Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

L’ossessione della misurazione

15 Giugno 2014

La Fondazione Agnelli ha dedicato il suo ultimo rapporto al tema della valutazione (La valutazione della scuola. A che cosa serve e perché è necessaria all’Italia, Laterza). La tesi di partenza promette un approccio diverso rispetto a quello cui siamo abituati: gli autori sostengono infatti che non esiste un modello unico e che la valutazione non è mai neutrale, ma strettamente connessa a una specifica idea di scuola. Queste parole sembrano scontate e fondate solo sul buon senso. In realtà il discorso pubblico sull’argomento è colonizzato da un sostegno incondizionato alle prove standardizzate e dalla demonizzazione di qualsiasi critica. Non è affatto scontato, quindi, trovare un approccio del genere tra le file di chi dichiara apertamente (sin dal titolo) la necessità della valutazione. Diciamo subito, però, che la promessa è mantenuta solo in parte e la preferenza per un modello molto simile a quello attuale – soprattutto nei suoi presupposti culturali – è sempre leggibile in filigrana.

Il rapporto procede attraverso un’ampia e articolata analisi dei possibili strumenti e dei molteplici destinatari. Valutare il sistema scolastico nel suo complesso, o le singole scuole, oppure gli apprendimenti degli studenti (magari certificandoli per la prosecuzione degli studi) o – infine – gli insegnanti presuppone finalità e mezzi differenti. Si tratta di una critica sostanziale ai test Invalsi, che pretendono di valutare simultaneamente il sistema scolastico italiano, le singole scuole (infatti non vengono effettuati a campione – come sarebbe logico per una valutazione di sistema – ma a tappeto per determinate classi dei vari ordini scolastici), e infine anche gli studenti (i test sono stati inclusi tra le prove dell’esame conclusivo della terza media e presto saranno collegati all’esame di maturità delle scuole superiori). Una critica che si estende all’intero sistema Invalsi – al quale sono state affidate “responsabilità improprie ed eccessive” (p. 227) – e di conseguenza al Ministero dell’Istruzione, che ha costruito l’impalcatura della valutazione con scarsa trasparenza e attraverso provvedimenti non sempre coerenti fra loro.

La critica tocca anche altri aspetti cruciali, in particolare l’enfasi eccessiva sull’analisi quantitativa che spinge a valutare solo ciò che è misurabile trascurando campi del sapere non indagabili attraverso procedure standardizzate e mettendo quindi in secondo piano il ruolo del processo educativo. Non sfugge alla Fondazione che l’ossessione della misurazione porta con sé anche altri pericoli (che in realtà non sono così astratti come vengono raffigurati, ma corrispondono a processi già in atto che sarebbe stato opportuno indagare), come il fatto che studenti e docenti siano spinti a concentrare l’attenzione sulle materie oggetto di valutazione e la tendenza dei docenti titolari di quelle materie a indirizzare la didattica in modo prevalente verso l’addestramento ai test. Infine, nelle conclusioni, la Fondazione sostiene che è un errore utilizzare la valutazione per giudicare gli insegnanti e per distribuire premi o punizioni alle scuole.

Come si vede, il rapporto fa proprie gran parte delle argomentazioni utilizzate da coloro che hanno sempre giudicato in modo critico le valutazioni standardizzate, con la differenza che in questo caso non possono essere attribuite al solito manipolo mosso da intenti ideologici e corporativi.

Tuttavia c’è un nucleo duro e intoccabile, rappresentato dai contenuti e dalle metodologie dei test Invalsi. La loro capacità di misurare con precisione gli apprendimenti degli studenti non viene in alcun modo messa in discussione. Su questo aspetto, però, il rigore dell’analisi perde colpi e i ricercatori della Fondazione sembrano preoccupati esclusivamente di mettere in cattiva luce i critici dei test proponendone qualche brandello di citazione decontestualizzata, senza prenderne in esame in modo analitico le argomentazioni, che risultano completamente ignorate.

