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Letizia Battaglia. Un ricordo

23 Aprile 2022
Alessandra Mauro

Che il suo nome fosse un presagio di tutto quel che poi è accaduto nella sua vita, o meglio – di quel ha voluto farne della sua vita, forse non lo sapeva neanche lei, Letizia Battaglia, quando ha cominciato a intraprendere una particolare ed eccentrica carriera di fotografa. Una carriera fuori del comune, fatta di partecipazione, tenacia, guizzo e intelligenza. Tenerezza, anche, e appunto gioia, letizia. Ma fatta anche di tanta violenza, tanto sangue e tante battaglie da documentare e, spesso, da rivendicare.

Lezia Battaglia nasce a Palermo nel 1935, figlia della borghesia cittadina. Il padre, marittimo, è costretto a viaggiare spesso, portandosi dietro, nelle peregrinazioni del suo lavoro, la famiglia in giro per l’Italia: Napoli, Civitavecchia, Trieste.

Letizia tornerà a Palermo nel 1945, a dieci anni. Studia, si muove per la città; è piena di idee, curiosità e aspirazioni che però vengono presto frustrate da una vita compressa e dall’apparente necessità, per una ragazza della generazione dell’immediato dopoguerra, di attenersi a un comportamento stabilito e rigido, seguendo il volere dei genitori, rispettando il padre in attesa di un marito, e nel frattempo eludendo le orrende avances sessuali di maniaci ed esibizionisti, consapevole ad esempio di quanto alcune attività, come lo studio,  siano superflue visto che il suo destino, per quanto soffocante si prospetti, è già stato stabilito.

Ma Letizia si ribella. Certo, lo fa a suo modo – quello di un’adolescente che non conosce altra soluzione per fuggire da una famiglia, che crearne un’altra: si sposerà a 17 anni neanche, dopo una “fuitina” con Franco, di sette anni più grande. E si sposerà senza vestito bianco, per punizione.

Arrivano i figli, prima Cinzia, poi Shobha, poi Patrizia. Ma la liberazione che Letizia cercava non avviene in questa nuova casa, opprimente quasi quanto la prima.  Cominciano gli attacchi di panico, il dolore che diventa fisico, palpabile.  E con questo, i possibili rimedi – quelli che si usavano allora per curare “i nervi delle donne”, come i potenti farmaci o la cura del sonno.

E la rinascita di Letizia comincia proprio da qui, da questo grumo infetto, da questa angoscia ancora senza nome: si rifiuta di sottostare alle terapie delle cliniche svizzere e decide, tornata a Palermo, di iniziare un percorso di psicoanalisi che ribalta il senso della malattia e della cura e pone lei, i suoi bisogni, la sua specificità al centro dell’attenzione. Così, come lei stesso ha scritto in una recente biografia, riesce finalmente ad acquisire quel coraggio e quella consapevolezza necessari per diventare la donna che sarà.

Negli anni Settanta prova con la scrittura: è a Milano con le figlie, lontano dal marito-padrone, e comincia a scrivere per i giornali. E accanto alla scrittura, per corredare di immagini, i suoi testi, scopre la fotografia. Come per altri fotografi, si tratta di un incontro casuale ma allo stesso tempo, fatale. La forza dell’immagine, la sua incredibile sintesi di segni, di figure e di storie, può affascinare, irretire e soprattutto, aiutare in un cammino di identità.

“Volevo fare la scrittrice. A fotografare in modo serio, ho cominciato nel 1974”.  – ha detto in un libro-dialogo con Goffredo Fofi, pubblicato recentemente da Contrasto. “Prima ero giornalista o meglio, scrivevo per guadagnarmi il pane. Poi ho capito che con le foto vendevo meglio i servizi. Quando mi trasferii a Milano fuggendo da Palermo, cominciai anche a fare fotografie, perché questo mi aiutava a vendere le corrispondenze e gli articoli che andavo scrivendo. … Ripeto: ho cominciato a fotografare per caso, ma lentamente questa è diventata per me come una sorta di colonna vertebrale nuova. Ma nessuno mi ha insegnato, ho imparato da sola, sempre sbagliando. Ancora adesso non so come è una macchina fotografica ma lavoro molto di istinto. Con la fotografia sono finalmente riuscita a essere una persona: non ero più una moglie, non ero un’amante, non ero bella, non ero giovane, ma ero una persona che faceva testimonianza di qualcosa. Con molta convinzione”.

