Lettera da Bergamo. Un tentativo di conciliarsi con la propria città
Mi ero ripromesso, da un po’ di giorni, di non scrivere nulla sul virus. Troppi i pareri, le urla, le giustificazioni, le assuefazioni.
E anche adesso cerco di tenere salda la barra, provando a non parlare di malattia e malati, di soluzione e medicina statistica: non sono un campione e nemmeno un dilettante di queste discipline, davanti a chi può fare dico: “Fate!”, e davanti a chi soffre, per una qualsiasi delle terribili tracce lasciate dalla malattia, cerco di ascoltare prima di dire parola.
Eh allora, perché scrivo con questo preambolo alla Alfred Hitchcock? Per provare a dire una cosa su Bergamo.
Tanti amici chiamano in questi giorni, preoccupati, in giro per l’Italia ed il mondo. Leggono e chiedono: ma lì come va? I numeri li conoscono tutti, la situazione è allarmante, la gente in fila al supermercato e le bare in fila nelle chiese, entrambe le situazioni paradossali e angoscianti per chi non sa quanto cara potrà costargli la spesa del venerdì e per chi non sa quanto gli è costato il mancato saluto, sulla soglia della porta del Pronto Soccorso: un saluto che, vattelo a immaginare, sarebbe stato definivo.
È proprio di questo saluto che credo si debba parlare. Bergamo oggi si scopre una città senza più muratori. Crollati come un muro, sul quale stavano costruendo una loro immagine. Bergamo attacca i morti, nel senso di affissione funebre, infastidita dal clamore disordinato e generale, emergenziale e atroce, che non permette nemmeno un ultimo saluto.
Bergamo è una delle città più cattoliche in Europa. Lo testimoniano le chiese innumerevoli e l’influenza che ancora ha la curia in certe stanze. Un cattolicesimo che ha prodotto progetti caritatevoli, nel senso cattolico del termine, proprio perché ha guardato al suo ruolo religioso anche come ad un ruolo politico e sociale (etimologicamente i tre termini – religione, società, politica – hanno più di un’affinità). Ma che ha creato anche un certo radicamento distorto del proprio essere “illuminati” dal Signore.
Bergamo è una delle città più laboriose del mondo, da sempre, non solo ora, per la frenesia capitalista. Il lavoro, molto più umano nei modi e nelle cadenze, era comunque il centro di una dichiarazione d’esistenza già del mondo contadino. Lo racconta magnificamente Ermanno Olmi: il lavoro non ci nobilita, ci rende parti di un mondo vivo in un modo vivo. Non per nulla, ridendo, un amico anni fa mi disse che ero un “cottimista” del teatro.
Bergamo è una delle città più riservate che esistano, così ben specchiata nelle sue mura venete, massicce protezioni dei segreti antichi e nuovi. Bergamo sta lì, una signorina bellissima (coscientemente bella, bastante, quella bellezza, a se stessa), una signorina che non vuole che la si guardi troppo: vuole che i suoi spazi restino suoi, che la distanza sia di sicurezza (da ben prima del virus). Bergamo vuole che la reciproca conoscenza sia lenta ed anche un po’ diffidente.
Ed infine Bergamo è una delle città più ricche che io abbia mai visto, dove arte e storia, impresa e vendita, denaro e dedizione, si mescolano in una ricetta che porta alla conservazione delle ricchezze, patrimoniali ed economiche, bancarie ed artistiche.
Tutto questo è Bergamo. Un luogo autosufficiente. Fino a pochi giorni fa.
Oggi Bergamo si è scoperta povera (a rischio d’impoverimento), senza lavoro (almeno parzialmente), sotto continui riflettori di indagini statistiche e di colore (così chiamavano al giornale i pezzi scritti “per raccontare un po’ il contorno”. Anche se oggi verrebbe da dire che il colore di Bergamo è il viola di una lunga quaresima).
E poi, soprattutto, oggi Bergamo si è scoperta urlante come il suo Cristo: “Eloì eloì lemà sabactàni”. Crocefissa da un dolore atroce, senza respiro, piegata sulla schiena che ha tanto curvato, nel senso opposto a quello dell’icona del Crocefisso, per rincorrere il lavoro, oggi Bergamo chiede al suo Dio perché è stata abbandonata.
Un Dio, intendiamoci bene, abbandonato a sua volta spesso nelle chiese, e spesso assimilato al dio-denaro, al dio-produzione… Non sono più i tempi delle ordinazioni sacerdotali di massa, scarseggiano i preti e le parrocchie. Ma il sentimento di fondo è rimasto: noi comportiamoci secondo una regola morale, abbiamo a cuore l’ordine, il bene, il santificabile (sia esso l’uno o l’altro Dio) e saremo protetti ad libitum.
Gira una leggenda in città: durante la seconda guerra mondiale si dice che Bergamo non sia stata bombardata per aver fatto un voto alla Madonna: se avesse risparmiato la distruzione, gli abitanti avrebbero evitato che la città aprisse luoghi di perdizione dopo la guerra. Il dovere prima di tutto, in cambio di un profitto, più o meno economico, più o meno dichiarato.
