Morire sul lavoro nel distretto di Prato

Chi percorreva la pistoiese o la montalese nell’attraversamento di paesi e borghi era accompagnato dal ritmo dei telai. Sembrava ce ne fosse uno in ogni casa nella piana tra Prato e Pistoia in quegli anni ’70 del Novecento che, insieme alla conquista di maggiori diritti dei lavoratori nelle fabbriche, vedevano realizzarsi il sogno di tanti operai del tessile pratese: diventare padroncini. Nel dopoguerra erano venuti dalle campagne del circondario, una massa di lavoratori che dall’agricoltura si riconvertivano all’industria e sputavano sangue confidando in un futuro migliore per se stessi e soprattutto per i figli: la giornata di dodici era normale, il sabato mattina si andava al lavoro e, se premeva la consegna, cioè quasi sempre, pure la domenica. Chi c’era ricorda che ogni tanto al bar arrivava gente a cui mancava qualche dito (l’Italia era un paese con oltre 1.600.000 incidenti sul lavoro/anno, di cui quasi 5.000 mortali, tre ogni due ore lavorate). Così era per chi voleva lavorare e guadagnare. I pratesi lavoravano e guadagnavano e, intanto, negli anni, pratesi erano diventati alcune migliaia di meridionali. Così arrivava al decollo il più importante distretto tessile d’Europa.
I distretti industriali toscani sono nati sotto la guida o almeno con la benedizione delle istituzioni locali, che organizzavano l’esistente e, nei casi più fortunati, ne pianificavano lo sviluppo. La sostanza politica era l’alleanza dei produttori, includendo in questa categoria, oltre a operai e artigiani anche i padroni delle imprese medie e grandi. Alleanza facilitata dal fatto che il distretto è caratterizzato dalla divisione e dalla specializzazione del lavoro tra piccole imprese in cui molto spesso i proprietari continuano a lavorare a fianco dei loro dipendenti non evitando di impegnarsi nelle lavorazioni più difficili o pericolose. Questo aspetto rende quasi inconcepibile una visione conflittuale dei rapporti di lavoro. La principale qualità del distretto è la flessibilità, che facilita l’adattarsi agli improvvisi mutamenti dell’economia globale e ne fa un sistema altamente competitivo. La rete del distretto si fonda sull’integrazione di due tipi di imprese: l’impresa terzista che si occupa essenzialmente della produzione e quella finale che progetta il prodotto, ne organizza la produzione e la commercializzazione. Questa struttura si è dimostrata capace di rinnovarsi per più di mezzo secolo adattandosi al variare delle richieste del mercato internazionale e persino determinandole. Un processo di cambiamento che arriva sino ai nostri giorni e vede ridursi le manifatture tessili e aumentare le confezioni (negli ultimi 10 anni secondo la Camera di commercio le manifatture tessili passano da 2.448 a 1.863 e le confezioni da 4.029 a 4.414 – per l’85% ditte individuali; analogo fenomeno nelle imprese artigiane: tessili da 1.340 a 921, confezioni da 2.485 a 2.895). Se la struttura organizzativa si limitasse alle imprese terziste e finali, il processo produttivo sarebbe più trasparente e controllabile, invece col sistema dei subappalti a imprese di fascia sempre più bassa il lavoro viene frammentato, parcellizzato, con margini di profitto sempre più limitati e tempi di produzione sempre più ristretti che vanno a scaricarsi sui lavoratori meno garantiti, più ricattabili: un sistema che si fonda di fatto sul cottimo non dichiarato.
Il punto di svolta si colloca verso la fine degli anni ’80 quando, durante una delle ricorrenti crisi del tessile nel mercato globale, arrivano i cinesi. Dapprincipio s’inseriscono in imprese esistenti, ma ben presto iniziano a mettersi in proprio (nel 1994 sono già 300 le imprese cinesi registrate alla Camera di commercio, 1.102 nel 1999, 2.013 nel 2004, più del doppio nel 2020), comprando e affittando macchinari e capannoni dismessi dai vecchi proprietari, cui assicurano rendite straordinarie (nel Macrolotto 1 il costo dell’affitto per mq raggiunge i 15 euro, vale a dire il doppio di un appartamento in centro). Subito inseriti nel contesto del distretto, sono loro a dare sviluppo al pronto moda, ampliando di fatto le attività del distretto pratese, che da tessile e laniero si avvia a diventare distretto internazionale della moda, quindi orientato a soddisfare, grazie alle sue strutture flessibili, una domanda frammentata e instabile. Come terziste prima, e poi come finali, le imprese cinesi si impongono con prezzi assolutamente concorrenziali, per la puntualità e rapidità delle consegne, grazie alla flessibilità organizzativa e al basso costo del lavoro.
