Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Mappe nere e poesie buie

disegno di Lorenzo Mattotti
29 Aprile 2020
Mark Strand

a cura di Damiano Abeni

Mark Strand (1934-2014) è uno dei maggiori poeti degli ultimi decenni. Noto per le sue poesie evanescenti e surreali, per gli ambienti indefiniti (sia fisici che psicologici) in cui le sue opere sembrano collocarsi, per l’accento ombroso, elegiaco, meditativo dei suoi enunciati, in realtà Mark Strand è sempre stato attentissimo al mondo concreto, all’evolversi degli aspetti politici e sociali nel corso della sua vita. Indicava nella cieca ricerca della “gratificazione immediata” o, meglio, “istantanea” (“instant gratification” diceva) una delle radici dei mali maggiori della nostra epoca: in altre parole, l’incapacità di costruire un futuro civile e sostenibile. Quanto alla poesia, sosteneva che deve essere metaforica, distante dagli aspetti metonimici di tanta poesia etichettata come politica, ad esempio molta di quella prodotta dalla beat generation. Il suo tipico esempio di struttura e contenuti di una poesia metonimica e “politica” era: sono stato dal droghiere; gli ho chiesto un etto di mortadella; me ne ha pesati 90 grammi e me ne ha fatti pagare 100; il droghiere è avido e disonesto; ma non è forse vero che tutto il mondo è così?

Niente di più lontano da ciò nella poesia di Strand: ogni figura apparentemente surreale e unica, ogni pronome singolare, è vera metafora, in perfetta sintonia con le parole che lo spirito di W.H. Auden ha dettato a James Merrill nel canto “&” di Scripts for the Pageant, la terza cantica di The Changing Light at Sandover:

(…) signori,

il vero poeta è, di tutti gli scribi, il più attratto

dal concreto. sissignori noi ce ne nutriamo!

non la politica, piccola nei modi & nella moda,

piccola, anche, nei grandi “temi” altisonanti

ci fa palpitare, ma i fatti sì. sissignori, eccome.

La prima poesia presentata qui è stata pubblicata nella raccolta d’esordio Sleeping with One Eye Open (1964), a cui dà il titolo, viene oggi spesso citata sui social network, come premonitrice della nostra situazione attuale. Le due poesie successive fanno parte di Darker (Più buio), del 1970. Specie della seconda – che contiene l’ormai famosa frase (ad esempio, la si è potuta leggere per diversi anni sulle mura romane del quartiere di San Lorenzo a Roma) “il futuro non è più quello di una volta” – a una mia precisa domanda, Strand ha confessato (detestava dare riferimenti precisi) “è una poesia sulla guerra del Vietnam”. Strand rintraccia in quel periodo “l’inizio della fine” dell’impero americano. Il centone virgiliano è da The Continuous Life (La vita ininterrotta, 1990). La prima sezione de Il tempo a venire è tratta dalla raccolta vincitrice del Premio Pulitzer Blizzard of One (Tempesta al singolare, 1998). La seconda sezione di Postfazioni (il cui scenario è stabilito dal primo verso della prima sezione: “Branchi di cani selvatici battevano le vie dei nababbi”) è tratta da Man and Camel (Uomo e cammello, 2006). Qui siamo dopo il fatidico 9 settembre. Il primo di questi brani è un peana all’inconsapevolezza dei “nababbi”, anche dei più liberali e progressisti, che Mark conosceva bene. Da elettore romano, fin dalla prima lettura mi ha sempre evocato le figure di Veltroni e Rutelli. Il brano conclusivo viene dal suo libro Almost Invisible (Quasi invisibile, 2012), una raccolta di brevi parabole, panegirici, micro-racconti in prosa. Questi brani sono ora raccolti in un unico volume: Mark Strand, Tutte le poesie, Mondadori 2019.

