Mappe nere e poesie buie

a cura di Damiano Abeni
Mark Strand (1934-2014) è uno dei maggiori poeti degli ultimi decenni. Noto per le sue poesie evanescenti e surreali, per gli ambienti indefiniti (sia fisici che psicologici) in cui le sue opere sembrano collocarsi, per l’accento ombroso, elegiaco, meditativo dei suoi enunciati, in realtà Mark Strand è sempre stato attentissimo al mondo concreto, all’evolversi degli aspetti politici e sociali nel corso della sua vita. Indicava nella cieca ricerca della “gratificazione immediata” o, meglio, “istantanea” (“instant gratification” diceva) una delle radici dei mali maggiori della nostra epoca: in altre parole, l’incapacità di costruire un futuro civile e sostenibile. Quanto alla poesia, sosteneva che deve essere metaforica, distante dagli aspetti metonimici di tanta poesia etichettata come politica, ad esempio molta di quella prodotta dalla beat generation. Il suo tipico esempio di struttura e contenuti di una poesia metonimica e “politica” era: sono stato dal droghiere; gli ho chiesto un etto di mortadella; me ne ha pesati 90 grammi e me ne ha fatti pagare 100; il droghiere è avido e disonesto; ma non è forse vero che tutto il mondo è così?
Niente di più lontano da ciò nella poesia di Strand: ogni figura apparentemente surreale e unica, ogni pronome singolare, è vera metafora, in perfetta sintonia con le parole che lo spirito di W.H. Auden ha dettato a James Merrill nel canto “&” di Scripts for the Pageant, la terza cantica di The Changing Light at Sandover:
(…) signori,
il vero poeta è, di tutti gli scribi, il più attratto
dal concreto. sissignori noi ce ne nutriamo!
non la politica, piccola nei modi & nella moda,
piccola, anche, nei grandi “temi” altisonanti
ci fa palpitare, ma i fatti sì. sissignori, eccome.
La prima poesia presentata qui è stata pubblicata nella raccolta d’esordio Sleeping with One Eye Open (1964), a cui dà il titolo, viene oggi spesso citata sui social network, come premonitrice della nostra situazione attuale. Le due poesie successive fanno parte di Darker (Più buio), del 1970. Specie della seconda – che contiene l’ormai famosa frase (ad esempio, la si è potuta leggere per diversi anni sulle mura romane del quartiere di San Lorenzo a Roma) “il futuro non è più quello di una volta” – a una mia precisa domanda, Strand ha confessato (detestava dare riferimenti precisi) “è una poesia sulla guerra del Vietnam”. Strand rintraccia in quel periodo “l’inizio della fine” dell’impero americano. Il centone virgiliano è da The Continuous Life (La vita ininterrotta, 1990). La prima sezione de Il tempo a venire è tratta dalla raccolta vincitrice del Premio Pulitzer Blizzard of One (Tempesta al singolare, 1998). La seconda sezione di Postfazioni (il cui scenario è stabilito dal primo verso della prima sezione: “Branchi di cani selvatici battevano le vie dei nababbi”) è tratta da Man and Camel (Uomo e cammello, 2006). Qui siamo dopo il fatidico 9 settembre. Il primo di questi brani è un peana all’inconsapevolezza dei “nababbi”, anche dei più liberali e progressisti, che Mark conosceva bene. Da elettore romano, fin dalla prima lettura mi ha sempre evocato le figure di Veltroni e Rutelli. Il brano conclusivo viene dal suo libro Almost Invisible (Quasi invisibile, 2012), una raccolta di brevi parabole, panegirici, micro-racconti in prosa. Questi brani sono ora raccolti in un unico volume: Mark Strand, Tutte le poesie, Mondadori 2019.
C’è qualcosa nell’aria
e non mi riferisco
a ciò che avete letto
sui giornali, né alle voci
che avete messo in giro,
e nemmeno a ciò che detestate nominare:
la crepa nell’intonaco della casa nuova,
i fusibili che si bruciano spesso, i rubinetti che gocciano,
i giochi pericolosi dei bambini.