I cinesi danno nuova vita ai quartieri industriali: come i pratesi degli anni del boom portavano i telai nelle case, i cinesi fanno dei capannoni le loro case sfruttandone tutte le potenzialità (Marco Nicola Di Domenico, Prato Città laboratorio. Una strategia per il MACROLOTTO 0, Firenze 2018). Vicino ai macchinari e davanti ai capannoni si svolge la vita degli operai e delle loro famiglie, che senza sforzo si sono inseriti in un contesto abituato a privilegiare lavoro e produzione, forzando, quando utile al profitto, i limiti della legalità con l’abusivismo e il lavoro nero. Un’inchiesta IRPET del 2014 censiva 4.830 imprese cinesi con 20.000 addetti stimati (di cui solo 11.000 registrati) e un vortice di aziende che nascono e muoiono nel giro di pochi anni: delle 386 imprese nate nel 2001 solo 53 (il 14%) erano ancora attive nel 2012, con gli ammanchi per la fiscalità pubblica che è facile immaginare. Questo è il modello cinese che si rivela vincente. Le inevitabili tensioni tra cinesi e italiani che ne derivano, sia a livello di imprese che nella società in generale, sono addomesticate grazie alle relazioni economiche più o meno strette che agli interessati hanno portato più vantaggi che disagi. Insomma, l’interesse comune è finora prevalso, grazie anche all’attività moderatrice delle istituzioni locali (il Comune di Prato è al primo posto in Italia per presenza di cittadini stranieri: 21,7%). Comprimere verso il basso il mercato del lavoro, alla fine è andato bene a industriali, padroncini e percettori di rendita di ogni nazionalità. Gli ultimi dati di questa primavera confermano che le aziende cinesi hanno dato un contributo decisivo a far navigare il distretto pratese dentro la pandemia evitando il naufragio: continuano a diminuire le aziende tessili (1.842, -3,1% rispetto a marzo 2020), ma crescono confezioni e abbigliamento (4.457, +1,7%: al 90% cinesi), che riescono a mantenere sostanzialmente il numero degli addetti (21.615) mentre nel tessile scendono a 15.104. Tutto ciò nel contesto di un crollo della produzione industriale del 23,5%.
Dunque il sistema tiene. Unioncamere può scrivere: “Il sistema industriale pratese si basa sulla suddivisione della produzione tra numerose piccole e medie imprese tra loro indipendenti, ognuna specializzata in una specifica attività (filatura, orditura, tessitura, tintoria e rifinizione o finissaggio). Le imprese pratesi si occupano della ricerca e della progettazione … un unico grande laboratorio che garantisce standard qualitativi elevati, tempi di consegna veloci e prezzi competitivi”.
A turbare il fruttuoso equilibrio del sistema arriva di tanto in tanto la tragedia. Come il primo dicembre del 2013, l’alba di una domenica, quando un incendio distrusse il capannone di un’azienda cinese provocando la morte di sette lavoratori, 5 uomini e una donna, che là dentro, oltre a lavorare, in loculi delimitati da cartongesso vivevano. Allora, dopo che anche il presidente della regione, Enrico Rossi, si accorse che Prato era la più grande concentrazione di lavoro nero in Italia e che era sotto la soglia dei diritti umani, scattò una raffica di controlli, sulle aziende cinesi naturalmente, che per qualche tempo tentò di stabilire condizioni di legalità. O com’è avvenuto il 3 maggio di quest’anno con l’orribile morte di Luana D’Orazio che ha suscitato un cordoglio nazionale, divenendo una sorta di simbolo delle condizioni in cui lavorano oggi i giovani. Una ragazza dal viso delicato, lavoratrice e madre, in cui si può riconoscere ogni coetanea lavoratrice, in cui ogni genitore può riconoscere la propria figlia, nel sistema dell’informazione dominante diventa per alcuni giorni, come vittima, un personaggio: l’immagine della bella operaia stritolata dall’orditoio appare in tutti i telegiornali e in tutti i talk show. Tanto che la povera madre nella disperazione della perdita è portata a dire: “Luana sarebbe stata contenta di essere famosa, ma non così”. Così va l’informazione. Intanto però per alcuni giorni si è parlato di sicurezza del lavoro e persino di sfruttamento. Nella confusione dei nostri tempi con il termine “sfruttamento” non s’intende l’ordinaria condizione del lavoro salariato che lascia sempre al padrone una quota di plusvalore, ma la condizione estrema di chi sul lavoro perde la vita, di chi è così precario da essere ricattabile, di chi lavora troppo e di chi è pagato troppo poco. Quali sono i limiti del troppo e del poco che bisogna superare per essere definiti “sfruttati”?
