L’eterno ritorno del fascismo
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 60 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.
Il fascismo non è più quello di una volta, siamo grossomodo d’accordo. Ma a differenza di “una volta” – diciamo dalla sua sconfitta nel 1945 – i suoi emuli possono vantare di esserlo: con appena qualche prudente sfumatura se si trovano al governo di un paese; senza remora alcuna se si tratta di adottarne il linguaggio. “Se ne fregano”, infatti.
È stata la grande penna di Maurizio Maggiani a tornarci su, con una lezione civile d’autore su “La Repubblica” (“Antifascismo è non dire mai me ne frego”) di cui essergli grati. Perché la questione sta nella realtà delle cose ma anche – e in questo caso soprattutto – nelle parole che la plasmano, da un lato, e dall’altro la descrivono.
Il fascismo, avvertiva Maggiani “è una cosa complicata che va studiata bene per non sbagliare e confondere”. E ha ragione. C’è stato, in Italia e non solo, un tempo, trenta, quaranta anni fa, in cui essere di destra o anticomunista conferiva a chi rientrava in una delle due categorie l’epiteto di fascista. Un modo rude e superficiale per chiudere la bocca a un avversario politico o per additarlo all’ira delle masse. Specularmente, entro la cornice dell’antifascismo una accorta operazione di propaganda aveva iscritto, giustificandolo, il totalitarismo sovietico e quello ideologico dei suoi succedanei. Un doppio abuso terminologico, diciamo così, che ha finito per svilirne il contenuto. Non che i fascisti fossero meri fantasmi che popolavano i sonni agitati di una sinistra inappagata: si rilegga la Storia e si guardino gli organici di questure, prefetture, magistraura. Dalla prova di forza a Genova, nel 1960, a Piazza Fontana, 1969, in poi, i fascisti stessi si incaricarono di ricordare a tutti che la loro sconfitta non ne aveva determinato la scomparsa.
Ma non è esattamente di questo che si tratta. Allora un fascismo residuale attentava alla democrazia (trovando all’interno delle sue istituzioni coperture e complicità). Oggi siamo qui a domandarci se quello in carica in Italia, il più a destra della storia repubblicana, si può definire un governo fascista, o quantomeno innervato da quella cultura politica. E non è un’analogia pretestuosa, come pretendono che sia le compassate grandi firme del giornalismo, come Paolo Mieli. Ma non è neppure un interrogativo accademico, come sono inclini a intenderlo gli storici. Con maggiore spessore, anche Emilio Gentile (che tale analogia rifiuta e chiama piuttosto “democrazia recitativa” quella in cui oggi viviamo) ha puntualizzato che i fascismi storici “negavano la sovranità popolare; erano fondati su partiti armati e dotati di programmi totalitari e di controllo generale della società; e praticavano una politica di espansione territoriale attraverso la guerra”. Tutte cose, è vero, che Matteo Salvini non ha (ancora) fatto. Al contrario, nella sua propaganda (come in quella di Le Pen, Orban, Kaczynski, e naturalmente dei 5stelle) la sovranità popolare è un autentico totem. Ma l’argomento rischia di essere troppo ingenuo per risultare in buona fede, dato che qui di politica si tratta, e il governo di un Paese non è un seminario di storici. Forse Eco o Pasolini saprebbero spiegarlo meglio.
Osserviamo lo spirito del tempo, quella maglietta con la scritta “Auschwitzland” indossata da una stolta donna a Predappio; la desertificazione della sinistra; il risentimento piccoloborghese; l’adozione, per ora soltanto promessa, di politiche sociali mirate (“le prime marchette [i contributi previdenziali] le ha messe il Duce”, mi disse in tutta buona fede una vecchietta nostalgica); il disprezzo come solo argomento dialettico; un balcone – i “social” – infinitamente più performante di quello di Palazzo Venezia; il riconoscibile accomodarsi di un certo ceto economico al prossimo avvento di un governo Salvini (una volta liberatosi dei prestanome grillini), paragonabile, secondo Piero Ignazi, al cinismo miope che nel 1922 indusse agrari e industriali a professare fedeltà a Mussolini; e infine un contesto internazionale di smarrimento post-traumatico.
E allora se non fascista, come definire diversamente un governo il cui dominus flirta con l’estrema destra di quella fatta, ne sollecita il voto, ne asseconda le pratiche, ne copre le schifezze e ne adotta il linguaggio? In cui siede un ministro, Lorenzo Fontana, che di quell’area è schietta espressione? Di quale pensiero politico è espressione il ministro di polizia che – superando persino Berlusconi e competendo, va detto, con Renzi Matteo, esibizionista televisivo – ama mostrare il petto nudo come un Mussolini alla battaglia del grano? Che vuole censire razze “inferiori” o comunque “asociali” (compagno di partito, del resto, dell’altro Fontana, Attilio, presidente lombardo, che parla di “razza bianca”)? Che ha organizzato il proprio discorso politico attorno alla costruzione di un nemico, l’Europa e i “poteri forti” di cui è serva; vaghi, ma non troppo, parenti del complotto “pluto-giudaico-massonico” di antica memoria? Libertino mangiapreti ma baciapile brandente un vangelo o un rosario, chissà mai che ci siano altri patti lateranensi da firmare? Che lavora a un lavaggio del cervello identitario per il cui successo si prodigano ormai fior di professionisti nell’informazione e nella scuola? Che usa twitter come olio di ricino per chi lo contesta? E che, soprattutto, “se ne frega” e ne mena gran vanto?
Se non gli storici, di nuovo gli scrittori. “Quest’epoca – ha scritto ancora Maggiani – si è ingravidata di fascismo. (…) Il popolo, sbigottito, incoraggiato dagli appositi segnali luminosi, ha preso a esultare, i miliziani della disgrazia hanno cominciato il loro giro di propaganda, ed è stato tutto un sibilare, un canticchiare, un cadenzare di me ne frego”. Mentre basterebbero gli occhi per vedere distintamente “montagne di teschi sotto i piedi di coloro che postano me ne frego”. Senza neppure più la fragilità resistente di un “I care” (a suo tempo vandalizzato da Veltroni) a fare da diga, se non in esemplari, disperse esperienze di amore per il prossimo.
Ma è vero, se ne dicono così tante di cose (e si cantano: chissà a che cosa pensava Vasco Rossi volendo “una vita che se ne frega”). E le parole non sono ancora azioni. Ma le parole della politica le anticipano e le giustificano. Chi usa parole fasciste ne prepara l’avvento.