Lettera da Reggio Emilia
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Vi racconto il mio quartiere.
Reggio Emilia, periferia sud est, un chilometro in linea d’aria dal centro storico. Una striscia di terra larga un centinaio di metrivede la presenza di un campo da rugby, una piscina e una palestra. Al fianco, un terreno tenuto a maggese. Al fondo della striscia di terra poche palazzine signorili separano da una strada di grande scorrimento. Una porzione di verde e di sport che separa le due facce del quartiere: a nord si trovano di palazzi di sei sette piani, case popolari oggi riscattate, architettura anonima intristita da inquinamento e usura, a sud invece si trovano villette a due piani, case a schiera, ville bifamiliari e tanto verde privato. In questa zona abitano professionisti, medici, architetti, molti insegnanti, qualche imprenditore, mentre a nord abitano persone con impieghi meno qualificati e redditi più bassi, e una larga componente che proviene dal sud Italia o da paesi stranieri. Gli unici punti di contatto sono un ufficio postale e una scuola elementare. Per il resto, due mondi distinti e distanti, a cento metri di distanza l’uno dall’altro.
Una scuola elementare è anche seggio elettorale. All’indomani delle europee del 2019 acquisto il quotidiano locale e mi vado a leggere i voti delle singole sezioni, scoprendo ciò che già intuivo, ovvero che nella zona benestante del quartiere il Pd si attesta al 40 percento, la stessa percentuale che nella zona popolare intercetta la Lega salviniana. Da una parte la gente istruita, con un buon lavoro un buon reddito e relazioni sociali articolate, rappresentate da un Partito democratico che qui è ceto governativo locale dal dopoguerra, partito rassicurante, di buon senso e tutto sommato di buon governo, capace di dialogare trasversalmente con tanti mondi e di rassicurarli. Dall’altra parte vivono gli arrabbiati, i delusi, gli inoccupati o i male occupati, quei penultimi che temonola concorrenza degli “ultimi” e gridano il loro malessere contro ogni nuovo arrivato, specialmente se straniero che chiede lavoro, casa, servizi. Un ceto sociale oggi ben rappresentato dalla Lega, della quale hanno magicamente dimenticato trent’anni di Padania libera e di becere offese al nostro Mezzogiorno. Nulla di diverso da tante altre città del nord Italia. Vista da qui, l’Italia delle classi sociali esiste eccome, anzi le cesure non sono mai state così nette.
Città progressista e protosocialista, da queste parti nacquero le prime cooperative di consumo e le prime leghe di contadini e braccianti
Reggio Emilia è un luogo fisico e un luogo comune. Gode di ottima fama e ottima pubblicistica, città operosa, gente pragmatica e solidale, grandi cooperative, voglia di rimboccarsi le maniche e risolvere i problemi. Una narrazione tutto sommato veritiera, non senza un pizzico di retorica. Città progressista e protosocialista, da queste parti nacquero le prime cooperative di consumo e le prime leghe di contadini e braccianti, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, ma è anche la città del primo tricolore e dei setti fratelli Cervi, simbolo di una resistenza che ancora permea l’immaginario della gente. Nel suo celebre Quel gran pezzo dell’Emilia Edmondo Berselli racconta l’aneddoto di un Giorgio Bocca, all’epoca giovane cronista lombardo, inviato a Carpi per comprendere il successo dei maglifici e delle cooperative. Carpi sta nel modenese, una ventina di chilometri da Reggio Emilia, siamo nei primi anni Sessanta. Al manager comunista di una cooperativa Bocca domanda cosa significhi per lui socialismo, e questi risponde: “è il capitalismo gestito da noi”. Lapidario quanto veritiero, il comunismo da queste parti non ha mai avuto il viso sottile dell’intellettuale bensì il volto sporco di morchia delle officine o le facce arse dal sole dei campi, dove ancora oggi i trattori viaggiano dall’alba alla notte. Ne è prova il fatto che, esclusa Nilde Iotti, l’Emilia di sinistra non ha mai prodotto leader nazionali, è sempre stato un grande bacino di voti.