C’è qualcosa nell’aria

e non mi riferisco

a ciò che avete letto

sui giornali, né alle voci

che avete messo in giro,

e nemmeno a ciò che detestate nominare:

la crepa nell’intonaco della casa nuova,

i fusibili che si bruciano spesso, i rubinetti che gocciano,

i giochi pericolosi dei bambini.

Sta succedendo qualcosa

che non riuscite a capire.

Qualcosa si è mosso.

C’è qualcosa nell’aria.

Sta lì nel pasticcio

del mezzobusto che legge una cosa per l’altra.

O nel tremore della mano del perdente

mentre gira l’ultima carta.

Sta lì di domenica, il pomeriggio presto,

quando il sole ustiona i tetti

e uno straccio bruciacchiato viene soffiato, senza ombra,

lungo i marciapiedi e i porticati della città morta.

(da albert arnold scholl)

Mappe nere

Non la platea di pietre

né il vento che applaude

ti faranno capire

che sei arrivato,

non il mare che celebra

solo le partenze,

non le montagne,

né le città morenti.

Niente ti dirà

dove sei.

Ogni attimo è un posto

dove non sei mai stato.

Puoi camminare

e credere che emani

luce attorno a te.

Ma come farai a saperlo?

Il presente è sempre buio.

Le sue mappe sono nere,

sorgono dal nulla,

descrivono,

nella loro lenta ascesa

dentro se stesse,

il proprio viaggio,

il proprio vuoto,

la desolata, sobria

necessità del completarlo.

Nel venire in essere

sono come il respiro.

E se pure le si studia

è solo per scoprire,

troppo tardi, che quelli che

ritenevi fatti tuoi

non esistono.

La tua casa non è segnata

su nessuna di quelle mappe,

né ci sono gli amici,

che aspettano che ti faccia vivo,

né i tuoi nemici,

che enumerano le tue mancanze.

Ci sei solo tu,

e saluti

ciò che sarai,

e l’erba nera

sostiene stelle nere.

Come è

Il mondo è orribile.

E la gente è triste.

(Wallace Stevens)

Sto a letto.

Mi rigiro tutta notte

nel freddo indisturbato abisso

delle lenzuola senza dormire.

Il mio vicino cammina in camera sua,

indossa la maschera

soffice di un falco dal grande becco.

Sta alla finestra. Una piuma viola

sale dal colmo del suo elmo.

La luce della luna

si versa come latte su di lui e il vento sciacqua le bianche

coppe vitree dei suoi occhi.

Con l’elmo nella borsa della spesa

siede nel parco, sventola una bandierina americana.

Non lo si sente quando si sposta

dietro le siepi e le piante,

sempre sui confini consunti

del paese, e punta una pistola a qualcuno come me. Mi accuccio

sotto il tavolo della cucina, e mi dico

sono un cane, chi ucciderebbe mai un cane?

La moglie del vicino torna a casa.

Entra in salotto,

si denuda, la chioma le ricade sulla schiena.

Pare che guardi

lunghi fiumi piatti d’ombra.

Ha le piante dei piedi nere.

Bacia il marito sul collo

e gli infila le mani nei calzoni.

I miei vicini ballano.

Rotolano sul pavimento, lui le mette la lingua

nell’orecchio, i suoi polmoni

esalano il fetore della broda e del clima dell’inferno.

Per strada c’è gente che si sdraia

ginocchia all’aria, con occhi

colmi di lacrime, ceneri

che penetrano nelle orecchie.

I vestiti vengono loro strappati

di dosso. Hanno le facce estenuate.

Cavalieri gli galoppano intorno, spiegando perché

dovrebbero morire.

La moglie del vicino mi chiama, bocca schiacciata

contro il muro alle spalle del mio letto.

Dice: “Mio marito è morto”,

mi giro sul fianco,

sperando non abbia mentito.

Le pareti e il soffitto della camera sono grigi –

il colore della luna visto dalle finestre di un lavasecco.

Chiudo gli occhi.

Mi vedo a galla

sul mar morto del mio letto, risucchiato via

e chiedo aiuto, ma l’urlo vago

mi si strozza in gola.

