Ma la scuola statale è ancora pubblica?
Soltanto la scuola offriva a Jacques e a Pierre queste gioie. E, probabilmente, amavano in essa con passione ciò che non trovavano a casa loro, dove povertà e ignoranza rendevano la vita più dura, più tetra, come chiusa in se stessa; la miseria è una fortezza senza ponte levatoio.
Albert Camus, Il primo uomo
Albert Camus dedicò un ampio spazio del romanzo autobiografico Il primo uomo al ricordo dell’esperienza scolastica. Sono davvero molto intense le pagine in cui descrive la gioia che ogni mattina spingeva Jacques (così Camus scelse di chiamare se stesso nel libro) e il suo amico Pierre verso la scuola lungo un tragitto vissuto come una festosa scorribanda, e quelle in cui racconta le giornate passate in classe, dove in un clima di ferrea disciplina ma anche di grande rispetto i ragazzi trascorrevano con il maestro – il signor Bernard – un tempo denso di stimoli, emozioni e scoperte.
Il manoscritto è arrivato fino a noi incompleto e pieno di annotazioni, perché Camus morì in un incidente stradale prima di averne terminato la revisione. A margine di quelle pagine sulla scuola così felici, costruite intorno a una memoria ancora viva, entusiasta e riconoscente, l’autore scrisse questo appunto: “Allungare e fare l’esaltazione della scuola laica”. Scuola laica stava per scuola pubblica, nel caso specifico la scuola dello stato francese in terra coloniale che offrì a Camus – grazie a una borsa di studio – la possibilità di frequentare successivamente anche le scuole superiori, la scuola che permise a un ragazzo poverissimo, orfano di padre, allevato da due donne analfabete (la madre e la nonna) e cresciuto in un ambiente sociale miserrimo, di diventare uno degli intellettuali più importanti del ‘900. Ma non si tratta di un episodio edificante di “mobilità sociale”. Non è certo un caso che Camus abbia usato la metafora del ponte levatoio, una metafora che esalta la dimensione orizzontale dell’incontro, non quella verticale ed elitaria dell’ascesa individuale. Non si tratta neppure di un esempio da ascrivere fra i successi dell’«uguaglianza delle opportunità», ambigua locuzione con la quale i moderni teorici della disuguaglianza pretendono di rendere quest’ultima più accettabile attribuendo ai singoli l’esclusiva responsabilità del loro insuccesso sociale. (Nel libro L’avvento della meritocrazia, con il quale nel 1958 inventò e sottopose a critica serrata un concetto destinato a una vasta diffusione, Michael Young sosteneva con icastica ironia che uguaglianza delle opportunità significa niente altro che “uguaglianza delle opportunità di essere ineguali”).
Nulla di tutto questo. Quella narrata da Camus è una storia di cittadinanza. È la descrizione condotta in prima persona della concretezza di una condizione sociale fondata sull’uguaglianza. Ed è anche una testimonianza sulla possibilità che la scuola pubblica possa rappresentare lo strumento fondamentale per l’emancipazione sociale.
Lezioni dal passato
La scuola statale è ancora un ponte levatoio? È una domanda legittima, una questione sui cui riflettere con particolare attenzione di fronte agli esiti di un lungo e non ancora concluso processo di ristrutturazione del sistema scolastico che ha investito in forme diverse tutta l’Europa e in modo particolarmente aggressivo il nostro paese. Si tratta, in definitiva, di tornare a ragionare sul rapporto tra scuola pubblica e scuola statale. Non è un ragionamento sulla natura giuridica della scuola, ma sulla sua essenza civile, sul significato del concetto di pubblico e sulle possibilità di tradurlo in un sistema coerente di azioni politiche e pratiche educative. È una riflessione che va condotta intrecciando l’analisi storica e quella del presente, per evitare il rischio sempre incombente di generalizzazioni e mitizzazioni. La scuola di Camus, per intenderci, non è e non è mai stata un dato di fatto, il frutto di un’azione illuminata dello Stato, ma un campo di possibilità attraversato da contraddizioni e conflitti.
