L’esigenza profonda di una nuova economia

Intervista a Luigino Bruni
Cominciamo dal tema della gratuità. In La ferita dell’altro (nuova edizione Marietti, 2020), lei propone un’analisi sull’economia moderna come una scienza senza gratuità, un paradigma che ultimamente stanno sconfessando molti economisti. Ebbene, sulla gratuità, lei dice che “regalo” è una parola molto ambigua, tra l’altro ha la stessa radice di rex, quindi nasconde una certa sudditanza di chi regala nei confronti di chi riceve il regalo. Ma la stessa sudditanza potrebbe essere rovesciata: chi riceve il regalo potrebbe sentirsi in obbligo e chi regala si aspetta qualcosa in cambio. Non per niente la parola "gift" in tedesco significa “veleno” e in inglese “dono”. E non c’è dubbio che la gratuità nell’economia è in parte un veleno, cioè ha anche avvelenato l’economia, paradossalmente. Noi oggi siamo inondati di una gratuità un po’ falsa: quanto il regalo, il dono, l’offerta è veleno nell’economia e quanto invece è antidoto?
Questa parola, “dono”, ma anche altre, “amore”, “libertà”, sono parole che uno le può capire se abita la loro ambivalenza. Se uno le considera solo buone o solo cattive, finisce nell’ideologia, perché dove non c’è l’ambivalenza c’è sempre l’ideologia, che vuol dire far diventare la parte il tutto. Quindi ho cercato di abitare questa ambivalenza: c’è una gratuità che aiuta la vita e una che le fa male. Tutti conosciamo il dono che fa la madre dello studente perché poi spera che il professore sia più buono all’esame, o per arrivare ai doni patologici dei mafiosi che ti dicono “accettalo, poi quando ti dirò io me lo ridarai indietro”, e quindi accettare il dono è l’inizio della relazione mafiosa. Ecco perché tutti gli antropologi del dono fanno molta attenzione sull’accettazione e perché la Bibbia ha sempre guardato con molto sospetto il dono. Da una decina di anni commento laicamente la Bibbia perché è un codice enorme dell’Occidente. E nella Bibbia i doni sono visti male. Tranne i re Magi e poche altre eccezioni, la Bibbia, sia nei Salmi, sia nei Profeti, dice: “Non prendete i doni”; come dice Isaia: “Scuotete le mani quando vi fanno i doni”, perché il dono obbliga alla restituzione e ti mette dentro rapporti di tipo clientelare. Poi distingue: più i regali che i doni. Ma anche il mondo latino conosceva il mūnŭs, che era al tempo stesso dono e obbligo; quindi questa etimologia di “comunità” che fa Roberto Esposito, un po’ fantasiosa, ha anche un po’ di vero: la comunità è un intreccio di doni e di obblighi, cioè dei due tipi di munera. In sostanza è il grande tema della libertà, perché dietro la gratuità non c’è sempre rispetto della libertà, perché il dono che non è subito reciproco, non è subito tra uguali. Quando c’è di mezzo un’asimmetria di ruoli, di potere, di soldi, i doni tendono ad aumentare questa stessa asimmetria. Al tempo stesso tutti sappiamo quanto è bello ricevere doni, quanto è importante l’eccedenza sul doveroso, sappiamo che gli esseri umani sono animali capaci di autotrascendersi, cioè di andare al di là dei contratti, anche questo è dono. Quindi la gratuità in sé non è né bene né male assoluto. Forse li contiene entrambi, è tutte e due. Prendiamo per esempio il volontariato, che normalmente viene visto come il regno della gratuità e del dono (e tra “dono” e “gratuità” c’è una differenza). Il volontariato è un ambito della vita, una sua dimensione, una realtà che può essere più o meno pervasiva; può penetrare anche nelle imprese, nella politica, ovunque. Se mi ricorda, con la sua essenza, che il dono serve ovunque, allora mi sta bene, ma se il volontario diventa il monopolista del dono, allora diventa una disgrazia perché mi dice che al di fuori del no-profit, delle associazioni, non c’è spazio per il dono nelle aziende, nella vita normale. Sarebbe un messaggio molto triste, ed è quello del capitalismo filantropico del nostro tempo, il quale ti dice: c’è il 2% dell’economia dove c’è il dono, mentre nel restante 98% basta il contratto. Io cerco un approccio laico a parole come questa, molto abusate e logorate da ideologie cattoliche, socialiste, liberali. Ognuno ha preso queste parole e ne ha fatto una specie di scarabocchio. Cerco di parlarne senza né idolatrarle, né condannarle, con uno sguardo più positivo che negativo perché se fossi uno contrario o tendenzialmente troppo critico sulla gratuità non ci avrei dedicato tutto questo tempo. Perché si studiano anche le cose che si amano. Ciò non mi impedisce di evidenziarne anche gli abusi e le patologie. Non dimentichiamo che il primo fratricidio è legato a un dono. Nella Bibbia, Caino, diversamente da Abele, faceva i doni a Dio e Dio non li voleva; questa frustrazione per un dono non accettato produsse il primo fratricidio. Per cui è una cosa molto seria. La gratuità, i doni, le aspettative, le pretese, le reciprocità mancate, sono degli ingredienti che si trovano nel cuore di ogni civiltà e non possiamo considerarla una faccenda per specialisti o per i buoni che si occupano del dono. Il dono è la vita, noi nasciamo e se non avessimo qualcuno che ci accoglie con il dono, moriremmo immediatamente. Un rischio che si corre quando si parla di dono e di gratuità è di associarli all’infanzia, a quando eravamo piccoli, alla mamma che ci voleva bene, e quindi di guardare ai doni in modo nostalgico, ingenuo, senza vederne gli effetti collaterali. Perché si abbina il dono alle cose romantiche, sdolcinate, e quindi ci si dimentica che il dono degli adulti è un po’ diverso dal dono dei bambini. Il dono nella vita pubblica ha un altro significato.
