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Lettera da Jalalabad: i nuovi/vecchi talebani

Piscitelli/Contrasto
31 Gennaio 2022
Giuliano Battiston

“Torkham?”, “Jalalabad?”. In piedi accanto alle loro automobili o su e giù lungo la strada, i tassisti cercano i clienti. Siamo sul lato opposto della moschea più ‘istituzionale’ di Kabul, la Eid Gah. All’ingresso della moschea ci sono due blindati sottratti al vecchio esercito nazionale, ora in mano ai Talebani. Il 3 ottobre 2021 – meno di due mesi dopo la loro conquista di Kabul e meno di un mese dopo l’annuncio del governo ad interim –, proprio qui la branca locale dello Stato islamico ha compiuto un attentato. Obiettivo, la cerimonia funebre per la madre di Zabihullah Mujahed, portavoce dell’autoproclamato Emirato e vice-ministro della Cultura del governo dei Talebani. L’uomo senza il cui assenso non si muove informazione da Mazar-e-Sharif a Ghazni, da Jalalabad a Kandahar.
Da qui si parte per Torkham, il confine con il Pakistan, valvola di sfogo per un Paese da cui chi può va via, ma anche fonte di screzi diplomatici e ricatti commerciali. Oppure per Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, da anni città termometro per capire i movimenti nella galassia jihadista a cavallo del confine, di qua e di là della Linea Durand, il confine con il Pakistan su cui i Talebani non vogliono pronunciarsi per non indispettire Islamabad, che considera chiusa la questione. “Vieni, l’auto è dietro l’angolo. Ai Talebani dopo l’attentato non piace più che sostiamo troppo a lungo qui davanti”.


Il tragitto per Jalalabad costa tra i 300 e i 400 afghani (3-4 euro) e passa per una strada tortuosa e splendida, su cui si è fatta la storia. Zoccoli di cavalli, scarponi militari, cingolati, blindati, auto civili finite in un’imboscata. È passato da qui William Brydon, il medico e ufficiale della Compagnia delle indie britanniche unico sopravvissuto alla ritirata delle truppe inglesi da Kabul, durante la prima guerra anglo-afghana. Partito con altri 4.500 soldati e migliaia di civili al seguito il 6 gennaio 1842 da Kabul, è arrivato a Jalalabad il 13 gennaio 1842.


Lungo la strada incontriamo due convogli di automobili. L’auto in testa è addobbata con fiori rossi e lustrini colorati. Due ragazzi si sporgono dai finestrini anteriori agitando le braccia. Ci si sposa anche sotto il regime dei Talebani, il secondo Emirato dopo quello instaurato nel 1996 e fatto crollare dalle bombe americane, nel 2001. Ci si sposa perfino più di prima. Nelle aree rurali il matrimonio è un meccanismo di compensazione per le famiglie povere o impoverite. Si dà in sposa la figlia per una bocca in meno da sfamare e una dote in più. I figli maschi vengono mandati al lavoro anziché a scuola. Nel Paese non ci sono più soldi, letteralmente. Qualcuno non li ha mai avuti: ogni tanto sorpassiamo un camion che arranca, carico di materassi, coperte, recipienti di plastica, carriole, utensili da cucina. Sopra a tutto, i bambini. L’inverno è in arrivo. Da Kabul, il cui clima non fa sconti, si va al “caldo”, a Jalalabad, quasi duemila metri più in basso, dopo una serie di tornanti che finiscono per aprirsi su valli fertili. Mesi e mesi in tenda, ai margini del fiume, in attesa di qualcosa o qualcuno. Nelle mani di Allah.

Da qui, l’aggravarsi della crisi umanitaria: 24 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare, di cui 8 milioni prossimi alla carestia. Nei primi 6 mesi del 2022, il 97 per cento della popolazione rischia di finire sotto la soglia di povertà.