Questo aspetto meriterebbe una trattazione molto ampia, ma nell’economia di questo articolo sarà sufficiente richiamare alla memoria alcune esperienze maturate in Italia negli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui affondano le radici gran parte delle acquisizioni metodologiche, organizzative e didattiche alla base delle più fertili innovazioni del sistema scolastico. Ne propongo un elenco riprendendolo dalla prefazione di Goffredo Fofi all’antologia di scritti di Lamberto Borghi (sul quale torneremo più avanti) intitolata La città e la scuola (Elèuthera). La lista comprende: il Centro educativo italo-svizzero fondato a Rimini da Margherita Zoebeli; la rivista fiorentina “Scuola e città” (diretta da Ernesto Codignola e poi da Borghi) e l’omonima scuola elementare sperimentale; il Movimento di cooperazione educativa (Mce) e i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva; l’associazione montessoriana per la formazione delle maestre d’asilo animata da Grazia Fresco; il Centro di educazione professionale per assistenti sociali di Roma guidato da Angela Zucconi e Maria Calogero; l’Unione nazionale di lotta contro l’analfabetismo diretta per un lungo periodo da Anna Lorenzetto; le esperienze raccolte intorno ad Aldo Capitini e Danilo Dolci tra l’Umbria, la Sardegna e la Sicilia, e quelle promosse da Adriano Olivetti a Ivrea e in Abruzzo, Molise e Basilicata; e infine le esperienze condotte da personaggi “eretici” all’interno della Chiesa cattolica: don Lorenzo Milani e don Zeno Saltini, fra gli altri (ma anche David Maria Turoldo e Camillo De Piaz con l’intensa attività culturale promossa a Milano dalla “Corsia dei Servi”). Si tratta di esperienze che nascono all’esterno della scuola statale, oppure da gruppi di insegnanti auto-organizzati – è il caso del Mce – impegnati a sperimentare pratiche educative in grado di modificare l’istituzione scolastica. Sono estremamente ricche dal punto di vista pedagogico, differenziate e pluraliste per quanto riguarda i punti di riferimento culturali, diffuse in tutto il paese e in grado di svilupparsi in contesti sociali differenti. Si muovono intorno o al di fuori delle istituzioni, ma interpretano meglio delle istituzioni lo spirito pubblico dell’educazione, perché la loro azione nasce nel fervore della ricerca e nell’inquietudine (anche politica) di una società attraversata da intense trasformazioni e da aspri conflitti, una ricerca e un’inquietudine alimentate anche dalla constatazione che la scuola statale – cui la Costituzione attribuisce la funzione di garantire l’uguaglianza nell’accesso al sapere – è in quegli anni un luogo di selezione. La rappresentazione più incisiva di quel tradimento verrà, alla fine degli anni sessanta, dalla Lettera a una professoressa scritta collettivamente nella Scuola di Barbiana. La scuola voluta da Don Milani è continuamente citata da alcuni anni a questa parte, il più delle volte a sproposito. La sua memoria è stata usurpata e usata in modo strumentale per coprire sotto un manto di retorica progressista a buon mercato tutti i cedimenti verso prospettive del tutto estranee a quell’esperimento educativo. La Lettera denunciava innanzitutto che i bambini accolti a Barbiana erano gli stessi che la scuola statale aveva prima discriminato e poi espulso. La loro storia stava a testimoniare la dismissione da parte dello Stato delle proprie funzioni pubbliche.
