Lotta civile e disabilità, un documentario senza l’Oscar
Crip Camp, disabilità rivoluzionarie (di N. Newnham e J. LeBrecht, USA 2020, 1.h 48), prodotto dai coniugi Barack e Michelle Obama è un documentario sulle battaglie per i diritti civili condotte negli Stati Uniti da persone con disabilità negli anni ’70 e ’80.
Non ha vinto l’Oscar a cui era candidato (2021), ma questa stessa nomina, il premio del pubblico ottenuto al Sundance film festival (2020) e la sua distribuzione su una nota piattaforma ne fanno un film con l’alta possibilità di lasciare il segno. Sui social network ha già accolto contenuti entusiastici. È appunto dei contenuti, del segno che potrebbe lasciare e dell’immaginario che propone e conforta che è necessario discutere. Da sempre, infatti, il cinema mette in scena la disabilità: è un soggetto che torna ciclicamente e da Quasi amici in poi è certamente molto diffuso negli ultimi decenni. In questo caso, trovarci di fronte a un film che intende documentare la realtà, uscendo cioè dalla finzione e da un eterogeneo uso cinematografico della disabilità spesso (anche se non sempre) emotivo, strumentale, genericamente perturbante, invita a confrontarsi su come quella realtà venga raccontata.
Crip Camp è realizzato a partire da frammenti di pellicola raccolti nel periodo che racconta. Le immagini di repertorio sono intervallate con le voci attuali di alcuni protagonisti di quelle vicende. Il campo a cui ci si riferisce nel titolo è Camp Jened, nello stato di New York, un campo estivo per giovani disabili avviato nel 1951. Nei primi anni ’70 è frequentato dall’allora giovane LeBrecht (uno dei due registi) che ha raccolto il materiale audiovisivo e ha proposto la realizzazione del documentario. Le immagini di quegli anni ci mostrano l’occasione di liberazione rappresentata da questa esperienza di vacanza per quei giovani con disabilità: la possibilità di esprimersi, di stare al di fuori della famiglia e dei luoghi della cura e della riabilitazione, la necessità di stringere relazioni sentimentali, di amicizia, la scoperta della sessualità, la possibilità di ricevere forme di assistenza da coetanei e altri giovani.
La partecipazione e l’entusiasmo che emergono dalle immagini sono in aperto contrasto con le parole di questi stessi giovani a proposito dei pregiudizi, dell’infantilizzazione e delle forme di stigmatizzazione e reclusione di cui sono costantemente vittime. Le origini e le matrici di Camp Jened non sono molto più chiare. In questo documentario ne abbiamo un’immagine de-istituzionalizzata, molto simile alle rappresentazioni politico-sociali di liberazione che ci mostra molta iconografia di quegli anni. In effetti, il materiale audiovisivo e l’esperienza personale di LeBrecht e di altri giovani ci mostrano quanto l’esperienza di Camp Jened abbia rappresentato una svolta, facendo nascere in loro il bisogno di poter vivere quelle dimensioni estive anche per il resto dell’anno. Da qui nasce la necessità politica e sociale di lottare per i diritti delle persone con disabilità.
Si sviluppa da qui la seconda parte del documentario centrata sulla dura lotta che è riuscita a ottenere la legge 504 (1977) e l’American with disabilities Act (1990). Queste due misure sono decisive per le persone con disabilità negli Stati Uniti: sanciscono lo sviluppo di servizi guidati dal principio che proibisce la discriminazione delle persone con disabilità e garantisce pari opportunità. Come ricorda questo stesso documentario, battaglie di questo tipo, nel solco dei movimenti per i diritti civili, erano cominciate negli anni ’60 nel campus dell’Università di Berkeley: alcuni studenti con disabilità avevano rivendicato e ottenuto il diritto di partecipare alla vita universitaria, come tutti gli altri studenti, con i supporti e i sostegni necessari. Questo movimento aveva inaugurato il movimento per la vita indipendente, che rivendica il diritto di scegliere sulla propria vita, senza che la condizione di disabilità sia occasione per essere destinati – da altri – a istituti e luoghi per disabili. Qualche anno dopo (1972) nasce la prima agenzia alla vita indipendente che favorisce forme di sostegno, di assistenza, consulenza alla pari per persone con disabilità che intendono appropriarsi della propria esistenza, anche in presenza di forme di disabilità complesse.
Questo scenario fa da sottofondo al documentario che mostra le manifestazioni di piazza, i sit-in di protesta, le occupazioni di palazzi pubblici da parte del crescente numero di persone con disabilità che ha l’intento politico-sociale di diffondere a tutto il paese e con norme certe forme di partecipazione e di assistenza non segreganti. Le vicende e le tappe di questo movimento per i diritti civili sono seguite in particolare seguendo la figura di Judith Heumann, leader politico e figura protagonista del documentario, destinata ad assumere alte cariche politiche in materia di disabilità negli Stati Uniti (amministrazione Clinton) e anche alla Banca mondiale. J. Heumann partecipa peraltro al primo incontro italiano sui temi della vita indipendente (Firenze, 1987).