“Da quando i mujahedin hanno conquistato il potere, è tutto sotto controllo”. Qari Nur Mohammad Hanif prima si nega, poi ci concede un’intervista prevedibile. È a capo del dipartimento dell’Informazione e della Cultura per la provincia orientale di Nangarhar. La sua storia è simile a quella di altri funzionari dell’Emirato. Fino allo scorso agosto la clandestinità, ora l’ufficialità. Già portavoce del governatore ‘ombra’ dei Talebani nella provincia, quando i militanti islamisti facevano la guerriglia e non erano al potere, oggi ha un ufficio ampio, con comode poltrone per i visitatori che vengono a incontrarlo: il regista che cerca l’approvazione per un nuovo progetto, il candidato alla posizione che si è aperta nell’ufficio, portatori di tè, giornalisti locali con le briglie delle censura e il timore che, se scappa di pubblicare la parola sbagliata, scatta anche la rappresaglia dei nuovi governanti. Per noi giornalisti stranieri il lavoro è facile. Per i colleghi afghani ci sono le frustate, le botte. A volte le torture.
Al cancello di ingresso del Dipartimento diretto da Qari Nur Mohammad Hanif, qui a Jalalabad, ci apre il guardiano. Dietro di lui, un bambino col vestito bianco tradizionale e un gilet/wasqat marrone. Avrà 8 anni. Sulla spalla ha un’arma automatica. Entra con noi nell’ufficio e poggia l’arma sotto una sedia. È il figlio del numero due di mullah Arif, il mawlawi Amanullah, uomo dallo sguardo censorio e inquisitorio tranne che con il figlio, tenuto in braccio e coccolato affettuosamente. Per mullah Qari Hanif non ci sono dubbi. La conquista del potere dei Talebani ha portato benefici: “prima c’erano leader corrotti, ora non ci sono più; prima c’erano sequestri, ora non più; prima c’erano furti, ora non più; prima c’era insicurezza, ora non più. Prima c’era l’immoralità, ora il vero Islam”. Prima c’erano anche i soldi, ora non più, notiamo. “Per questo chiediamo che le riserve della Banca centrale afghana ci vengano restituite, che le sanzioni vengano tolte. Siamo tra i Paesi più poveri al mondo e abbiamo bisogno di sostegno”. Come tutti i suoi omologhi, insieme ai leader più alti nella gerarchia dei Talebani, mullah Qari Hanif non perde occasione per battere cassa. È la richiesta più pressante dei Talebani, insieme al riconoscimento del loro Emirato. Per ora, non hanno né soldi né riconoscimento formale, nemmeno da parte di quei governi regionali – Pakistan, Cina, Russia, Qatar – da cui si aspettavano di più. Ma se del riconoscimento dell’Emirato possiamo non preoccuparci, dei soldi dello Stato-afghano non possiamo non preoccuparci. Perché senza quei soldi viene giù non il governo talebano, ma lo Stato-afghano. Quei soldi li sborsavamo noi. Dal 15 agosto 2021, quando i Talebani hanno conquistato Kabul, abbiamo deciso di chiudere il portafogli. La storia è andata così, in poche parole: dal 2001, la comunità internazionale ha edificato un sistema statuale completamente dipendente dalle risorse esterne. Nell’estate 2021 gli aiuti dei donatori stranieri rappresentavano ancora il 43% del Prodotto interno lordo e ben il 75% della spesa pubblica. In Afghanistan – uno Stato-rentier lo chiamano i politologi – i servizi fondamentali, a partire da istruzione e sanità, dipendono dai donatori internazionali. In questi anni i bisogni statuali sono stati sostenuti da una media di 8,5 miliardi di dollari all’anno in aiuti.


Scegliendo l’opzione militarista anziché quella negoziale, a metà agosto i Talebani hanno messo a repentaglio il legame tra lo Stato afghano e i governi che ne alimentavano la sopravvivenza, in particolare quello con Washington, peso massimo in ambito militare e finanziario. Sconfitta militarmente e politicamente, sorpresa dalla repentina conquista di Kabul da parte dei Talebani, con i quali pure aveva negoziato a lungo, Washington ha congelato alla Federal Reserve di New York circa 9 miliardi di dollari di riserve della Banca centrale afghana; le sanzioni già in vigore contro singoli Talebani sono diventate nella sostanza sanzioni contro il governo di fatto; gli aiuti umanitari e quelli allo sviluppo sono stati perlopiù interrotti; Banca centrale e Fondo monetario internazionale hanno congelato i trasferimenti previsti, per riprenderli solo in parte, a singhiozzo. Da qui, il tracollo economico, il collasso del sistema bancario, la mancanza di liquidità nel Paese, gli stipendi non pagati a insegnanti, medici, la contrazione dell’economia, la più repentina e drastica della storia contemporanea.
Da qui, l’aggravarsi della crisi umanitaria: 24 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare, di cui 8 milioni prossimi alla carestia. Nei primi 6 mesi del 2022, il 97 per cento della popolazione rischia di finire sotto la soglia di povertà. Povertà universale viene definita. Un Paese fallito. Una popolazione sfinita. Se dal 2001 al 2021 il conflitto ha prodotto circa 3.000 morti civili ogni anno, nell’immediato futuro – a causa delle scelte politiche dei governi occidentali – le vittime rischiano di essere molte di più. Per questo funzionari e leader dei Talebani non perdono occasione di battere cassa agli stranieri, come fa il nostro Qari Nur Mohammad Hanif nel suo ufficio, qui a Jalalabad.