Intanto il ministro del lavoro è venuto a esprimere il proprio cordoglio alla famiglia e a comunicare alla pubblica opinione i buoni propositi riguardo alla necessità di coordinare i diversi istituti che si occupano di sicurezza sul lavoro, di curare la formazione dei lavoratori e la prevenzione e di aumentare gli organici degli ispettori.
Intanto, sull’onda dell’emozione suscitata dalla morte di Luana, anch’io sono tornato a Prato, sulla pistoiese, a Oste di Montemurlo. Spinto dalla voglia di capire sono tornato a Prato il giorno della manifestazione dei sindacati contro i morti sul lavoro
Intanto, sull’onda dell’emozione suscitata dalla morte di Luana, anch’io sono tornato a Prato, sulla pistoiese, a Oste di Montemurlo. Spinto dalla voglia di capire sono tornato a Prato il giorno della manifestazione dei sindacati contro i morti sul lavoro, ho sentito la madre di Sabri Jaballah condividere il dolore della madre di Luana e chiedere di non dimenticare suo figlio, 22 anni anche lui, stesso contratto d’apprendista, morto tre mesi prima schiacciato da una macchina apriballe in una fabbrica di filati, pochi chilometri più in là, a Montale. Così va l’informazione. Fino a quando continua questa storia che i nostri figli vanno a lavorare e non tornano più a casa?
Oltre le sue, parole vere tra tante dette da chi su quel palco doveva parlare, mi sono sembrate quelle di una giovane sindacalista: noi sindacalisti dovremmo essere più presenti in fabbrica. Era forse un’autocritica, e non importa se nelle piccole aziende i sindacati quasi mai ci sono perché il lavoratore sindacalizzato non è ben visto e spesso non è tollerato. Un operaio anziano accanto a me commenta: sarebbe bene le facessero prima le manifestazioni per la sicurezza sul lavoro, prima che ci siano i morti; dopo si fanno i funerali. Gli do ragione e approfitto di questo contatto per chiedere dell’orditoio e del lavoro in fabbrica. Dice che quando ha cominciato lui era il padrone che si metteva all’orditoio e non voleva che i giovani si avvicinassero alla macchina. Non tanto per il pericolo quanto per la responsabilità: era un lavoro che richiedeva esperienza e attenzione per ottenere un prodotto di qualità. C’era l’orgoglio del lavoro ben fatto, che ora con l’introduzione del computer si è un po’ perso. Prima si doveva impostare tutto manualmente, ed era molto gratificante: in quella tela ci sei anche tu. Si lavorava tanto e si guadagnava tanto. Ora sono cambiate le macchine, tutto è computerizzato, ma bisogna ugualmente star dietro alla qualità del lavoro. Com’è che un’apprendista sta da sola a una macchina come l’orditoio? Il contratto d’apprendistato è pro-forma, solo perché è quello che costa meno alla ditta, che magari poi ti paga fuori busta gli straordinari. Per svolgere quell’attività non serve un patentino specifico, basta la formazione in azienda sulla sicurezza, un breve corso che sulla carta Luana avrà fatto. La realtà è che ci lavorava da un anno all’orditoio, quindi conosceva la macchina. È che sei dentro la logica della produzione, finisci col guardare il lavoro con gli occhi del padrone. È così che funziona. E fai tutti gli straordinari che occorre fare, e fai presto più che puoi quando c’è la consegna veloce. Andare più veloce, più veloce.