Mi vedo nel parco

a cavallo, avvolto dal buio,

che conduco gli eserciti di pace.

Le zampe di ferro del cavallo non si flettono.

Lascio le redini. Dove andranno a finire i disordini?

Flotte di taxi si fermano

nella nebbia, i passeggeri

si addormentano. Benzina cola

da un tubo di scappamento tricolore.

Chiudendo a chiave le porte,

le persone che escono dagli uffici si stringono strette,

raccontando daccapo sempre la stessa storia.

Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.

Non si fa nulla. La sera

consuma loro le membra

come una carestia.

Tutto si offusca.

Il futuro non è più quello di una volta.

Le tombe sono pronte. I morti

erediteranno i morti.

Cento virgilianus

E così, passando sotto la cupola del cielo immenso,

sospinti da tempeste e mari in burrasca, giungemmo,

chiedendoci su quale sponda del mondo

eravamo stati gettati. L’ululare dei cani

si udiva per tutto il crepuscolo,

e sulle tombe il crepitare che fa

un fuoco di stoppie sferzato dal vento;

e poi, da cortili ghiacciati,

i lamenti striduli delle donne si alzarono

contro le stelle d’oro e silenti.

All’inizio non ci mancavano le città da cui eravamo partiti –

le case dipinte di rosa e di verde, i cigni che si cibano

tra le canne del fiume, gli scrosci di luce estiva

che scorrono sui pascoli.

Che importava se avevamo sperato di trovare Apollo qui,

finalmente in trono, che importava se un freddo attanagliante

ci gelava le ossa. Eravamo giunti in un luogo

dove tutto piange per come va il mondo.

da Il tempo a venire

Nessuno se ne rende conto, ma l’architettura del nostro tempo

diventa l’architettura del tempo a venire. E lo sfolgorio

della luce sulle acque non è niente accanto ai mutamenti

forgiati nel profondo, proprio come la nostra resistenza è

niente rispetto alla pulsione continua delle cose verso il baratro.

Nessuno può fermare il flusso, ma nemmeno può avviarlo.

Il tempo scivola via; i nostri dolori non trasmutano in poesie,

e l’invisibile rimane tale. Il desiderio è svanito,

ha lasciato solo una traccia di profumo sulla scia,

e così tante persone che amavamo se ne sono andate,

e non c’è voce che giunga dallo spazio, dalle spire

di polvere, dai tappeti di vento a dirci che così è

che doveva andare, che se solo sapessimo

quanto le rovine sopravviveranno non ci lamenteremmo affatto.

da Postfazioni

Si precipitarono fuori dalle case per salutare la primavera,

poi corsero sui pontili a contemplare i dorsi dei pesci,

lunghi e scintillanti, poi nelle stalle a vedere

i cavalli lustri che respiravano nuvole. Nulla li poteva trattenere

dalla loro gioia, non l’uragano che accumulava energia

a occidente, né le bombe che esplodevano a oriente;

loro era lo stato di grazia di un’altra epoca. D’improvviso,

una donna apparve sulla spiaggia e disse che di lì a poco

avrebbe cantato. “Tra poco canterà”, mormorava

la folla che s’adunava. “Tra poco canterà”, ripetei

tra me e me svegliandomi. Poi andai alla finestra

e un fiume di anziani con bastoni e torce elettriche

incedeva lentissimo giù verso il mare nel buio.

Non c’era niente da fare

Il dolore era ovunque. La gente agli angoli di strada scoppiava in lacrime all’improvviso. Non riuscivano a trattenersi. Negli appartamenti bui, nelle macchine parcheggiate, ai tavolini lungo la strada, la gente piangeva. Il cane al fianco del padrone, il gatto sul davanzale, piangevano anche loro. Il re e la regina erano morti e anche il principe, e pure il presidente della repubblica e le stelle del grande schermo. Il mondo intero piangeva. E il pianto si diffondeva, si diffondeva, e non lo si poteva fermare.

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