Questa è la chiave, penso, per comprendere il grande lavoro fotografico e di impegno sociale di Letizia. Lei era una persona che con il suo linguaggio, fatto di sguardi e di tecnica fotografica, vedeva e raccontava con semplicità e immediatezza quel che vedeva in torno a sé.  Così, in anni di lavoro per il quotidiano L’Ora di Palermo e accanto a colleghi e collaboratori, è stata in grado di documentare la stagione della mafia dei Corleonesi e l’orrore che anni di marciume avevano inflitto a Palermo e alla Sicilia in immagini tanto vivide quanto sconvolgenti. Ma è riuscita anche a fermare attimi di inattesa libertà – come alcune performance seguite, realizzate e documentate nell’ospedale psichiatrico della città, o le tante feste popolari che tra una pausa e l’altra del lavoro seguiva per i paesi della Sicilia, in compagnia di fotografi come Josef Koudelka in una sorta di continua “festa mobile per gli occhi” fatta di immagini, riti sociali e gesti antichi. Ed è riuscita, ancora di più, a riprendere in fotografie di struggente perfezione le sue bambine, una serie di ragazze colte nel momento delicato di passaggio tra l’infanzia e la vita adulta. Sono adolescenti complesse, dai corpi in trasformazione e dalla bellezza profonda, difficile da decifrare. Ragazze che sono “magre, con i capelli lisci e le occhiaie. Amo fotografarle. In loro cerco un po’ di me”, ha detto Letizia.

Come sempre, poi, per Letizia una cosa sola non è sufficiente. Fare fotografie straordinarie, che sono pubblicate dai giornali, che vincono premi e vengono poi organizzate in mostre e in libri, è una parte del proprio essere nel mondo e anche Letizia, recuperando una nobile vocazione della fotografia di documentazione sociale, ha cercato di fare delle sue realizzazioni uno strumento per le sue lotte.

“Però a me questo non basta”, ha scritto. “Io non mi sento solo una fotografa, mi sento anche qualcos’altro, una persona che non si lascia sedurre dal potere, dalla fama, dal successo, una persona che vuole trasmettere qualcosa di più di una semplice testimonianza fotografica”. Così, le sue fotografie sono espressioni di un linguaggio, affermazioni di una presenza, forme di un intervento politico preciso che nel tempo si caratterizza e si precisa fino all’incarico come consigliera e poi assessora al Verde di Palermo. Ma anche come organizzatrice di riviste, di libri (i volumetti delle edizioni della Battaglia), di spazi espositivi (il centro fotografico alla Zisa di Palermo, da lei fortemente voluto e diretto) nella certezza che uno sguardo diverso, nuovo, porta necessariamente a un nuovo, diverso modo di essere nella società e nel mondo.

Subito dopo la morte di Letizia Battaglia, avvenuta come una sorpresa annunciata nella serata del 13 aprile scorso, a 87 anni, in molti hanno cercato di raccontare la forza della sua esperienza, l’impatto che le sue immagini hanno avuto sulla stampa dell’epoca, l’indignazione e l’ammirazione che suscitarono, così come la loro risonanza internazionale. Altri si sono soffermati sulla sua indomita capacità di andare avanti, di ribellarsi sempre e comunque, di non accettare quel che semplicemente non può essere accettato. Altri ancora hanno parlato del suo incredibile attaccamento alla vita, anche questo alimentato da una tenacia unica e da un affetto sincero e profondo per le persone che l’hanno amata, ammirata, seguita.

E se alla fine di questo ricordo dovessimo riassumere in poche parole il senso di un’esperienza piena, ricca e sfaccettata come la sua, forse potremmo proprio tornare alla nozione di dolore come centrale di tutte le sue realizzazioni; quelle dedicate alla mafia e alla cronaca nera cittadina, come quelle dedicate alla vita bella e misteriosa di Palermo, alle bambine pronte a lasciare l’infanzia per una maturità incerta, ai vicoli e le strade dei paesi della Sicilia. Ogni immagine del suo grande archivio racchiude un grumo di dolore che si mostra, si sfalda, a volte si nasconde di fronte all’osservatore. Quel dolore che Letizia per prima ha provato sulla sua pelle e poi ha riconosciuto, ritrovato e documentato per noi in tante immagini, in tanti frammenti di luce.


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