Sta succedendo qualcosa
che non riuscite a capire.
Qualcosa si è mosso.
C’è qualcosa nell’aria.
Sta lì nel pasticcio
del mezzobusto che legge una cosa per l’altra.
O nel tremore della mano del perdente
mentre gira l’ultima carta.
Sta lì di domenica, il pomeriggio presto,
quando il sole ustiona i tetti
e uno straccio bruciacchiato viene soffiato, senza ombra,
lungo i marciapiedi e i porticati della città morta.
(da albert arnold scholl)
Mappe nere
Non la platea di pietre
né il vento che applaude
ti faranno capire
che sei arrivato,
non il mare che celebra
solo le partenze,
non le montagne,
né le città morenti.
Niente ti dirà
dove sei.
Ogni attimo è un posto
dove non sei mai stato.
Puoi camminare
e credere che emani
luce attorno a te.
Ma come farai a saperlo?
Il presente è sempre buio.
Le sue mappe sono nere,
sorgono dal nulla,
descrivono,
nella loro lenta ascesa
dentro se stesse,
il proprio viaggio,
il proprio vuoto,
la desolata, sobria
necessità del completarlo.
Nel venire in essere
sono come il respiro.
E se pure le si studia
è solo per scoprire,
troppo tardi, che quelli che
ritenevi fatti tuoi
non esistono.
La tua casa non è segnata
su nessuna di quelle mappe,
né ci sono gli amici,
che aspettano che ti faccia vivo,
né i tuoi nemici,
che enumerano le tue mancanze.
Ci sei solo tu,
e saluti
ciò che sarai,
e l’erba nera
sostiene stelle nere.
Come è
Il mondo è orribile.
E la gente è triste.
(Wallace Stevens)
Sto a letto.
Mi rigiro tutta notte
nel freddo indisturbato abisso
delle lenzuola senza dormire.
Il mio vicino cammina in camera sua,
indossa la maschera
soffice di un falco dal grande becco.
Sta alla finestra. Una piuma viola
sale dal colmo del suo elmo.
La luce della luna
si versa come latte su di lui e il vento sciacqua le bianche
coppe vitree dei suoi occhi.
Con l’elmo nella borsa della spesa
siede nel parco, sventola una bandierina americana.
Non lo si sente quando si sposta
dietro le siepi e le piante,
sempre sui confini consunti
del paese, e punta una pistola a qualcuno come me. Mi accuccio
sotto il tavolo della cucina, e mi dico
sono un cane, chi ucciderebbe mai un cane?
La moglie del vicino torna a casa.
Entra in salotto,
si denuda, la chioma le ricade sulla schiena.
Pare che guardi
lunghi fiumi piatti d’ombra.
Ha le piante dei piedi nere.
Bacia il marito sul collo
e gli infila le mani nei calzoni.
I miei vicini ballano.
Rotolano sul pavimento, lui le mette la lingua
nell’orecchio, i suoi polmoni
esalano il fetore della broda e del clima dell’inferno.
Per strada c’è gente che si sdraia
ginocchia all’aria, con occhi
colmi di lacrime, ceneri
che penetrano nelle orecchie.
I vestiti vengono loro strappati
di dosso. Hanno le facce estenuate.
Cavalieri gli galoppano intorno, spiegando perché
dovrebbero morire.
La moglie del vicino mi chiama, bocca schiacciata
contro il muro alle spalle del mio letto.
Dice: “Mio marito è morto”,
mi giro sul fianco,
sperando non abbia mentito.
Le pareti e il soffitto della camera sono grigi –
il colore della luna visto dalle finestre di un lavasecco.
Chiudo gli occhi.
Mi vedo a galla
sul mar morto del mio letto, risucchiato via
e chiedo aiuto, ma l’urlo vago
mi si strozza in gola.