Per fermare tutto questo, dice proprio così, dal palco una delegata sindacale chiede alle istituzioni di intervenire e si commuove quando fa un appello ai lavoratori affinché “non si girino dall’altra parte”. I lavoratori si girano dall’altra parte? Forse, dice il mio vicino, forse dobbiamo sperare che si ribellino gli extracomunitari, quelli che stanno sotto la piramide, quelli ricattabili perché senza contratto di lavoro perdono il diritto al permesso di soggiorno. Come alla Texprint.
Gli operai pakistani della Texprint, stamperia di proprietà cinese, con l’appoggio del sindacato Sì Cobas da gennaio lottano per il rispetto del contratto di lavoro, a partire dall’orario, 8 ore per 5 giorni, per passare dall’apprendistato o da altri contratti fittizi di 2-4 ore giornaliere a un normale contratto a tempo indeterminato. 18 sono stati messi in cassa integrazione dopo che si erano rifiutati di lavorare 12 ore per 7 giorni e di fare straordinari non pagati. La loro lotta è diventata esemplare per tutti i lavoratori del distretto. In effetti, da questa vicenda emerge un altro aspetto di novità: gli imprenditori cinesi di Prato sono stati i primi tra gli immigrati ad impiegare, seguendo il modello delle imprese italiane, manodopera immigrata non cinese (vedi l’inchiesta di A. Ceccagno e A. Salvati, Gli imprenditori cinesi di Prato, in Il Mulino, 4 settembre 2019). Quello che potrebbe apparire un conflitto etnico tra datori di lavoro cinesi e operai pakistani è in realtà il vecchio e ovvio conflitto di classe: poiché vi è una gerarchia delle retribuzioni dei diversi gruppi di immigrati (un lavoratore pakistano è pagato circa il 30% meno di un cinese, un africano ancora meno), impiegando lavoratori extracomunitari non cinesi, meno tutelati e più ricattabili, si possono accrescere i margini di profitto. Ricetta semplice e pericolosa, perché schiaccia verso il basso il costo del lavoro, aumenta la precarizzazione e di conseguenza riduce la sicurezza dei luoghi di lavoro. Per tutti, non solo per gli immigrati. Di proprietà italiana sono le aziende in cui sono morti Luana D’Orazio e Sabri Jaballah.
Con la crisi c’è meno sicurezza, lo denuncia anche Manuele Marigolli, ex operaio tessile e leader della Cgil di Prato, (La Nazione, 4 maggio 2021). I dati gli danno ragione: dopo essere scesi per la prima volta sotto mille nel 2010, il numero degli infortuni mortali è tornato a crescere, pur con oscillazioni significative, raggiungendo nel 2020 i 1270 anche per effetto del Covid 19. Morire per il lavoro è intollerabile, è scritto sul manifesto per lo sciopero del 7 maggio.
Marigolli introduce anche il tema della crisi del distretto. Rimpiange il tempo in cui era animato “da un comune sentire, uno spirito di bandiera che oggi, forse, non c’è più”. Uno spirito che legava imprenditori, istituzioni, operai, sindacati, tutti uniti “per guardare oltre insieme con la passione e la fertilità di idee che lo ha sempre contraddistinto – c’era una forte coesione…” Allora, quindici, venti anni fa, “la sfida da vincere era quella di competere con la concorrenza sulla qualità, piuttosto che sul ribasso del costo del lavoro”.
Non ci sono parole più chiare per comprendere quanto sia in crisi il modello toscano del distretto industriale. Il fatto è che l’alleanza dei produttori guidata dalla politica ha cambiato segno, ora che la politica si è dissolta nell’assenza di un progetto, di un’idea di società, per cui l’ideologia unica è quella del capitale, dei proprietari. Perciò chi non sopporta più lo stato delle cose e vuole cambiarlo, è bene che torni a guardare ai rapporti di classe, a rispolverare il tema del conflitto
L’idea del conflitto, fra l’altro, fa bene alla salute, perché svela l’evidenza che l’interesse dell’azienda non si identifica con il tuo. Alla sicurezza e alla salute è bene che ci pensi tu. Tua è la vita. Come diceva il poeta: controlla il conto, sei tu che lo devi pagare.
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