietro l’orecchio.

Donne invisibili

Le vedi dappertutto, queste donne invisibili –

una si destreggia tra il dolore di una corsia e il luccichio di

una scarica di aghi. Un tubo come uno stiletto di acciaio

affonda in bocca come una preghiera forzata.

Al telegiornale, una donna invisibile si è addormentata

al volante ed è stata catapultata nell’alba –

i rottami scintillano sull’autostrada.

Una scheggia penetra più a fondo – lei parla col paziente

delle sue petunie ma non dice della fioritura

di tumori scoperti con l’endoscopia.

Sono dappertutto, alcune più confuse di altre.

Sfoglia i loro passaporti e troverai solo una pagina –

nomi e paesi cancellati dai raggi del sole.

Queste donne invisibili, dee della cura e dell’attenzione,

ma nessuno le sente quando la loro testa pulsa

come una noce di cocco sul punto di scoppiare.

Mia madre va a piedi al lavoro quando il cielo è scuro

e ne esce quando il cielo è scuro,

le sue orme lasciano un sentiero picchiettato di bucaneve.

Si ferma in mezzo a una piazza –

la pioggia le annebbia la vista facendole credere

che la statua lì davanti sia come lei una donna invisibile.

Una volta, mia madre si fece largo tra una confusione di schiene maschili

verso un bambino che ansimava, e gli trovò

in gola un filo d’erba tremolante.

Il respiro si liberò e lei andò via.

Biglietti dentro una Balikbayan box

Caro figlio,

al mio posto, ecco una Balikbayan box.

Ci trovi le scarpe di gomma LeBron James (numero 41)

e le cassette dei video game per supplire a tutti i dolcini di palma

che ti devo per ogni Simbang Gabi e ogni incontro con gli insegnanti

cui non ho potuto partecipare. Prometto che ci sarò per Natale.

Sono dieci anni che lo dico, lo so.

C’è anche la crema E45 per la pelle secca della nonna,

un pacco di pannoloni e tubi di crema barriera.

Detto tra noi: ogni volta che giro su un lato

un anziano per la supposta, sollevandogli le ginocchia

al petto mi domando, Chi lo fa per lei?

Dì a Tita di lasciare il marito. Quel suo primo amore

che la tradisce col mah-jong e il sabong. Dille

di smettere di sopportare la puzza delle sue ascelle. Nella scatola

trovi il profumo Gucci Bloom e creme cicatrizzanti. Dille che

non ho dimenticato le promesse di quando eravamo piccole

e le dita odoravano di caramelle li hing mui.

Il giuramento Walang Iwanan di non lasciarci mai.

Caro figlio,

al mio posto, ecco una Balikbayan Box.

Strappa il nastro di imballaggio – i regali sono tutti per te.

Usa bene le mani fino a toglierlo tutto.

Impara che per sopravvivere dobbiamo avere braccia forti.

Per portare un vassoio di medicine senza farle

cadere, per spingere al Reparto Maternità una donna

in iperventilazione (con rapidità

e attenzione), per tirar su un uomo

pelle e ossa e metterlo a sedere per la chemio,

per valutare il peso di una rosa prima di posarla

su una bara. Porta questa scatola dentro casa –

è l’unica cosa che ti chiedo di portare, per ora, figlio mio.

Balikbayan Box o repatriate box: scatola di regali per i parenti rimasti nelle Filippine

Simbang Gabi messa cattolica della notte di Natale

sabong lotta dei galli

li hing mui caramelle gommose

Scacco matto

Mio padre diceva, Sfrutta

la posizione dei tuoi pezzi.

Pensi che un ragno granchio

si mimetizzi su un petalo

solo per starsene lì?

Scacco matto in quattro mosse.

Supponi che la mia vita nel Regno Unito

non sia capitata per caso, e che Dio

questa volta mi offra un’occasione migliore.

Calmo il pianto di una vecchia donna

per la madre cremata da anni

con del Lorazepam in un cucchiaio di yogurt.

Nessuna mossa è casuale.

Camminiamo insieme, mano nella mano,

lungo il passaggio di Jon Speelman Street.

Ci sediamo su una panchina

un pettirosso di plastica appollaiato

sul segnale di plastica della Fermata.

Lei mi accarezza il viso e dice

che sembro giovane come la regina.

Mio padre diceva, nessuna mossa è casuale.

Qui forse avrò un’occasione migliore.

Non sono una regina, solo un pedone

che avanza in diagonale.

#famiglia

Finora l’avevo letto nel modo sbagliato,

vedendo solo cose fratturate.

In Ortopedia, # equivale a ‘frattura’ –

#NoF è ‘collo fratturato del femore’,

#clavicola è ‘clavicola fratturata’.

Quando ero piccola, mia madre si versava un po’

di olio di dalanghita sulle mani, per dare sollievo

a una fitta nel petto – un dito toccava rapido

il muscolo tra le costole. La finestra

era scossa dagli squarci dei lampi

mentre ombre sfilacciate ingoiavano la stanza.

Mi concentravo sulle sue dita e tutto si placava

nell’agitazione delle foglie.

Ma poi mi svegliai al rumore delle sue valigie

e scoprii che era partita.

Forse il risveglio comincia sempre così.

Ora mi friziono il torace col Vicks, sperando

di calmare la tempesta lì sotto. Cammino in un mondo

dislocato, e a ogni passo la terra si spacca.

Dalanghita: frutto in un albero molto diffuso dalla cui corteccia si ricava un olio ritenuto nella medicina popolare ricco di proprietà antinfiammatorie.

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