Mi lascio alle spalle la scuola elementare e percorro via Bismantova. Sulla sinistra c’è un asilo nido dagli arredi un po’ datati, mi raccontano esser stato costruito negli anni sessanta da quegli stessi operai che di giorno lavoravano in fabbrica e non sapevano a chi lasciare i figli, una sorta di welfare in autogestione. Alla fine della via una Camera del lavoro, una chiesa, alcuni negozi. Svolto a destra e risalgo via Martiri della Bettola dove incontro un gruppo di palazzine da tutti conosciuto come rione CLN, testimonianza di quel famoso Piano Fanfani che dal 1962 in avanti cambierà il volto dell’Italia permettendo il sorgere di case popolari ed economiche ma con standard abitativi e sociali di qualità, a differenza dell’edilizia popolare odierna (a Reggio Emilia furono rapidissimi: la legge per “favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare” è dell’aprile 1962, a novembre dello stesso anno il Comune adottò un P.E.E.P., piano per l’edilizia economico popolare). Questo pezzo di città, lungo la statale che porta a sud cioè verso l’appennino, vede un curioso melting pot di Novecento e contemporaneità, qui convivono un vecchio calzolaio, un forno e un fiorista con erboristerie e negozi vegetariani. Di fronte al rione CLN c’è Casa Bettola, ex casa cantoniera abbandonata e riaperta nel 2009 da alcuni attivisti reggiani, uno spazio di mutualismo e autogestione dove socialità e cultura provano a resistere alla pervasività del mercato, dal mercatino dei prodotti biologici al pane da cuocere nel forno comune ad altre iniziative sociali e culturali.
Da via Martiri della Bettola scendo verso via Rivoluzione d’Ottobre e mi si dissipa ogni dubbio sulle scelte toponomastiche comunali degli anni Settanta. Mi lascio alle spalle una clinica privata e svolto in via Gandhi, dove sorge il maestoso Direzionale San Pellegrino, figlio di una logica cementizia delle cooperative rosse di fine anni Settanta, quando ambiente e sostenibilità erano parole sconosciute e il progresso aveva il volto avveniristico dei palazzi in altezza. Qui trovo un supermercato Coop, che nonostante i recenti passivi è un punto di riferimento stabile, specialmente per gli anziani, qui ha sede provinciale il Pd, qui c’era vita e fermento per alcune storiche cooperative oggi decedute. Una storia gloriosa finita male, quella delle grandi cooperative dell’edilizia. Un tempo ricchissime e solidissime, in città le chiamavano le quattro sorelle: Cmr, Orion, Coopsette e Unieco, tutte saltate tra il 2012 e il 2017, complice la crisi del mercato e pessima gestione dei vertici. Quel che più lascia l’amaro in bocca è che sono saltate insieme ai soldi di dipendenti e pensionati che avevano affidato loro i risparmi di una vita sotto forma di prestito sociale (in piccola parte risarciti da Legacoop, il resto è materia dei tribunali). Ciò nonostante lo spiritico cooperativistico qui è ancora vivo in termini di idee, persone e competenze, specie nelle cooperative di piccola media taglia, ma il legame coi partiti e nella fattispecie col Pd è decisamente affievolito. I palazzi del Direzionale San Pellegrino si elevano per undici piani, quasi tutti abitati da privati, qualcuno con uffici, e sotto il porticato ci sono uffici e negozi. La scorsa estate sto chiacchierando con il mio assicuratore, sessantenne di raffinata intelligenza meridionale, quando si avvicina un anziano, conoscente del mio assicuratore. Si qualifica come già militante del defunto Psi e tira fuori una teoria secondo cui, al fine di depotenziare il movimento studentesco del ’68, Giulio Andreotti strinse un accordo con la mafia siciliana per inondare di droga gli atenei. Ricostruzioni fantapolitiche che ancora circolano nel mio quartiere, ricordi forse ottenebrati dal mix afa padana più cemento (“dammi una mano dammi una mano ad incendiare il piano padano” cantava il reggiano Giovanni Lindo Ferretti nel 1987).