Invece adesso il profitto manca. Manca dichiaratamente perché molti luoghi di lavoro sono chiusi. O poco frequentati (centri commerciali bui, muti e con la musica di sottofondo per decine di negozi, non alimentari, chiusi, supermercati semi-barricati e disperazione sui volti dei pochi clienti affamati di prodotti, fantasmi desertici che richiamano la scomparsa del benessere).
Ma manca il profitto della propria terra promessa: ero stato buono, avevo fatto tutto in ordine, ed ora perché questo? È una domanda fondamentale per capire cosa sta accadendo: noi abbiamo fatto, lavorato, rispettato, pagato, costruito… Ed ora arriva questo, così misterioso, straniero, lontano, sconosciuto male. Perché?
E ancora di più manca la riservatezza, l’intimità inderogabile del dolore bergamasco: posso soffrire, star male, essere sommerso dal dolore, ma tutto ciò rimane in me, nel mio Sacrocuore, nella mia intimità che non deve essere intaccata da un esterno a cui io non riconosco valore o perlomeno non mostro confidenza.
La diffidenza è un concetto tipico dei luoghi di frontiera, basti pensare al Portogallo… Bergamo è stata per secoli estrema landa a difesa di Venezia, anche se lontanissima dal mare, ed estrema nemica dell’ancor poco tollerato, oggi come ieri, milanese.
Proviamo a mescolare questi ingredienti. Una violenza si abbatte su di me, che sempre ho cercato di rispettare i patti del gioco. Questa violenza mi toglie il fondamento su cui ho lavorato, e sul quale ho preservato la sicurezza di una possibilità futura. Le chiese tornano a riempirsi, inspiegabilmente, di inspiegabili bare. Inaccettabile.
Ma più che inaccettabile, tutto ciò viene reso lacerante, straziante come il grido di Edipo che scopre d’aver ucciso il padre. Lo diviene quando, in maniera incontrovertibile, il rimestamento della violenza, l’ultimo gesto di agapè tra i morti e i vivi, diviene un momento negato, un’impossibilità. Dopo Edipo ci sarà Antigone, che proprio per sotterrare il morto fratello perderà la sua vita e molte altre.
Credo sia questo che più di tutto sta piegando Bergamo: lo scoprire inutile l’affannarsi sotto il sole, vanità delle vanità, laddove, ed è evidente, questo non concede nemmeno la possibilità di un bacio sulla fronte fredda e ormai impallidita. La dignità di una sepoltura riservata, intima, preziosamente cattolica.
Bergamo sta imparando, come allievo intelligentissimo ma davvero troppo sollecitato, che forse serviva altro e che i suoi tesori stavano sommersi molto più in profondità, nella memoria delle mura venete. Che ci sia un’altra possibilità nelle fondamenta della città? Mi viene da citare Aldo Capitini ed il suo Colloquio Corale per provare (provare, sia beninteso) una risposta a questa domanda:
Liberare, liberare, oh lo potessi per tutti.
Appassionato, parola da forte, per salvare dal dissolversi quotidiano.
Soltanto un proseguire perché si è nati?
E il dolore, la morte, gli squilli di tutto ciò che è bello, onesto, vero?
Meglio l’orizzonte, e cercarlo più ampio, impiccioliti lo spazio ed il tempo.
Sole acque e piante, ed esseri tutti viventi, vi uso più che come immagini.
Non voglio perdere ciò che è molto di più del tempo.
Una sincerità, un inno uno slancio, un dare invece di chiedere.
Chiamo a popolare un mondo liberato, parlo instancabile.
Troppo soffro, e l’infinito tesoro di un giorno, se ne va l’uno dopo l’altro.
Ho il diritto di sciogliere questa realtà di distanze e di ignoto.
E allora tutti gli esseri, non si chiuderanno più nel quotidiano.
Liberi di vivere, angelici e sereni, come le musiche.
A cosa porterà questa ricerca, dove andrà questa domanda sulle ricchezze bergamasche (ma forse un po’ italiane), oggi non lo sappiamo. C’è un’altra corsa che inquieta: quella di sirene assillanti che portano via il passante, il professore, il vicino di casa, la zia, la mamma, noi stessi. Oggi è indubitabile la necessità di essere cottimisti dell’attenzione e del supporto reciproco. Ma anche, al tempo stesso, cottimisti dell’attesa e della pazienza.
Pazientare che il suono delle sirene si disperda, lontano, un giorno. E non resti nella testa che il ridondare di quel suono, reale per tante notti e poi immaginato, per tanti giorni. Lasciarla andare quella sirena. E con monacale pazienza, cercare, riflettere, silenziare di nuovo la riservatezza della terra. Per capire se dentro a questo silenzio sappia nascere un modo diverso per guardare il mondo. Coscienti di un benessere sudatissimo. Ma anche irrequieti ripetitori di una necessaria Domanda: Eloì Eloì…
Vanità delle vanità…