Lo incontriamo il giorno successivo all’arrivo all’aeroporto cittadino di un aereo con degli aiuti umanitari da parte dell’Iran. Gesto diplomatico significativo. Teheran da anni ha canali diplomatici aperti con i Talebani, di cui ha ospitato anche una “cupola/shura” a Mashad, nell’est del Paese, ultima grande città prima del confine con l’Afghanistan. Ha poi dato il “via libera” all’offensiva militare della scorsa estate, quando i Talebani hanno progressivamente conquistato distretti e capoluoghi di provincia, finendo per arrivare fino a Kabul. Teheran, come altre capitali regionali, resta però scontenta del risultato finale: la spallata militare finale su Kabul, il monopolio del potere, la crescente influenza nel governo e nel movimento di Sirajuddin Haqqani, il ministro dell’Interno e leader dell’omonima rete terroristica che vanta una lunghissima storia di rapporti con i sauditi, oggi più freddi di prima, comunque preoccupanti per l’Iran, che sospetta anche di Islamabad, altra sponda tradizionale degli Haqqani (e più in generale dei Talebani). Senza scomporsi, mullah Qari Hanif evita la domanda sul perché Teheran abbia deciso di far arrivare proprio a Jalalabad gli aiuti umanitari, anziché a Kabul. Si limita a ringraziare. “Ringraziamo per qualunque aiuto, da chiunque arrivi. Ci aspettiamo che ne arrivino altri in futuro”.
Potrebbe finire per ringraziare anche la “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico, che fa della propaganda anti-sciita un elemento centrale di reclutamento in Siria, Iraq, Afghanistan. E che in questa parte del Paese è più forte che altrove. A qualche ora di auto da Jalalabad, nel distretto di Achin, fino all’inverno del 2019 c’era la base principale della “Provincia del Khorasan”. Ci siamo andati nel novembre di quell’anno. Pochi giorni dopo che, con un’operazione congiunta delle forze americane, afghane e – indirettamente – dei Talebani, la roccaforte venisse smantellata. Villaggi poverissimi senza servizi, scuole, cliniche, acqua potabile, strade accessibili. Abbandonati dal governo centrale. Oggi come allora. Due anni fa sia Attaullah Khogyani, il portavoce del governatore di Nangarhar oggi rifugiatosi a Kabul, sia il governatore di Achin, Shafiqullah Sadat, si dicevano sicuri che la sconfitta di “Daesh” fosse definitiva. Non è stato così. “Omicidi mirati, esplosioni, attentati. Qui ogni giorno ce n’è una. Spesso c’è dietro Daesh, che vanta una presenza significativa in alcuni distretti di Nangarhar, è forte nella provincia vicina di Kunar ma ha operativi anche qui in città”, ci dice un giornalista di Jalalabad che chiameremo Mohammed. L’aumento delle operazioni militari dello Stato islamico è un bel grattacapo per l’Emirato che rivendica il monopolio della violenza e il controllo su tutto il territorio. Ufficialmente, i Talebani da una parte derubricano la minaccia a secondaria. Dall’altra non perdono occasione di ricordare quanto efficace sia la repressione. “Smantellata cellula a Kabul”. “Operazione contro Daesh a Kandahar”. “Seicento combattenti dello Stato islamico catturati dai funzionari dell’Emirato in soli 3 mesi”. Ma qui a Jalalabad tira una brutta aria. “Siamo preoccupati, certo. Quasi non passa giorno senza che ci sia un omicidio mirato”, nota un osservatore politico, che preferisce rimanere omonimo. I Talebani, così assicurano loro, sono i jihadisti “buoni”. Anni e anni vissuti nelle montagne o nelle aree rurali sottratte al controllo governativo, oggi li incontri al ristorante popolare Babà Wali o a quello più esclusivo Sultan. Altra cosa sono i militanti dello Stato islamico, i jihadisti “cattivi” che contestano ai Talebani di essersi venduti per il potere e di essere scesi a compromessi perfino con gli americani, nel corso dei negoziati che a Doha, in Qatar, hanno portato all’accordo del febbraio 2020 per il ritiro delle truppe straniere. L’inviato di Trump e poi di Biden, Zalmay Khalilzad, pensava di passare alla storia come un grande stratega e di aver addomesticato i Talebani. È stato licenziato ed è diventato un facile capro espiatorio per un fallimento che invece ha cause diverse. A partire dall’idea di portare la guerra in Afghanistan. Mullah Qari Hanif, a capo del Dipartimento di Informazione e Cultura, sostiene che neanche lo Stato islamico sia un problema: “non lo è stato quando stavamo sulle montagne, dove lo abbiamo combattuto e sconfitto, non vedo perché dovrebbe esserlo oggi che controlliamo tutto il territorio. Con l’Emirato va tutto bene”.