Più o meno negli stessi anni, a Bologna, Bruno Ciari e i suoi collaboratori inventarono la scuola a tempo pieno: il fortino della scuola statale veniva violato introducendo al suo interno l’esperienza maturata dagli insegnanti comunali nel doposcuola gestito dall’amministrazione locale. Questa vicenda è nota, anche se forse si tende a dimenticare o a sottovalutare proprio il fatto che l’idea del tempo pieno nacque al di fuori della scuola statale, non al suo interno, e che alla sua origine non c’era solo l’intuizione pedagogica di Ciari, ma anche il suo lavoro nel territorio e le alleanze sociali che era stato in grado di costruire. Meno noto è il risvolto antistatalista che Ciari avrebbe voluto imprimere alle politiche scolastiche. In un suo intervento del 1969 si spinse fino a candidare il Comune “ad assumere un ruolo dirigente per quanto riguarda tutta la scuola dell’obbligo” perché il Comune aveva le potenzialità per “essere più aderente ai bisogni dei cittadini, più sensibile, più efficiente del potere centralizzato”. Ciari era un uomo delle istituzioni e al loro interno spese per intero la sua vita professionale e politica, ma la sua esperienza lo aveva portato a credere profondamente nel valore dell’autonomia e immaginava che – per applicare questo principio alla scuola – fosse necessario liberarsi definitivamente del centralismo, della burocrazia e dell’autoritarismo connaturati al governo statale delle istituzioni scolastiche. Non possiamo sapere come sarebbe andata a finire: l’esperienza bolognese di Ciari, bruscamente interrotta dalla sua morte prematura, fu troppo breve perché fosse possibile aprire anche quel fronte. Certamente quel tempo sarebbe stato fertile per una sperimentazione del genere: l’ampia mobilitazione sociale intorno ai temi della scuola e la sensibilità dell’amministrazione comunale a rinnovare gli istituti educativi nel segno di una partecipazione reale dell’intera comunità al loro governo avrebbero garantito un terreno di azione politica inimmaginabile ai nostri giorni, segnati da un individualismo che deprime qualsiasi idea di autogoverno e dalla metamorfosi delle amministrazioni locali, minate dall’esterno – perché lo Stato le ha defraudate dei loro poteri – e dall’interno, perché dominate da un ceto politico incapace. Le posizioni di Ciari stanno a testimoniare un fermento antistatalista che attraversava anche i settori più istituzionalizzati del mondo scolastico e addirittura il Partito comunista, la cui ideologia era poco permeabile a simili istanze.
In sostanza, la scuola statale è stata in grado di rinnovare se stessa e di interpretare – sia pure in modo intermittente e imperfetto – il proprio ruolo pubblico per le sollecitazioni provenienti dall’esterno, o da una minoranza dei suoi insegnanti che all’esterno cercava stimoli, dibattito, cooperazione e alleanze sociali. L’insieme di quelle esperienze mostra anche che – nei trent’anni successivi alla guerra – l’azione pedagogica non veniva intrapresa solo da “esperti”, non viveva all’interno di un recinto specialistico, ma era intrecciata con i fermenti sociali del tempo e quindi era in grado di coinvolgere in prima persona i genitori, i cittadini, i lavoratori che avevano compreso il ruolo che la scuola avrebbe potuto giocare per la loro emancipazione sociale: avevano compreso – in sostanza – il ruolo politico dell’istruzione.
L’istruzione è un terreno sul quale si riflette il conflitto sociale e, a sua volta, produce conflitto. Nelle fasi in cui questo è stato più acuto, la dimensione pubblica e la dimensione statale sono state al centro di una tensione che le spingeva l’una in direzione dell’altra, verso una possibile sovrapposizione. Quando il conflitto si indebolisce e prevalgono (come ai nostri giorni) le spinte al conformismo, le due dimensioni tornano ad essere lontane fra loro. Si tratta quindi di una situazione che non è mai identica a se stessa e che deriva dalla mutevolezza delle dinamiche sociali, non da un principio normativo che – di per sé – non garantisce affatto la corrispondenza tra la scuola statale e le sue finalità pubbliche, neanche quando tale principio viene sancito nella carta costituzionale.
Tuttavia l’esito sempre discontinuo di questa tensione non potrà mai essere una coincidenza completa. Le ragioni sono state illustrate in modo solido ed esaustivo da Lamberto Borghi in uno studio fondamentale che dovrebbe essere riletto attentamente: Educazione e autorità nell’Italia moderna, pubblicato da La Nuova Italia nel 1951. Nella sua ricostruzione storica di lungo periodo che prende le mosse dal Risorgimento, Borghi mostra come le tendenze centralizzatrici che diventarono maggioritarie sin dai primi anni dopo l’Unità d’Italia contenessero (per loro stessa natura) forme di autoritarismo che avrebbero minato l’istruzione pubblica nei suoi elementi costitutivi: la libertà di insegnamento, la creatività e l’autonomia nell’apprendimento, l’autogoverno nell’organizzazione didattica. Anche i socialisti caddero presto nell’errore di individuare nello Stato il massimo strumento di garanzia per l’estensione del diritto all’istruzione e per la lotta all’analfabetismo: avevano ragione – sostiene Borghi – a rivendicare il fatto che l’istruzione riguardasse la società nel suo complesso, ma commettevano l’errore di confondere la società con lo Stato, cioè con un organismo uniforme, omogeneo e compatto, il cui sistema di istruzione centralizzato avrebbe inevitabilmente soffocato le forme di spontaneità individuale e sociale che rappresentavano l’essenza stessa del socialismo e di ogni ipotesi di mutamento finalizzato all’emancipazione delle classi subalterne.