Mi vedo nel parco
a cavallo, avvolto dal buio,
che conduco gli eserciti di pace.
Le zampe di ferro del cavallo non si flettono.
Lascio le redini. Dove andranno a finire i disordini?
Flotte di taxi si fermano
nella nebbia, i passeggeri
si addormentano. Benzina cola
da un tubo di scappamento tricolore.
Chiudendo a chiave le porte,
le persone che escono dagli uffici si stringono strette,
raccontando daccapo sempre la stessa storia.
Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.
Non si fa nulla. La sera
consuma loro le membra
come una carestia.
Tutto si offusca.
Il futuro non è più quello di una volta.
Le tombe sono pronte. I morti
erediteranno i morti.
Cento virgilianus
E così, passando sotto la cupola del cielo immenso,
sospinti da tempeste e mari in burrasca, giungemmo,
chiedendoci su quale sponda del mondo
eravamo stati gettati. L’ululare dei cani
si udiva per tutto il crepuscolo,
e sulle tombe il crepitare che fa
un fuoco di stoppie sferzato dal vento;
e poi, da cortili ghiacciati,
i lamenti striduli delle donne si alzarono
contro le stelle d’oro e silenti.
All’inizio non ci mancavano le città da cui eravamo partiti –
le case dipinte di rosa e di verde, i cigni che si cibano
tra le canne del fiume, gli scrosci di luce estiva
che scorrono sui pascoli.
Che importava se avevamo sperato di trovare Apollo qui,
finalmente in trono, che importava se un freddo attanagliante
ci gelava le ossa. Eravamo giunti in un luogo
dove tutto piange per come va il mondo.
da Il tempo a venire
Nessuno se ne rende conto, ma l’architettura del nostro tempo
diventa l’architettura del tempo a venire. E lo sfolgorio
della luce sulle acque non è niente accanto ai mutamenti
forgiati nel profondo, proprio come la nostra resistenza è
niente rispetto alla pulsione continua delle cose verso il baratro.
Nessuno può fermare il flusso, ma nemmeno può avviarlo.
Il tempo scivola via; i nostri dolori non trasmutano in poesie,
e l’invisibile rimane tale. Il desiderio è svanito,
ha lasciato solo una traccia di profumo sulla scia,
e così tante persone che amavamo se ne sono andate,
e non c’è voce che giunga dallo spazio, dalle spire
di polvere, dai tappeti di vento a dirci che così è
che doveva andare, che se solo sapessimo
quanto le rovine sopravviveranno non ci lamenteremmo affatto.
da Postfazioni
Si precipitarono fuori dalle case per salutare la primavera,
poi corsero sui pontili a contemplare i dorsi dei pesci,
lunghi e scintillanti, poi nelle stalle a vedere
i cavalli lustri che respiravano nuvole. Nulla li poteva trattenere
dalla loro gioia, non l’uragano che accumulava energia
a occidente, né le bombe che esplodevano a oriente;
loro era lo stato di grazia di un’altra epoca. D’improvviso,
una donna apparve sulla spiaggia e disse che di lì a poco
avrebbe cantato. “Tra poco canterà”, mormorava
la folla che s’adunava. “Tra poco canterà”, ripetei
tra me e me svegliandomi. Poi andai alla finestra
e un fiume di anziani con bastoni e torce elettriche
incedeva lentissimo giù verso il mare nel buio.
Non c’era niente da fare
Il dolore era ovunque. La gente agli angoli di strada scoppiava in lacrime all’improvviso. Non riuscivano a trattenersi. Negli appartamenti bui, nelle macchine parcheggiate, ai tavolini lungo la strada, la gente piangeva. Il cane al fianco del padrone, il gatto sul davanzale, piangevano anche loro. Il re e la regina erano morti e anche il principe, e pure il presidente della repubblica e le stelle del grande schermo. Il mondo intero piangeva. E il pianto si diffondeva, si diffondeva, e non lo si poteva fermare.