“No, non va tutto bene”, replica indirettamente Sharbanah Barakzai, attivista che incontriamo all’università privata Rokhan. Per lei, “c’è stato un grande cambiamento da quando c’è il nuovo governo”. Docente di diritto nella facoltà di Legge e Scienze politiche, racconta di aver lavorato per molte organizzazioni non governative, “come consulente legale”. Oggi però alcune associazioni hanno dovuto chiudere per mancanza di fondi, altre hanno ridotto al minimo le attività, “incontri, conferenze, lavoro nei territori, non c’è più nulla”. Soprattutto all’inizio, “è stata molto dura per le donne. Ma non abbiamo mollato e non molleremo”. È vero però che “tante hanno lasciato l’università, qualcuna è andata all’estero. Ad altre, che venivano dai distretti rurali, non è più permesso venire in città. Per tutte le donne, inclusa me stessa, il futuro è nero. Avevamo aspirazioni che non possiamo più seguire”. Barakzai spiega come la transizione dalla Repubblica all’Emirato abbia ridotto possibilità e aspettative. “Nella nostra facoltà, qui a Legge, ci si chiede: e se cambia la Costituzione, se cambiano i codici del diritto, a cosa servirà tutto quello che abbiamo studiato? Qualcuno pensa forse che i Talebani permettano a una donna di diventare giudice, procuratrice, avvocatessa?”. Il futuro è nero, ripete Barakzai, “non c’è prospettiva, tante ragazze non hanno più stimoli, non sanno cosa riserva loro il futuro. Avevamo aspirazioni che non possiamo più seguire. Sogni ora perduti. Tante ragazze pensano a come andar via. Qualcuna, di famiglia più povera, a come superare l’inverno”.


Superare l’inverno è la priorità per molti. “So che i miei figli dovrebbero andare a scuola, ma non abbiamo niente, né casa, né terra, né soldi. Devo mandarli ogni giorno per strada a raccogliere qualche spicciolo”, racconta per esempio Mohammad Agha, 39 anni, fuori dalla tenda in cui si è trasferito da qualche mese. Viene dalla provincia di Parwan, più al nord. Ma qui a Jalalabad il clima è più mite che altrove. “Una delle mie figlie è già morta. Era troppo debole”, racconta dopo averci fatto scendere dal ponte Beshud nel piazzale in cui, insieme ad altri, ha montato una tenda. “L’unica cosa che abbiamo”. Come altre famiglie, quella di Mohammad Agha dipende dai pochi soldi che i figli riescono a racimolare durante il giorno e dalla generosità dei vicini. I figli lavorano, ma sono ancora con la famiglia. Altrove le cose vanno diversamente. A Ghazni, che intorno all’anno mille come capitale dell’impero ghaznavide era il più importante centro culturale e artistico dell’Asia centrale, incontriamo Marziah. Una donna poco più che quarantenne. Un appartamento semplice. Pochi oggetti, essenziali. Nell’appartamento troviamo anche un attivista di 60 anni, un giornalista locale di 35 anni, un funzionario del nuovo governo dei Talebani. Il funzionario non sa bene cosa dire o fare. Non ha esperienza, ma rappresenta il governo ad interim, il potere. Fa promesse vaghe. Ci tiene a essere chiaro: alla storia di Marziah non va data altra pubblicità. Quando lascia l’appartamento, l’attivista racconta di aver ricevuto minacce, dopo aver reso pubblica la vicenda di Marziah: “mi hanno detto che non avrei dovuto avvertire i media locali, che ero un traditore, una spia, perché lavoravo contro il buon nome dell’Emirato”.
Seduta a terra, lo sguardo basso e la voce sommessa, accanto a lei 4 bambine dai 4 ai 12 anni, Marziah spiega di essere una donna sola. “Mio marito era tossicodipendente. Ho avuto il divorzio dal vecchio governo. Ma non c’è nessuno che pensi alla nostra famiglia. Nessuno che porta a casa i soldi”. Non ha più soldi e nessuno che la aiuti. E ha deciso: “sono costretta a vendere mia figlia più grande per curarmi e per far sopravvivere le altre tre”.

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