L’ignobile pianto dei giovani su Steve Jobs
di Goffredo Fofi
Non mi ha colpito in modo diverso il pianto giovanile sul cadavere di Steve Jobs – muoiono anche i “grandi” e i “benefattori dell’umanità”, se Dio vuole e grazie alla Natura e a quell’effetto del Capitale chiamato Cancro, che ha fatto “grande” da noi il losco e longevo Veronesi – di quello senile di qualche anno fa sul cadavere di Gianni Agnelli – che in famiglia aveva avuto, peraltro, qualche esempio dell’effetto del Capitale (in Italia, primariamente della sua Fiat) chiamato Cancro. La stessa incoscienza, la stessa imbecillità. E se allora scandalizzava vedere come i vecchi operai piangessero il loro sfruttatore – effetto del Cancro chiamato Televisione – non scandalizza di meno vedere dei giovani piangere uno degli artefici della loro alienazione dall’intelligenza del mondo e dalla possibilità di essere se stessi, coscienti, ragionanti, capaci di intervenire sul destino che la società degli Steve Jobs ha deciso per loro.
Il paradosso maggiore sarebbe constatare, come è assai probabile, che molti degli stupidi orfanelli di Steve Jobs siano anche molti dei manifestanti di queste settimane contro Wall Street e l’alta finanza manipolatrice e distruttrice – l’un per cento della popolazione mondiale, ha detto una rediviva e sensatissima Klein, che campa alle spalle del 99 per cento. Si potrebbero accampare contro l’orrido Jobs molte ragioni tradizionali di ripulsa, per esempio lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, per esempio il costo dei suoi strumenti rispetto a quelli di altre case, per esempio l’ossessione del lucro su ogni cosa brevettata, per esempio l’adesione alla diabolica considerazione antica di certo puritanesimo americano che ha sempre visto nel successo economico di un individuo un segno divino (protestantesimo come anima del capitalismo: Weber dixit) con la ripetizione più attuale e post-moderna del mito del self-made man “dall’ago al milione”. Eccetera.
Ma quello che più colpisce nel lutto sconsiderato di questi giorni è che fossero i giovani a dimostrarlo con la stessa logica e le stesse manifestazioni che per un Elvis Presley, un James Dean e magari un Che Guevara, o un’altra delle faccette stampate sulle loro canottiere (pardon, t-shirt), e però con una convinzione diversa e maggiore, che va oltre il banale discorso delle mode e del consumismo di miti più o meno fasulli che periodicamente, regolarmente, attraversano le società giovanili americanizzate. Perché i giovani pensano di dovere davvero qualcosa a Steve Jobs, con la loro possibilità di usare i suoi strumenti e di ricavarne diletto, conoscenza e comunicazione con gli altri. Come se il diletto rendesse più intelligenti e padroni di sé, la conoscenza enciclopedica e l’immediatezza delle notizie fossero sinonimo di cultura viva, e la comunicazione mettesse davvero in relazione con l’altro e permettesse uno scambio, un’interazione, un’azione. Come se i “mezzi” diventassero il fine nel momento stesso in cui lo tradiscono e negano, in cui creano nuove dipendenze, nuove droghe della coscienza invece che la comunicazione che vede solidali in progetti comuni di liberazione.
C’è poco da sperare, in una gioventù così succube dei media, e oggi non soltanto del loro discorso ma dei suoi strumenti “democratizzati”, alla portata di (quasi) tutti. L’unico effetto davvero positivo che è possibile riconoscere ai nuovi mezzi messi sul mercato dal titano” Jobs (Il titano fu il titolo di un mirabile e dimenticato romanzo di Theodore Dreiser sulla figura del Capitalista americano, e l’impalcatura della vicenda non è affatto cambiata da allora) è quello di aver ridotto sensibilmente, forse enormemente, l’impatto della televisione, ma così come i nuovi mezzi alla Jobs ne sono la continuazione, così il fatto di possedere un proprio apparecchio televisivo portatile con programmi più vari, con un diluvio di programmi, di avere una specie di televisione propria emittente-ricevente non è un segno certo di liberazione ma invece di nuova e sempre più capillare sudditanza. Sì, Jobs è un’altra incarnazione del Grande Fratello dimostrato e denunciato da Orwell. Infine, non molto di nuovo sotto il sole, a parte le malattie concrete della Terra.
Schiavi della macchina che pensa per noi, come sempre? Uomini-macchina, come, diceva Simone Weil, era nelle aspirazioni dell’umanità moderna e in modi più raffinati e più completi è dell’umanità post-moderna, con le sue avanguardie giovanili? Steve Jobs non è stato un benefattore dell’umanità, ma uno dei suoi più attuali e perciò ripugnanti oppressori.