Mediterraneo, schiuma della terra
Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto,
schiuma della terra
Hannah Arendt
Un itinerario centrato sul Mediterraneo e su chi lo abita e lo attraversa. È quello che proviamo a disegnare attraverso gli interventi di questa sezione della rivista. Non parliamo di migranti e di migrazioni, che nel pensiero di Stato sono un capitolo delle politiche di pubblica sicurezza ma anche di economia, da quando i governi delle altre sponde del Mediterraneo hanno accettato il loro ruolo di agenzie della security privata della Fortezza Europa. Parliamo di noi, di quello che siamo, delle nostre società, delle politiche che iniziano sui nostri territori e finiscono ben oltre le nostre frontiere, nel più classico modello coloniale: esportiamo politiche di sicurezza – con i loro apparati socio-materiali fatti di droni, motovedette, tecnologie di sorveglianza innovative basate sull’intelligenza artificiale, database, radar e formazione all’utilizzo di tali mezzi – importiamo forza lavoro a basso costo, risorse naturali, incassiamo dipendenze neocoloniali chiamate “accordi bilaterali di collaborazione” o “memorandum d’intesa”.
Iniziamo con le parole di Sergio Piro, tratte da un libro recentemente ripubblicato: parole collettive, frutto del lavoro di un gruppo – l’Operativo Esclusione e Sofferenza – che in quanto elaborate in un percorso di riflessione e intervento, assumono il valore dell’esperienza e dell’impegno concreto.
Ne bastano tre a definire la lotta che abbiamo da fare e le coordinate per leggere il problema nostro e di chi giunge: esclusione, sofferenza e guerra. Rispetto all’esperienza del migrare sono causa e conseguenza: si migra a causa di esclusioni, sofferenze e guerre, nella migrazione si ritrova spesso solo questo. Ce ne parla Gianluca D’Errico che ci introduce alla straordinaria esperienza di un protagonista a Sud della rivoluzione basagliana, che è, è stata, deve continuare ad essere una esperienza di liberazione dei soggetti dalle identità, saperi e istituzioni inventate per giustificare – con un qualche sapere tecnico – la tollerabilità della sofferenza altrui.
Bastano tre parole anche a Rafael Campagnolo, attivista a Ventimiglia, a chiudere il suo racconto di un’altra geografia, descritta non come una mappa stabile del territorio ma come quel movimento continuo del bucare la frontiera e delle sue tattiche da parte di chi parte, di chi aiuta ad arrivare sano, di chi lucra – economicamente e politicamente – sulle guerriglie fra stati, agenzie di sicurezza e persone lungo i confini esterni ed interni. Libertà, cura, disarmo sono le parole che rispondono alle analitiche di esclusione, sofferenza e guerra di Piro. Su questo chiasmo possiamo forse costruire un nuovo linguaggio della lotta non “per i migranti” ma per tutti noi: chi sta, chi viaggia, chi transita, chi cerca, chi fugge, chi accoglie, chi racconta tutto questo movimento di vite.
Dalila Zommit ci descrive il farsi politico, ideologico e materiale dell’esclusione razzista in Tunisia, quell’antefatto della storia di molti che mai ci viene narrato, raccogliendo finalmente le voci di chi siamo ormai abituati a vedere come immagine senza audio: corpi che galleggiano nel Mediterraneo, corpi abbandonati nel deserto attraverso la nuova politica delle deportazioni, che con estetica (solo quella) pietà ci appaiono sempre di spalle, senza viso, affinché non siano uomini, donne, madri, bambini, sorelle e fratelli e figli di qualcuno. Yasmine Accardo, attivista di Memoria Mediterranea, ci avverte che la memoria non è contemplazione estatica: è conflitto, antagonismo, azione politica, risoggettivazione del corpo abbandonato come persona, nella comunità dei suoi affetti e legami. Anche il gesto finale della vita – la sepoltura – per chi crede e per chi non crede nell’aldilà, fa parte della vita, la definisce, anch’essa può essere una forma di razzismo, fonte di ulteriore sofferenza o può essere fatta con cura, con rabbia, per cambiare le cose.