Ottenuta la straordinaria e battagliata vittoria politica, il documentario si conclude sul presente: la fine di Camp Jened chiuso nel 2009, le relazioni sentimentali di alcuni protagonisti, nate in quelle vacanze e proseguite nel corso della lotta, la carriera di LeBrecht come fonico. Anche in precedenza, intervallate ai momenti di lotta, era stato proposto il vissuto di alcuni di questi militanti, tra le più interessanti quella di Denise Jaconbson che racconta come si è speccializzata in sessuologia dopo che la sua sessualità è stata ampiamente negata in quanto persona con disabilità.
Crip Camp è un film efficace, con numerosi pregi, tra cui quello di mostrare, anche alle giovani generazioni, un capitolo di storia politica poco nota e di ricordarci che il cambiamento sociale, anche in fatto di disabilità, è esito anche di lotte, aspirazioni, fatiche, conflittualità ben lontane dalla retorica inclusiva, dalle rivendicazioni assistenzialistiche e dalla finzione ecumenica che vorrebbe cancellare con il solo slogan fintamente interclassista “non lasciare indietro nessuno”, una lunga storia e un presente di soprusi, povertà, dominio. Del resto, tra gli articoli italiani dedicati al documentario si è sottolineata la dissonanza tra quel passato raccontato e l’epoca attuale, pur all’interno di un film “convenzionale, ma miracolosamente poco sentimentale e accondiscendente” (“il manifesto”, 25.1.2020). Si è anche detto anche quanto il documentario metta in luce l’ipocrisia di “formule apparentemente tolleranti e democratiche come (l’orrenda) ‘separati ma uguali’ [… come] non c’è nulla di più falso e alla fine efficace e persino dannoso del paternalismo dolciastro col quale si considerano persone che non consideriamo in fondo persone” (comune-info.net 31.3.2020).
È proprio questo il problema che Crip Camp non riesce ad affrontare: la complessità delle dimensioni personali e sociali di cui è fatto il mondo che identifichiamo con il concetto di disabilità. Quali risposte sociali e politiche per persone in situazioni complesse? Quali sono i loro vissuti ? Di quali criteri abbiamo bisogno per considerarle fino in fondo persone? Sono naturalmente questioni complesse che un documentario non può risolvere, ma che invece può decidere di affrontare o meno. Il fatto che alcune di queste dimensioni vengano appunto eluse, travisate ne fanno un’occasione parziale che semplifica la realtà e conferma, dietro a una narrazione ben fatta, senza buchi o scivoloni, disposizioni e interpretazioni che non sfidano la stigmatizzante e la inferiorizzante lettura della disabilità attiva nel senso comune. Un documentario (e anche un film) può invece proporre, nel suo raccontare la disabilità, schemi e mappe alternative al senso comune.
Nella prima parte del documentario è molto significativo il passaggio in cui una ragazza con spasticità, dal difficile eloquio, esprime sé stessa a Crip Camp: abbatte così l’immagine fortemente sminuita che si affibbia sempre a persone con queste menomazioni. Propone pratiche di partecipazione e di espressione di sé decisive. Non dovrebbe forse essere questa una pratica da adottare sempre? Dare parola anche a chi fatica a esprimersi, ad autorappresentarsi, ascoltare il suo punto di vista su di sé, sul mondo: questo è un modo diverso di considerare le persone, di prevedere la loro partecipazione. Eppure, al di fuori di alcune persone con paralisi cerebrale, non ci sono tracce di individui con difficoltà di espressione di sé (con disabilità intellettive e psichiche) a cui si sarebbe potuto dar voce rompendo, una volta di più, il silenzio a cui sono spesso relegate queste persone dalle modalità comunicative ed espressive poco ordinarie. Non erano presenti in quei movimenti, non erano un’istanza, non era possibile fargli prendere voce? Tutt’al più che di queste persone, che sono maggioritarie nel mondo della disabilità, la stessa ricerca sociale e accademica si occupa poco. Non avrebbe potuto farlo un documentario?
Una dinamica simile si osserva nella seconda parte: un gruppo di persone impossibilitate a camminare si trascina sulla scalinata di un palazzo di Washington dove è in corso un sit-in a margine di trattativa politica sulle misure che il movimento delle persone con disabilità intende sostenere. È una scena suggestiva, emozionante. Ma nello stesso tempo, questa immagine autenticamente prometeica, non suscita anche l’effetto di ricostruire quella gerarchia, quella verticalità per cui chi ha disabilità è un essere inferiore, specialmente se non ha alcuna possibilità di salire in qualche modo le scale (della vita) o ha altre menomazioni (intellettive, psichiche) che gli impediscono di ascendere? Non sarebbe ora, anche in un documentario come nella finzione cinematografica, di costruire narrazioni, immagini che cercano di sovvertire l’ordinario senso comune che produce, continuamente, inferiorizzazione delle persone con disabilità?
