Ma lo Stato è “maturo”?
Come tutti i docenti, anche quelli di italiano alle superiori hanno sviluppato una professionalità articolata. Da molto tempo non preparano programmi ma programmazioni. Si pongono degli obiettivi, adottano strategie, scelgono strumenti, giocano insomma anche loro con quella terminologia trasversale che forse è diventata la vera anima dell’Occidente: quel progettese, che è sempre lo stesso, si tratti di colture idroponiche, distribuzioni alimentari in zone di conflitto, produzione cinematografica o educazione. Ma hanno anche una terminologia specifica, dedicata all’apprendimento. Sanno che il loro lavoro è ben altro che inculcare nozioni: mirano prima di tutto a plasmare competenze, svelare i segreti che permettano di imparare ad imparare. Sanno che la lezione frontale a volte è piuttosto un incidente frontale e può essere letale. Si avventurano allora sul terreno dei laboratori e dei seminari, del cooperative learning e del problem solving.
Sono operatori culturali e sanno che la cultura a scuola si muove secondo assi: quello dei linguaggi, quello matematico, quello scientifico-tecnologico e quello storico-sociale. Qui i docenti di italiano tendono a differenziarsi: c’è chi sente di appartenere solo al linguaggio, chi anche alla storia e alla società, mosche bianche si pongono domande scientifico-tecnologiche, ma la matematica no, ogni pazienza ha un limite, ogni limite ha una pazienza. Quattro assi non ortogonali e una geometria non euclidea è veramente troppo, meglio almeno una geometria bidimensionale lungo gli assi dei linguaggi e storico-sociale.
Sanno che insegnano non solo una letteratura ma anche una lingua e che le competenze linguistiche sono sia attive che passive, sia parlate che scritte, nonché miste,e tutte devono essere ugualmente curate. Uno dei loro demoni è la valutazione, che aristotelicamente può essere iniziale, in itinere e finale, e soprattutto mai può essere meramente sommativa (anche se la legge, i registri elettronici e i ricorsi conoscono solo quella). La trasversalità è un pregio da nominare sempre, specie quando non esiste. Di conoscenze, abilità e competenze parlano ormai da anni, come di debiti e recuperi, e in tutto questo riescono ancora a ricordare che i singoli individui, gli studenti, hanno attitudini diverse che bisogna comunque far fruttare.
Ma quando si arriva all’esame che una volta si chiamava esageratamente di maturità, quest’ordalia di assi, competenze e conoscenze, viene messa da parte, e quello che si chiede sono i contenuti del programma svolto, i vecchi bistrattati contenuti, quelli che in teoria potrebbero girare su qualsiasi supporto o device, ma non necessariamente vengono fatti propri dallo studente adolescente, in uscita dall’adolescenza e della scuola. Il membro esterno, a seconda del suo carattere, si sentirà, nel migliore dei casi, un insegnante che cerca di essere obiettivo, nel peggiore, l’ultimo sacerdote destinato a salvare la sacra LETTERATURA dall’apocalisse, anche a prezzo di sacrifici umani che il presidente di commissione, a sua volta sacerdote più o meno scettico dell’ufficialità dello Stato, cercherà di sventare. Il commissario sacerdote sarà sempre pronto a sdegnarsi per l’esiguo numero di canti del Paradiso fatti, per l’assenza di A Silvia o Digitale purpurea, o perché Ungaretti ha meno spazio di Montale. I contenuti dell’esame sono costituiti dalla letteratura italiana ottonovecentesca, secondo un canone più o meno vigente e rigido, al di là delle libertà apparenti e vigilate delle indicazioni nazionali sugli obiettivi specifici di apprendimento.
La parola che l’insegnante deve bandire nel corso dell’ultimo anno è “pessimismo”, un passe-partout buono per tutte le interrogazioni: Leopardi manco a dirlo, Verga e la catastrofe della fiumana del progresso, Pascoli e il male del mondo, da fuggire nel nido, stretti stretti con i propri morti, Gozzano, i crepuscolari, e poi Pirandello, Svevo, Tozzi… Persino Manzoni, che per fortuna è stato finalmente retrocesso al penultimo anno, è pessimista e il suo romanzo senza idillio (che dire poi delle tragedie: “fuor della vita è il termine del lungo tuo martir”). Si salva giusto D’Annunzio, e Saba su un fronte opposto (a tratti anche Ungaretti). A sceglier con oculatezza nel secondo Novecento si può tirar fuori qualche altra eccezione di pregio, per il resto il programma di italiano sembra una lezione di stoicismo (un tempo si sarebbe detto virile), un invito a riconoscere la vanità di qualsiasi desiderio, a guardare a ciglio asciutto le ceneri.