L’esperienza della dittatura sollecitò Borghi a scrivere considerazioni dense di preoccupazione sul rischio che la democrazia potesse nascere e svilupparsi incorporando nelle nuove istituzioni democratiche i germi autoritari che allignarono nello stato unitario e poi deflagrarono in quello fascista. Perché il nuovo stato non si traducesse in un mutamento puramente esteriore degli istituti di governo – sosteneva Borghi – era necessario mettere in crisi il principio stesso di autorità e le forme di vita civile basate sulla costrizione. E poiché credeva in uno stretto legame tra il mutamento della scuola e il progresso sociale, Borghi affermava che il rinnovamento educativo poteva derivare esclusivamente dalla “smobilitazione del potere centrale e [dall’]assunzione di funzioni sempre più vaste nella gestione della cosa pubblica da parte della società”, e che ciò sarebbe potuto avvenire solo attraverso una “forte iniziativa periferica”. Sembra di sentire l’eco delle sue parole in quelle di Bruno Ciari: nonostante la differente formazione, è evidente una consonanza etica, che in fin dei conti è anche interamente politica. Una consonanza che si rintraccia anche nelle conclusioni dell’analisi di Borghi, anche se dalle sue parole traspare un approccio più radicale:
“La scuola pubblica, per adeguarsi all’esigenza di una società aperta, deve essere nelle mani dei cittadini e degli insegnanti, e non in quelle di una burocrazia centrale irresponsabile di fronte al pubblico. La distinzione fra «scuola pubblica» e «scuola di Stato» è perciò fondamentale”.
Ambiguità del presente
Sarebbe molto semplice (e, per certi aspetti, anche molto consolatorio) sostenere che l’attacco sistematico alla scuola compiuto tra il mandato del ministro Moratti e quello del ministro Gelmini sia avvenuto esclusivamente sotto il segno di forze politiche di stampo neoliberista culturalmente estranee al concetto di pubblico. Ma questa constatazione è superficiale e aggira il fatto che quelle forze hanno agito all’interno del quadro statale e da esso hanno tratto forza. Anche il progetto “La buona scuola” voluto da Matteo Renzi – che riprende e porta alle estreme conseguenze molte delle scelte compiute dai precedenti governi di centro-destra ed ha come stella polare l’ideologia neoliberista riassunta nella retorica del merito – è guidato da da una visione iper-statalista. Il sistema di governo e di valutazione delle istituzioni scolastiche è infatti organizzato secondo un impianto estremamente centralizzato che seppellisce in modo definitivo qualsiasi forma di autonomia.
La tendenza ad attribuire all’esterno le ragioni del disfacimento del sistema dell’istruzione pubblica asseconda una sterile propensione all’autoassoluzione e occulta la misura della pervasività del modello statale. Quest’ultimo aspetto può essere meglio indagato rivolgendo lo sguardo verso coloro che vivono e lavorano nella scuola. Le reazioni ai processi di ristrutturazione che hanno investito il mondo della scuola nell’ultimo quindicennio sono riconducibili a movimenti minoritari di insegnanti e genitori concentrati in prevalenza nelle scuole elementari, non a caso il segmento del sistema di istruzione dove la sperimentazione da un lato e l’osmosi con i processi e i conflitti sociali dall’altro sono state più estese e profonde. Al di fuori di queste resistenze, la spoliazione di risorse e la delegittimazione sociale sono state subite con rassegnazione e acquiescenza. L’accettazione passiva è stata ancora più marcata per quanto riguarda il nuovo sistema di valutazione standardizzato che sta mutando anche la qualità della didattica, sospinta verso la declassazione dei saperi non misurabili e snaturata da un ricorso sempre più accentuato all’addestramento ai test. Anche se la critica a questa mutazione è più diffusa e articolata che in passato, non rappresenta certo un patrimonio condiviso. Il conformismo dominante intorno a questo argomento cruciale è testimoniato anche dal ritorno alla valutazione numerica nella scuola dell’obbligo, imposto per decreto-legge nel 2008 e accettato senza alcuna resistenza – anzi, molto spesso con autentico sollievo, e in questo caso anche dalla maggioranza degli insegnanti della scuola elementare – nonostante riesumasse una modalità di valutazione superata da più di trent’anni.