Già, perché in questo documentario, la disabilità sembra spesso una questione di diversità che solo i più ottusi (i politici americani a cui si oppone il movimento) non riescono ad accettare poiché le persone con disabilità, se messe in condizione, possono essere produttive, sposarsi, avere figli. In fondo, i principali protagonisti di questa vicenda (quelli a cui viene dato più spazio nel documentario) sono persone che aspirano a questa normalità e vi riescono. Questo è il modello proposto. Come si potrebbe essere contrari? Come non capire le reali difficoltà sociali ed esistenziali e le frustrazioni di chi, per tutta la vita, è continuamente escluso, a causa della propria disabilità, da tutte queste fondamentali dimensioni a cui legittimamente può aspirare? Nello stesso tempo, questa normatività esclude chi non può, non riesce e non vuole aderirvi, chi ha bisogni e desideri diversi. Si escludono dalla visione, dalla rappresentazione le situazioni più complesse, quelle più difficili da comprendere e digerire nella vita, come al cinema. Sono solo queste dimensioni normaliste, che ben si accomodano al conservatorismo sociale, a poter pensare di trovare risposte sociali e politiche? Per le situazioni più complesse e meno normalizzabili ci sono solo l’assistenzialismo, le dimensioni della cura e della soddisfazione dei meri bisogni fondamentali? Non sarebbe necessario rendere sociali e politiche anche condizioni complesse senza ridurle alla menomata dimensione biologica come specchio di intere esistenze?
Altre dimensioni, altre possibilità sono completamente escluse dal documentario. Anche le culture alternative (per esempio quella queer espressa da un balletto di una persona con disabilità) hanno una funzione strumentale: le persone con disabilità, per poter sopravvivere, devono reinventarsi, essere estroverse. Anche la scelta di intitolare il film ricorrendo al termine crip (storpio, menomato) secondo un’accezione che reinterpreta lo stigma per costruirci una propria identità differenziata è più che altro una scelta di estetica movimentista.
La stessa possibilità di cogliere il concetto di disabilità (chi sono i disabili?) nella miriade di questioni e situazioni che vanno comunemente sotto questo termine è molto semplificata. La disabilità è quella dei protagonisti del documentario, non dei figuranti e di quelli che non sono rappresentati, non quelle più scomode, più difficili da comprendere e da vivere, quelle che presentano più contraddizioni. Siamo di fronte a forme di disabilità lineari, non troppo problematiche, più facilmente comprensibili al grande pubblico che potrebbe vedere questo film. Ma in questo modo si continua a nascondere la foresta, la grande maggioranza di situazioni che quel grande pubblico non ha mai occasione di comprendere, conoscere, semplicemente perché sono condizioni che non si fanno quasi mai vedere, su cui non si fa informazione, cultura. In questi vuoti cinematografici si propaga, ancora una volta, l’ignoranza collettiva in fatto di disabilità e si ripropongono gli schemi inferiorizzanti di quella stessa ignoranza che cerca di trovare vie d’uscita solo nei sentimenti e in facili emozioni.
Mancano, inoltre, più articolate rappresentazioni della questione dei neri con disabilità, alla loro partecipazione al movimento, velocemente risolta con una persona intervistata e con l’evocazione che il movimento delle Black Panthers ha prestato sostegno logistico (e la politica?) ai manifestanti con disabilità. Tutt’al più che la popolazione nera con disabilità è (in quegli anni e ancora oggi) particolarmente marginalizzata negli Stati Uniti, soprattutto quando si parla di disabilità intellettive e psichiche. Passa ugualmente sotto silenzio il fatto che, nonostante quelle misure legislative forme di segregazione e di istituzionalizzazione (in ambito scolastico e sociale) continuano a esistere, soprattutto per persone con menomazioni più complesse, non solo fisico-motorie, e con una forte componente etnica.
Anche la continua messa al centro della figura di J. Heumann è eccessiva (abbiamo sempre bisogno del capo popolo, anche se donna in carrozzina): costruisce una classica immagine di leader che nasconde altre figure che hanno partecipato a quei movimenti; per esempio un’altra donna decisiva come Kitty Cone (certo, deceduta ma le si poteva dare uno spazio). Soprattutto continua a magnificare la logica individualista, dei grandi eroi che trascinano le masse.
La chiusura del documentario con la considerazione di una delle protagoniste (la sessuologa Jacobson) che le misure legislative non sono sufficienti a cambiare le mentalità e gli atteggiamenti nei confronti della disabilità esprime una grande verità. Peccato che più profondamente non vi abbia contribuito neanche questo documentario. Fare un film (o un documentario) sulla disabilità è sempre un’operazione complessa: disabilità è tante cose e si rischia sempre di fare scelte che scontentano poiché non affrontano tutta una serie di casi e di situazioni umane, sociali, esistenziali. Resta però il fatto che, di fronte alla radicale inferiorizzazione delle persone con disabilità e alle radicali questioni che questo tema ci pone, se davvero lo si vuole affrontare, è necessario dare risposte più radicali, di quelle che sfidano il senso comune, non che lo accomodano.
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