Il corpo centrale del rapporto è costruito attraverso una modalità descrittiva che ha il pregio di evidenziare potenzialità e limiti dei vari approcci alla valutazione, ma che – inevitabilmente – non è neutrale come pretende. Il lessico dominante è rivelatore di una chiave di lettura ben precisa che orienta l’intero processo descrittivo. I termini-chiave sono competenze e merito, Del primo si assume senza riserve la definizione dell’Ocse, liquidando con sufficienza e senza renderne conto il dibattito pedagogico sull’argomento. Il secondo è usato in modo acritico e ricorre di frequente con il suo carico di ambiguità non dichiarate e non discusse. Evidente – inoltre – è la simpatia verso la cultura del management. Pur dichiarando che la scuola non è un’azienda, gli autori assumono come modello le logiche manageriali mutuate dal mondo delle imprese e introdotte nella pubblica amministrazione dal ministro Brunetta, che a loro avviso – con opportuni adattamenti – potrebbero e dovrebbero orientare anche il governo delle istituzioni scolastiche. Sorprende che uno studio che si propone di analizzare l’efficacia degli strumenti di valutazione non si ponga il problema di verificare quella dei modelli presi come riferimento. Qual è stato l’impatto dei sistemi imposti da Brunetta? Hanno comportato qualche significativo miglioramento nel funzionamento della pubblica amministrazione? Queste domande non ci sono, forse perché le risposte sarebbero imbarazzanti. In questo caso la Fondazione Agnelli si mostra poco interessata ai risultati effettivi e molto attratta dalla filosofia dei provvedimenti dell’ex ministro, i cui scopi (ma questo il rapporto non lo dice) sono stati la denigrazione e la delegittimazione del sistema pubblico in quanto tale. In questo passaggio cruciale del rapporto gli autori cadono in una contraddizione palese, perché – se gli strumenti di valutazione non sono neutrali – assumere come modelli quelli che nascono entro un quadro culturale dichiaratamente ostile ai servizi pubblici vorrebbe dire estendere anche alla scuola pubblica una strumentazione finalizzata a destrutturarla piuttosto che a riformarla.