La scuola statale, in definitiva, non è stata in grado di produrre gli anticorpi che avrebbero potuto (e dovuto) preservare la sua funzione pubblica. I meccanismi di selezione dei docenti elaborati dal sistema statale – dove la valutazione della qualità è un elemento puramente casuale – hanno determinato l’ingresso di personale culturalmente impreparato a interpretare e difendere quella funzione, e questa deprivazione – particolarmente acuta a partire dagli anni ottanta – si è saldata con la caduta della conflittualità sociale che nei primi tre decenni del periodo repubblicano aveva permesso che le idee e le rivendicazioni provenienti dal corpo sociale penetrassero nel mondo della scuola e aveva impedito che il sistema statale dell’istruzione agisse come istituzione separata e autoreferenziale.
Per mettere a fuoco gli esiti di questa ristrutturazione spostiamo l’attenzione su un caso recente che ci riporta a Bologna, un caso che ci aiuta meglio di altri a misurare la distanza culturale – e non solo temporale – dall’ambiente che produsse la scuola a tempo pieno. È nel democratico capoluogo emiliano che poco più di un anno fa, in una scuola media nota per le sue azioni a favore dei figli degli immigrati, fu deciso di attivare una classe riservata esclusivamente agli stranieri. Nelle intenzioni dei promotori, lo scopo principale sarebbe stato quello di consentire l’acquisizione di una piena padronanza della lingua italiana, e per questo era stata definita una “classe-ponte”. Ancora la metafora del ponte. Il divario rispetto all’uso che ne aveva fatto Camus è una spia della corruzione del linguaggio che domina il discorso pubblico ai nostri giorni, dove le parole vengono usate con disinvoltura attribuendo loro un significato che è spesso l’opposto di quello originario, e vengono mascherate per rendere appetibile un contenuto che – altrimenti – risulterebbe alquanto indigesto. Si può quindi parlare di ponti mentre si costruiscono muri. Non a caso le “classi-ponte” sono state un cavallo di battaglia della Lega Nord, che nel 2008 riuscì anche a fare approvare alla Camera una mozione sul tema. All’ultimo momento la denominazione fu mutata in “classi di inserimento”, per accentuare ipocritamente la funzione di “integrazione”, ma il loro vero scopo – quello della segregazione – era esplicito nel contenuto e del tutto coerente con la cultura politica degli ideatori. Si tratta – infatti – di classi differenziali, nel senso letterale del termine, cioè costruite sulla base di una differenza. Nella scuola media erano state abolite definitivamente nel 1977. Prima di allora, l’ultima regolamentazione giuridica risaliva all’ottima legge che, nel 1962, istituì la scuola media unica superando canalizzazioni scolastiche precoci che avevano lo scopo di perpetuare le disuguaglianze sociali. Ancora una contraddizione della scuola statale, spinta dai movimenti sociali a mutare la propria natura discriminatoria, ma ugualmente arroccata nella difesa di eredità del passato (in questo caso il passato era il regime fascista). In quella legge, accanto alle classi differenziali propriamente dette – destinate alla categoria imprecisata e quindi potenzialmente assai larga degli “alunni disadatti scolastici” – venivano istituite le cosiddette “classi di aggiornamento”, destinate ad accogliere nelle classi terze tutti i respinti all’esame finale e – all’inizio del percorso scolastico – “gli alunni bisognosi di particolari cure per frequentare con profitto la prima classe di scuola media”. Di cosa si tratta, in fondo, se non di quelle che oggi – aggiornata la categoria dei “bisognosi” – verrebbero definite “classi-ponte”? Poco importa se le motivazioni dei docenti bolognesi che ne hanno promosso una nuova versione siano ben diverse. Il fatto che oggi le “classi-ponte” vengano rivendicate da insegnanti sinceramente impegnati sul fronte dell’integrazione non mette in dubbio la loro buona fede, ma illumina sull’estrema confusione culturale in cui viviamo, talmente profonda da spingere a percepire come integrative politiche che nascono con l’intento di escludere, e a riesumare istituti che la pedagogia progressista aveva combattuto in passato fino ad ottenerne la cancellazione dall’ordinamento giuridico.