Perché si insegna tutto questo indistintamente a tutti gli adolescenti d’Italia, dalle Alpi a Lampedusa, a chi è destinato a partecipare in maniera profondamente diversa al banchetto della vita? Che debbono pensare di questo fiume di pessimismo e morte da cui vengono investiti, i beneficiari del canone costruito nelle università, beneficiari che sono nel pieno della loro contraddittoria vitalità? Certo il legislatore, con gli specialisti che lo affiancavano, non si deve esser posto problemi di ricezione, non ha fatto l’identikit dell’adolescente che studia, convinto che studiare la tradizione sia di per sé cosa buona e giusta; preoccupato che il canone prenda vita nelle scuole (unica sua condizione di esistenza).
La rigidità di quel canone viene (generalmente e fortunatamente) stemperata dagli insegnanti con opportune integrazioni e modifiche, a seconda dei ragazzi che si trovano davanti, ma la sua ossatura resiste un po’ ovunque, al di là delle difficoltà di insegnamento (linguistiche e non solo), e, per inciso, che tutti si trovino a conoscere qualcosa in comune, non proveniente dal mercato, è un risultato comunque da non sottovalutare.
La resistenza di questa ossatura ha creato un paradosso funzionale, per cui nell’istituzione a cui per prima e più della famiglia viene affidato il compito di abituare gli individui a pensarsi parte di una comunità, ad accettare la propria dimensione sociale e confrontarsi con gli altri, contenendo la fame di affermazione che caratterizza sempre più i nostri fragili ego (e la conseguente sofferenza per la mancata affermazione), proprio in quella istituzione, una parte fondamentale della formazione viene affidata allo studio di scrittori che in realtà sono “oppositori radicali” della società, Leopardi in testa. Tutti autori che nella migliore delle ipotesi dicono che questo mondo fa schifo così come è, e nella peggiore dicono che contro questo schifo non si può far niente, tutto sarebbe da abbattere e ricostruire.
Il paradosso (del resto la stessa sopravvivenza della scuola è qualcosa ogni giorno più paradossale) spinge a dubitare e riflettere, cosa non da poco, tenuto conto che gran parte di noi non affronta la vita con strumenti di analisi e comprensione più raffinati di quelli che riesce a mettere a punto nel tempo del suo apprendimento scolastico. Ma la spinta allo spirito critico ci può essere o non essere, a seconda di come quegli autori vengono insegnati. Se si mira solo ai valori estetici e formali, non passerà nulla di tutto questo (neanche gli stessi valori formali: troppo lontani dal presente e dalla sua velocità, troppo noiosi e faticosi). Ma non è detto che soffermarsi su poetiche e visioni del mondo basti. Tutto dipende dal punto da cui vengono presentati quegli autori. Chi ne parla non può essere una persona arresa, un maestro di rinuncia, o un falso cinico che disprezza un mondo che in realtà vorrebbe comprare anche lui; tutto dipende dal senso da dare al negativo e al pessimismoche sono il filo rosso della tradizione letteraria italiana (e non solo).
Il nostro io sociale è una costruzione; l’apparenza è spesso falsificatoria; la libertà è stritolata da un insieme di cause economiche, psicologiche e sociali incontrollabili; l’uomo è animato da volontà di dominio e il potere è sempre malvagio; quanto piace al mondo è breve sogno: il mondo immaginato da molti scrittori ormai canonizzati può essere banalizzato in questi termini. A un adolescente che ha davanti a sé tutte le potenzialità della propria vita, le visioni che si ricavano dalla letteratura italiana possono sembrare solo atti di resa e ingiustificato pessimismo.
Al di là dell’educazione estetica e linguistica allora, è necessario che chi insegna spieghi che quel negativo è messa in questione dell’esistente e non resa. Solo così la letteratura insegnata a scuola può evitare di essere un’archeologia di prospettive desuete, sconfitte dal presente e dalle convinzioni dominanti, riuscendo ad essere invece la genealogia di un pensiero più consapevole e giusto. Franceso Orlando teorizzava che la letteratura è una grande formazione di compromesso, che svela i desideri che vuole nascondere, i desideri cristallizzati al suo interno. Se ha un senso studiarla a scuola, è perché l’enciclopedia di desideri che le è stata affidata nei secoli può servire ad educare e mettere in guardia i desideri di oggi e di domani.