La questione è politica, si diceva un tempo. Ma c’è un problema, la politica è scomparsa. Non esiste più, anche in questa Reggio Emilia che nel resto d’Italia è portata ad esempio come un modello di partecipazione. Non se parla più, è passata. Qualche crocicchio di anziani nei bar li vedi ancora infuocarsi, qualche convegno noioso sotto elezioni, i soliti botta e risposta sui giornalitra politici locali, ma la politica intesa come elaborazione, idee, fatica, sperimentazione, anche scontro e lotta per il potere, quella è scomparsa dal radar. Non la fanno più i partiti, non la fanno più i corpi intermedi anch’essi impegnati a sopravvivere, la fanno poco i cittadini. Fino o non molti anni fa la politica qui era fare le cose, edificare, aprire realtà. Dalla sinergia politica più istituzioni più iniziativa privata nel mio quartiere sono nate una scuola materna, due scuole primarie, una media, una scuola superiore professionale, una biblioteca, una Asp di servizi educativi assistenziali, una casa di cura privata, una casa di riposo, due parrocchie, oltre ad associazioni, campi sportivi e diversi parchi urbani. “Se hai un’idea i soldi si trovano”, ci dicevano i più anziani. E le cose che si facevano muovevano le idee.
La politica intesa come elaborazione, idee, fatica, sperimentazione, anche scontro e lotta per il potere, quella è scomparsa dal radar
Il mio quartiere è una sorta di compromesso storico realizzato. C’è una via, a pochi metri dalla tangenziale interna, dove negli anni Settanta due cooperative costruirono villette a schiera. Una coop bianca costruì su un lato della strada, una coop rossa sull’altro. Ovviamente vendendo le case ai propri soci. Nel mio quartiere la presenza cattolica è forte e organizzata, e porta un solo nome: Giuseppe Dossetti. Partigiano cattolico, membro della costituente, politico democristiano, sacerdote e infine monaco a Monteveglio, sopra Bologna, un’esistenza ritirata ma non un esilio nei luoghi dell’eccidio nazista. Dossetti infatti fu uno dei più pugnaci avversari del berlusconismo fino al 1996, anno della sua morte. I dossettiani a Reggio Emilia sono una comunità forte, attiva, trasversale a più mondi. Guida spirituale è Don Giuseppe Dossetti, nipote, omonimo del monaco, che è anche sacerdote nel quartiere. Esprimono politici influenti come Pierluigi Castagnetti e Graziano Delrio, esprimono assessori comunali, consiglieri, professionisti nella sanità e in altri ruoli pubblici. Ascrivibile ai dossettiani è uno storico della Chiesa e editorialista del calibro di Alberto Melloni, e altri intellettuali meno noti. Dossettiano “laterale” è anche Romano Prodi, reggiano di nascita e tuttora molto influente in città. Una comunità informale insomma, piuttosto coesa, ben ramificata, spirituale e politica al tempo stesso. L’altra comunità politica della città, questa volta formale, è l’Arci, la cui forza è ben consolidata tra circoli ricreativi, locali da ballo, centri di formazione, e questo le consente di produrre una grande quantità di eventi e non solo culturali. Capace di prendere posizione politica su questioni sociali, su tematiche come diritti umani, accoglienza, solidarietà e ambiente, capace di movimentare persone, iniziative pubbliche, capace di indirizzare sentimentipolitici. Quello che i partiti non fanno praticamente più.
Scrivo questo articolo a meno di due settimane dalle elezioni regionali del 26 gennaio. Molti dicono saranno decisive per il governo nazionale. Non so come andranno a finire, tanti sono ancora indecisi, se vincesse la Lega molte cose potrebbero cambiare, molti diritti acquisiti potrebbero venire erosi in nome del “cambiamento leghista”. Cammino per il mio quartiere e osservo. Osservo case ordinate, giardini curati, persone che fanno lavoretti domestici, altri a spasso con il cane. Da questa prospettiva il mondo appare in ordine, benché addormentato e ripiegato su sé stesso. Il mio quartiere è la metafora di un paese dove tutto sommato si vive bene se si guarda al proprio privato, ma appena si allarga lo sguardo alla cosa pubblica è chiaro che si naviga a vista e il futuro è incerto. La cosa pubblica è stata progressivamente impoverita, erosa, spogliata di persone e idee. I funzionari pubblici, quelli che all’estero sono i civil servant, sono oggi relegati al rango impiegatizio, non si sentono più onorati nel servire la cosa pubblica. Anche nell’Emilia operosa e progressista che mezza Italia osserva con ammirazione. Ci restano la musica, i libri, le storie di questa terra. Ci resta la memoria di autori scomparsi troppo presto come Pier Vittorio Tondelli. Ci resta la vita.
(disegno di Roberto Catani)