Tra le tante cose che ho imparato da lei è che sant’Agostino è stato forse il santo che in qualche modo ha sdoganato il capitalismo. Forse più di altri in Europa. Al contrario di Pelagio, sant’Agostino ha ammesso che potessero esserci anche dei ricchi e appunto ha contemplato la filantropia come metodo di attenuazione delle disuguaglianze. Però quello che proprio veramente ha affrontato le aporie dell’economia in modo radicale è san Francesco. Il francescanesimo rompe completamente tutti gli schemi, perché crea proprio un’economia diversa, un’utopia che lei dice che noi oggi non abbiamo neanche più i codici per capire. Lei, Luigino Bruni: la povertà di san Francesco è totalmente incomprensibile per non parlare della spoliazione come atto fondativo del francescanesimo: il non possesso pone dei problemi anche giuridici, perché come si fa a non possedere niente? È quasi impossibile, il sine proprio predicato fino allo stremo da Francesco. Quindi le chiedo: questa cosa, quasi inimmaginabile, è ritornata forse sotto qualche altra forma nella nostra economia? Anche oggi, in un certo senso, assistiamo a un “uso senza possesso” che è diventato quasi comune nell’economia. Io che mi occupo di gestione di patrimoni, di passaggi generazionali, ho avuto modo di studiare il trust, che in qualche modo è una forma di spoliazione, cioè è un proprietario che si libera del possesso. Questo rifiuto del possesso che sta pervadendo la nostra economia, che tipo di legame ancestrale può avere con il francescanesimo? Se ce l’ha.
La povertà di san Francesco è totalmente incomprensibile per noi. È difficile capire le correnti profonde della cultura europea, dove è la radice di un fiore che vediamo spuntare. Dietro questa storia del sine proprio di Francesco, c’è un umanesimo intero. Una cosa enorme. C’è l’esempio, le profezie di Gioacchino da Fiore, che hanno avuto un grandissimo ruolo nel Medioevo. Quest’idea del mistico calabrese che ci sarebbe stata un’era dello Spirito Santo, dopo l’era del Figlio – nel primo millennio –, di un ritorno a una fase dell’umanità, di una nuova purezza. E i francescani leggevano come il profeta dell’età dello spirito, che sarebbe cominciata a un certo punto nell’umanità, loro pensavano abbastanza presto; quindi c’era questa attesa messianica nuova. Non è che il cristianesimo, perché ha letto il messia in Gesù, abbia smesso di aspettare un eschaton, un tempo diverso, una storia nuova. Poi questo ha dato vita a tutti i miti utopici della modernità, alla Città del Sole, alla Utopia, fino al marxismo; il sogno cioè di costruire una Terra finalmente diversa, senza le ingiustizie legate all’uso del denaro. Capire quanto ci sia oggi in certi temi dei beni comuni, del software libero, del trust, di queste antiche radici, è difficile ma affascinante. Quello che sicuramente io credo è che ciò che noi non abbiamo fatto con i beni privati lo dovremmo fare con i beni comuni. I beni privati hanno seguito la logica di Bernardone, non di Francesco, cioè la logica della proprietà privata. Non siamo stati capaci di immaginare un mondo senza padrone, senza un rapporto predatorio con i beni e con le cose. Perché è stato quello il mondo, cioè dopo cento anni Urbano III dice: “No, non è possibile non essere proprietari, dovete almeno essere proprietari dei conventi, dei vestiti e del cibo”. I francescani non volevano neanche il cibo, dicevano “noi vogliamo usare le cose senza essere proprietari”, “come i cavalli” dicevano loro “che mangiano la biada, ma non sono padroni”. E però la Chiesa disse dopo cento anni, non dopo cento giorni – anche con argomentazioni sofisticate, studiate tra l’altro molto bene da Giorgio Agamben – no, non è possibile, dovete essere proprietari. E quindi l’umanità ha seguito l’economia dei beni privati. Ma oggi, con la terra, con l’ambiente, se noi non impariamo a usare i beni senza mangiarceli, noi distruggiamo tutto. Quindi l’altissima povertà, che non è stata la cultura dell’economia capitalistica, può diventare la cultura dei beni comuni, se vogliamo sopravvivere. Perché dobbiamo cominciare a guardare agli oceani, alla terra, al pianeta, all’aria, all’acqua come beni di cui non siamo padroni; li usiamo tutti ma non sono di nessuno, non possono essere o diventare bene di nessuno, perché altrimenti andrebbero distrutti. Ci sono questi segnali nel tema del web, della rete? Ma anche lì, siamo sicuri che sono beni liberi? Il problema del potere delle multinazionali nel mondo, Google, Facebook, Microsoft, dovremmo anche domandarci questo. Però esiste qualcosa, delle tendenze, che ci dicono che sta cambiando il rapporto tra proprietà e uso. Quanto ci sia di Francesco dietro non lo so, è talmente grande il suo carisma che è difficile capire fin dove può influire nella storia delle idee. Io credo ad esempio che questo Papa nello scegliere il nome Francesco ha voluto dire qualcosa. Noi abbiamo eletto san Francesco patrono d’Italia, vissuto ottocento anni fa, e abbiamo dovuto aspettare un Papa argentino che abbia scelto di chiamarsi Francesco. Può anche essere l’inizio di qualcosa di nuovo. Un’enciclica che si chiama Laudato si’, un’altra Fratelli tutti, fratres, che era il nome dei francescani. La fraternità l’hanno inventata i francescani, come la povertà. Come ho scritto in un articolo, nessuno, compreso Gesù Cristo, ha vissuto la povertà come Francesco. