Miseria e nobiltà, la fame per ridere
Incontro con Anna Antonelli
In Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, in scena a Napoli al Teatro San Ferdinando dal 21 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017 con la tua regia, colpisce soprattutto come nel primo atto non ci siano battute in cui non ricorra l’ossessione primaria dei poveri, lo spettro, la paura della fame, in una continua evocazione del cibo, cercando di sfamarsi parlando di maccheroni e mozzarelle, uova e salsiccia. L’impressione che ho avuto guardando il tuo spettacolo era che gli affamati ormai fossero in preda a un delirio, immaginando di andare come ospiti d’onore nella casa di un cuoco…
Di lavorare sulla fame me l’ero proprio dato come obbiettivo perché mi sembrava interessante riportare la commedia su dei temi un po’ più concreti. Si può prendere Miseria e nobiltà e metterlo in scena come un grande meccanismo comico senza fare quasi nulla, a me invece interessava tornare a una comicità, molto napoletana, una comicità abbastanza cattiva, dove si ride delle disgrazie e delle ingenuità altrui. Come hai detto anche tu, Scarpetta fa andare questi morti di fame a casa di un cuoco arricchito detto Fritto Misto… e per il fatto che sono affamati non fanno altro che parlare di cibo, lo nominano e lo elencano in continuazione…Per staccarmi un po’ dal noto film di Mattoli con Totò ho deciso di non fare la famosa scena della fine del primo atto, quando il marchesino fa arrivare nella stamberga dove vivono queste due famiglie di disgraziati un succulento banchetto e si avvicinano piano piano con la sedia alla tavola imbandita e Totò prende la pasta con le mani e se la mette in bocca e nella tasca della giacchetta… la scena era ormai entrata nel mito collettivo ed era diventata propriamente un canone. La fame e il vagheggiamento l’ho fatto comparire quasi subito: appena si nomina qualcosa da mangiare, parte una musica che è una sorta di canto senza parole, una specie di singulto cavernoso, un suono dello stomaco, un rumore molto viscerale. Ogni occasione è buona per evocare il cibo con molta precisione “compro questo, compro quell’altro, ci mangiamo una bella bistecca alla faccia di chi ce vo’ male”… come se gli attori si riempissero lo stomaco di parole, sperando di saziarsi mangiando le parole. Nella scena del primo atto quando don Pasquale dice a don Felice “prendi il cappotto come pegno e vai dal salumiere e fatti dare questo, questo, questo…” e gli dice di prendere questo mondo e quest’altro… come se si nutrisse di tutti questi cibi. In seguito l’ottimo Giovanni Rudeno (Pasquale) dice: “e adesso Magnamm… “ e cominciano a fare una mangiata del tutto illusoria e immaginaria. Il testo si chiama Misera e nobiltà ma di nobili veri ce ne sono pochi, tutto lo spettacolo è il delirio di questi morti di fame che sognano sempre di mangiare, se vogliamo è anche un po’ Accattone di Pasolini nella fame e nell’impossibilità di cambiare la propria condizione. Come dici tu penso che la fame sia raccontata non solo come elemento corporale, ma come elemento visionario.
Finalmente i nostri vanno nella casa del cuoco. Tutta la scena è occupata da una cucina perfetta in questa atmosfera delirante, una cucina molto bella e funzionale, da grand’hotel che ricorda quelle che vengono propinate in continuazione nei programmi televisivi (che trovo osceni nella loro ostentazione del superfluo e dell’aspirazione al lusso) e qui tu arrivi interpretando Semolone, il cuoco. Con le tue mosse arlecchinesche ne fai una maschera: Semolone è un altro dei personaggi della tradizione, ossessionato dal cibo…
Per me Miseria e nobiltà è la summa del teatro napoletano passato, presente e futuro… è stato scritto da Scarpetta allievo di Antonio Petito, il grande Pulcinella ottocentesco. Pulcinella è un eterno affamato… ma tutte le maschere della comicità antica erano legate a questi perenni morti di fame e per me è come se avesse dentro tutto il teatro di prima, non soltanto quello di Petito. Voglio ricordare che con il suo teatro Scarpetta “uccide” Pulcinella, facendo secondo molti un gesto volgare. Per molti Pulcinella è una maschera rivoluzionaria e proletaria, mentre Sciosciammocca è anche un piccolo borghese cinico e calcolatore con una fame di riconoscimento sociale. Scarpetta era molto attento alla propria ricchezza, e riscrisse il teatro napoletano adeguandolo alle richieste del mercato, si è fatto costruire una villa con la scritta “Qui rido io…”, non è proprio una figura che io adoro, mi sono infinitamente più simpatici Petito e Antonio Viviani; oggi Scarpetta sarebbe un grande impresario privato attento al botteghino. Ho pensato di interpretare Semolone, sia perché la compagnia era molto numerosa e quindi era meglio che mi ritagliassi una figura non proprio da protagonista e poi, e poi se c’è un personaggio che all’interno di questo delirio delira più di tutti è proprio Semolone, che si immagina di essere un marchese e ha un’idea tutta sua di quel che sia la nobiltà… Il mio Semolone è una maschera, soprattutto fisica, questo nasce un po’ da come sono io, che ho un rapporto con la tradizione del teatro napoletano molto più legata al corpo che non alla lingua, il napoletano non è la lingua della mia infanzia e della mia vita. Ho iniziato con la danza, calcavo i palcoscenici facendo il ballerino, anche se non ero moltissimo portato, però mi è rimasto questo approccio molto fisico, con la scena. Semolone diventa un folletto danzante, che si muove in mezzo a tutte le sue pentole (e alla macchina del fumo che abbiamo montato… è un po’ tutto fumo e niente arrosto). Semolone è più un ignorante che un arrampicatore, uno che soffre perché nessuno vuole poi andare a mangiare a casa sua, si sente snobbato dal mondo a cui lui aspira e quando gli arrivano questi sedicenti nobili lui trova l’eden, il paradiso: dei nobili che restano a casa sua! La grande cucina d’albergo, devo ammettere che, anche se non guardo la televisione, so cos’è MasterChef… noi ci siamo ispirati dal punto di vista iconografico a Grand Budapest Hotel… ma anche noi montando la scena abbiamo ripetuto più volte MasterChef…
Scarpetta debutta con Miseria e nobiltà nel 1888 al Teatro del Fondo: fu scritto affinchè vi partecipasse il figlio Vincenzo allora dodicenne, ed Eduardo De Filippo presenta in una registrazione televisiva del lavoro il figlio Luca che debuttava anche lui, nel ruolo di Peppiniello, e tu hai dichiarato che il tema della partenità è centrale.
Mi sono accorto di quanto fosse importante il tema della paternità durante le prove. Nella commedia il giovane nobilastro don Eugenio innamorato di una ballerina, figlia del cuoco arricchito Semolone detto Fritto Misto, chiede a questi morti di fame di fingere di essere i suoi parenti per dare il consenso al matrimonio. I suoi veri parenti si schiferebbero di andare a casa di un cafone perdi più accogliendo in famiglia una ballerina d’avanspettacolo, quindi poco più che una puttana. Don Eugenio sa che Semolone cerca il riscatto sociale e cosa lo potrebbe sancire meglio se non dei nobili a pranzo per apprezzare la sua cucina? Don Eugenio sa anche che Semolone non ha alcuna idea di cosa sia effettivamente la nobiltà. Tutto questo è socialmente interessante, Scarpetta ci dice che in fondo la nobiltà stessa è solo una parola, basta dirselo la nobiltà ormai è rimasta un antico ricordo di un potere, mantiene la forza del nome, ma non c’è più sostanza, la nobiltà è stata mangiata dalla classe borghese, ma all’epoca di Scarpetta forse non era ancora così. Questo il plot principale, poi c’è un sotto-plot, una storia parallela: don Felice Sciosciammocca, uno dei morti di fame, aveva una moglie da cui si è separato, e nella casa dove si finge nobile la ritrova e ritrova il figlio con cui aveva litigato nel primo atto, quando lo caccia di casa non avendo nulla da mangiare; un litigio, cattivo e aggressivo tra padre e figlio. Quando ci sta la miseria diventa difficile fare i genitori, quando la gente ha fame diventa anche molto complicato amarsi. Scarpetta ricompone quindi questa famiglia originaria, almeno per un po’, non si sa per quanto.
Mi sono molto appassionato alla storia di questo ricongiungimento padre-figlio in una casa estranea dove tutti e due si ritrovano nel ruolo di sfruttati “io sono tuo padre che ha attraversato la finta nobiltà e la vera miseria” e mi sono anche inventato un abbraccio finale; i motivi possono essere molti. Ho perso mio padre quando ero abbastanza giovane, per me lui ha sempre rappresentato la cultura napoletana, io per una forma di smarcamento e forse di opposizione nei suoi confronti ho rifiutato di parlare il dialetto napoletano per tanti anni, ho iniziato a usarlo da quando mio padre è morto, è stato questo un ricongiungimento come ritrovarlo, un fil rouge nello spettacolo che mi ha dato una certa emozione. Come si diceva prima, questa commedia, dove appare il conflitto tra un padre e un figlio, è l’opera in cui i figli d’arte debuttano nel ruolo di Peppiniello, e il tema della paternità non doveva essere secondario per Scarpetta che gestiva una famiglia complessa divisa in più nuclei, dove a quella centrale è sottomessa, come nucleo satellite, la famiglia De Filippo. Eduardo, Peppino e Titina De Filippo erano figli naturali di Scarpetta che però non li ha mai riconosciuti; De Filippo è il cognome del finto padre, ma ha sempre fatto lavorare i tre figli illegittimi nella sua compagnia.