Potremmo limitarci a classificare questo episodio come un caso a parte, un incidente. Sarebbe ingeneroso non ricordare come la scuola statale abbia svolto un ruolo cruciale nell’accoglienza dei ragazzi stranieri, dimenticare l’importanza della sua azione nel contrastare la xenofobia che per un lungo periodo della storia recente del nostro paese è stata rafforzata dall’insediamento al governo di una forza politica che si richiamava esplicitamente a una tale ideologia. Ma qual è, oggi, la scuola statale? È quella fatta dal lavoro di tanti insegnanti sparsi nella penisola che si sono battuti e continuano a battersi per un sistema basato sull’uguaglianza, spesso senza risorse, ostacolati e ignorati dalla burocrazia che dovrebbe aiutarli? Oppure è quella che autorizza i suoi solerti funzionari a legittimare la “classe-ponte” bolognese, dimenticando che la legge che dovrebbero far osservare la esclude e che i documenti ministeriali sull’integrazione di cui dovrebbero garantire l’applicazione stabiliscono che deve essere evitata la costruzione di luoghi di apprendimento separati?
È in questa contraddizione non risolta e forse non risolvibile che sta il nocciolo del problema, un problema oggi reso più acuto dal fatto che le disuguaglianze sociali stanno crescendo e la scuola statale non sembra in grado di svolgere pienamente il suo ruolo pubblico, che è anche quello di contribuire a rimuoverle. Anzi, il suo spirito pubblico è indebolito al punto da tollerare che le disuguaglianze si riproducano al suo interno. Quante “classi-ponte” esistono oggi in Italia? E quante le situazioni di emarginazione di bambini e ragazzi “bisognosi” ai quali non viene realmente garantito un percorso educativo uguale a quello di tutti gli altri? Sempre più spesso gli organi di informazione danno notizia di episodi di esclusione: si viene cacciati dalla mensa se la famiglia non può pagare il vitto, si viene esclusi da alcune attività didattiche se i genitori non sono in grado di versare quello che con sfacciata ipocrisia viene chiamato “contributo volontario”. Per ciascuno di questi episodi su cui i giornalisti si avventano a caccia del titolo lacrimevole ce ne sono molti altri che nessuno si fa carico di documentare perché la vita quotidiana della scuola interessa ben poco. Eppure è lì che bisogna guardare. Lì nasce la domanda che dà il titolo a questo articolo. Una domanda provocatoria, ma non una provocazione gratuita (non tutte le provocazioni lo sono). È piuttosto un invito a farci carico di interrogativi che spesso la cultura “progressista” – la cultura che ha voluto e difeso la scuola pubblica, gratuita, per tutti – tende spesso ad eludere. Si tratta di un atteggiamento difensivo comprensibile, ma sterile. Deriva dalla constatazione che tutte le recenti “riforme” della scuola statale portano invariabilmente il segno di un attacco all’idea di uguaglianza sociale. Tuttavia non bisogna confondere le domande con le risposte. Le domande che mettono in discussione la funzione, l’organizzazione e la qualità della scuola statale sono tutte legittime e urgenti. Le risposte che oggi sembrano vincenti e intorno alle quali sono state costruite politiche distruttive non possono essere respinte rimuovendo le domande che sono alla loro base. Si tratta, invece, di trovare risposte diverse. L’esito finale di questa rimozione sarebbe – inevitabilmente – l’arroccamento a difesa di un concetto astratto fondato su un equivoco: l’identificazione totale tra scuola statale e scuola pubblica. È, invece, in quella zona opaca in cui questa sovrapposizione non è completa che risiedono sia le contraddizioni che rendono improponibile una difesa a priori della prima, sia le potenzialità per rifondare la seconda.