Il rapporto è caratterizzato dal ricorso sistematico a concetti derivati dal mondo economico, il più rilevante dei quali – per il peso che gli viene attribuito – è il valore aggiunto, misura – manco a dirlo di natura quantitativa – della “dinamica del processo cognitivo” (p.78). Il suo obiettivo è individuare quale sia il ruolo specifico della scuola per il raggiungimento di determinati obiettivi (competenze) da parte dei singoli studenti. Per raggiungerlo, occorre disporre di dati lungo una scala longitudinale e di strumenti statistico-econometrici che servono a “depurare” il risultato finale dagli elementi extrascolastici. In pratica, il valore aggiunto è il risultato di una serie di sottrazioni. Ad esempio, si prendono i risultati dei test Invalsi sostenuti da uno studente che frequenta la prima media e si sottraggono i valori rilevati dal test somministrato in quinta elementare. Poi si sottraggono gli indicatori relativi alla caratteristiche individuali, ai fattori strutturali e al contesto territoriale. Il rapporto non spiega come si misurino questi tre aspetti e non fornisce alcun dato che supporti la validità scientifica di tale procedimento. E’ chiaro, però, che tutto viene ricondotto a una misura quantitativa, anche quando il punto di partenza potrebbe orientare in altre direzioni. Ad esempio, gli autori sostengono la necessità di valutare attraverso metodi qualitativi aspetti della didattica che non possono essere apprezzati da rilevazioni di tipo standardizzato, e inoltre – sia pure con molte cautele – affidano un ruolo importante all’autovalutazione da parte degli insegnanti. Si tratta ancora una volta di prese di posizione non perfettamente in linea con il pensiero mainstream, ma subito depotenziate e ricondotte nell’alveo di un’ideologia che fa della misurazione il suo feticcio. Molto esplicito al riguardo il racconto di una sperimentazione che aveva previsto il ricorso all’osservazione diretta di alcuni aspetti della vita scolastica: anch’essa, alla fine, è stata tradotta in un indice numerico, giustificando la scelta con la necessità di rendere fra loro comparabili le rilevazioni effettuate in scuole diverse. Tutto in nome della trasparenza e della rendicontazione, due pilastri di una retorica che occulta la profonda mutazione da tempo in atto in tutto il settore pubblico. Nessuno dei tanti provvedimenti sulla trasparenza partoriti da una legislazione ipertrofica ha reso più trasparente la pubblica amministrazione. Al contrario, l’assunzione acritica di indicatori di efficienza ed efficacia mutuati direttamente dalla cultura aziendale inquina la trasparenza anziché favorirla. E’ anche attraverso processi di valutazione di questo tipo – infatti – che studenti e genitori vengono spogliati del loro abito di cittadini e invitati a indossare i panni dei clienti. Ai clienti non è richiesto di comportarsi da cittadini ma da consumatori. Il loro spazio di azione si restringe fino a coincidere con il puro e semplice esercizio di una scelta “razionale” effettuata sulla base di informazioni che dovrebbero essere esaustive. Le informazioni sono quelle che lo Stato rende disponibili attraverso la valutazione standardizzata, mentre la scelta si riduce a individuare la scuola “migliore” (quella che ha raggiunto la posizione più alta in graduatoria in base ai test) dove iscrivere i propri figli. La partita che si sta giocando ha quindi una portata molto più ampia e mette in gioco la natura stessa dei processi decisionali. Le valutazioni standardizzate contribuiscono infatti a costruire un sistema nel quale prevalgono metodi aziendali in grado di mettere definitivamente ai margini le componenti della scuola che non fanno parte del management e non possono quindi avere voce in capitolo sul governo della scuola. A loro non rimane che coltivare l’illusione di contare qualcosa esercitando (forse e solo in alcuni casi) una scelta che non ha nulla a che vedere con i diritti di cittadinanza. L’analisi descrittiva delle possibili opzioni presentata in modo apparentemente neutrale dagli autori del rapporto non prende in considerazione scenari diversi. Uno scenario, ad esempio, che veda un coinvolgimento del tutto diverso delle componenti scolastiche, liberato dai burocratismi e dalla ritualità fine a se stessa che hanno portato al fallimento degli organi collegiali, un coinvolgimento che valorizzi davvero l’autonomia (nel suo significato originario e non in quello – anch’esso di natura aziendalistica e competitiva – introdotto dal ministro Berlinguer). In questo scenario – molto diverso anche rispetto alla situazione attuale, che non è certamente da difendere e conservare – la valutazione sarebbe prima di tutto il risultato di un processo endogeno, non imposto dall’alto e dall’esterno e non per questo necessariamente autoreferenziale, basato prima di tutto sull’auto-responsabilizzazione. Questo comporta anche il superamento della sfiducia – che aleggia in tutto il rapporto – nei confronti della valutazione descrittiva, in grado di cogliere tutta l’ampiezza e la problematicità della didattica e di offrire possibilità comparative non inferiori a quelle rese possibili dai numeri.

La Fondazione Agnelli, in ultima analisi, propone un programma di “manutenzione” del sistema di valutazione standardizzata costruito per stratificazioni e approssimazioni successive, senza organicità. Le correzioni suggerite sono in alcuni casi piuttosto robuste, ma non intaccano il quadro di riferimento culturale. La scena rimane dominata dall’ossessione della misurazione, dalla ricerca di modelli statistico-econometrici sempre più elaborati per cercare di correggere gli errori e le distorsioni che il sistema ha evidenziato e che la Fondazione – almeno in parte – riconosce, al contrario della maggior parte degli addetti ai lavori.

Alla ricerca impossibile del modello perfetto, lungo una strada percorsa solo da “esperti” lontani dalla pratica scolastica quotidiana, membri di una ristretta comunità nella quale l’uso di un linguaggio iper-tecnico traccia un confine netto e invalicabile verso l’esterno, anche gli autori del rapporto si allontanano inesorabilmente da ciò che vorrebbero osservare e rischiano di perderlo di vista completamente. Alla fine della lettura, il sapore che rimane in bocca è quello che probabilmente avevano avvertito i ragazzi della scuola di Barbiana dopo la visita di un accademico alla loro scuola, un sentimento sintetizzato con pungente ironia nella Lettera a una professoressa (allora il bersaglio era la pedagogia, oggi potremmo tranquillamente sostituire quel termine con economia): “Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline”.

info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it