Questa idea della paternità è spuntata da tutte le parti durante l’allestimento, ma all’inizio per me centrale era il tema dell’indigenza, mi interessava il tema di questa finta ricchezza, riproposto oggi dove mi pare si stia precipitando in una forte, grossa, nuova miseria che si fa di tutto per non vedere. C’è forse più vergogna che indignazione e spinta alla rivolta, una grande vergogna di fronte all’evidente difficoltà economica che sta attraversando il paese, vergogna e nessun senso di solidarietà verso molta gente che non ce la fa a vivere e a mangiare. Mi sembra che quando lo stomaco è vuoto, quando non ci sta niente, tutto sia molto più difficile, è più difficile anche volersi bene, più difficile sopportare se stessi e gli altri, e che oggi parlare di miseria, sia importante, quando mi sembra ci sia una specie di ostinazione a ostentare una non certa diffusa opulenza. Oggi questa rappresentazione del falso benessere avviene attraverso il cibo.
Napoli è una città che sicuramente non se la passa bene economicamente, ma sempre di più abbondano friggitorie e scintillanti luoghi di ristoro a poco prezzo, forme di nutrizione piuttosto economica, molto saporita e molto malsana, con molto olio, una specie di regno di cose mal fritte che vuole nascondere la miseria. Quello che mi ha molto colpito di questa commedia è come questi morti di fame vengano biecamente sfruttati da don Eugenio, quello che lui fa è un gesto che io percepisco come molto violento: lui non li prepara per nulla, non cerca di dare suggerimenti, gli mette addosso quattro cose e li lancia allo sbaraglio. Per questo io poi ho scelto che nel travestimento loro non si vestissero di tutto punto per sembrare nobili, per me era molto importante che conservassero le quattro pezze con cui sono costretti ad andare in giro, e che su quelle quattro pezze don Eugenio gli facesse infilare delle vestagliacce in velluto e gli sbattesse in testa parrucche fine Seicento, quasi molieriane, e così vengono catapultati a fare i nobili, impavidi nel loro sogno di mangiate ipotetiche, illusorie, sognate. C’è una grande crudeltà in tutto questo, scritto chiaramente per far ridere secondo i precisi meccanismi del teatro comico, ma se ci si ferma a pensare a cosa sta succedendo, ci si accorge che dei poveri disperati accettano di farsi buffoni, in attesa di poter mangiare e l’unico modo per poterlo fare è farsi mettere due cose addosso, travestiti da nobili, sbattuti dentro ‘sta casa dove regna una grande cucina, ma Scarpetta forse per sadismo il pranzo non lo farà mai arrivare. Arriva solo il gelato, finalmente mettono in bocca qualche cosa… è un momento quasi di commozione, con la famosa battuta di don Felice “Erano sei anni che non mangiavo ‘nu gelat”. Con questo voglio dire che tutta la macchina si costruisce cinicamente sfruttando l’indigenza e la totale disperazione di queste due famiglie. Ho voluto poi concludere lo spettacolo riportando i poveri nel loro miserevole quartierino dove i morti di fame vivono stipati, gli attori hanno un trucco quasi da teatro espressionista, con la faccia molto bianca e profonde occhiaie anche quando si fingono nobili e se l’improbabile lieto fine di Scarpetta rimane, anche la miseria rimane invariata e questo gruppo di affamati litiga e si scanna con incredibile violenza liberandosi dai camuffamenti e dalle parrucche mentre ridiscende il fondale dipinto del primo atto e tutti ritornano nella stessa condizione di partenza.
In Napoli in scena Stefano De Matteis dice che Scarpetta sembra non accorgersi che le sue commedie funzionavano proprio per i contenuti che trasformavano i comportamenti sociali in comportamenti teatrali e tu hai detto una cosa molto giusta sulla crudeltà del vero nobile don Eugenio verso i miserabili, mi chiedo se a Scarpetta interessassero solo i meccanismi del comico o anche il raccontare la società del suo tempo.
Io credo che Scarpetta fosse un grosso reazionario, lui fondamentalmente ha cercato di rendere borghese il teatro napoletano, adeguandolo alle richieste di mercato e di modificare la figura anarchica e pericolosa della maschera di Pulcinella – personaggio futuristico e biomeccanico – trasformandolo in Sciosciammocca, una figura più borghese tradizionale. E in fondo credo che quel che Scarpetta volesse dire si racchiude nella battuta di Sciosciammocca “che bello fare i nobili, dovremmo essere tutti quanti nobili… si ma se fossero tutti nobili io e Pasquale che siamo invece dei morti di fame saremmo morti, allora ci deve essere la ricchezza e la povertà…”. Il misero continuerà a essere il misero e nulla poi cambierà… la mia lettura emotiva di questa vicenda è che comunque forse loro, questo gruppo di morti di fame, in questo viaggio che fanno in questa sorta di paese dei balocchi…forse ritrovano una loro dignità umana; la riappacificazione tra padre e figlio è anche un po’ questo. Dopo essersi finti nobili si ritrovano com’erano all’inizio ma con la differenza che forse si riconoscono, un padre riconosce un figlio e forse smette anche di vergognarsi. Certo non è una grande soluzione, ma magari…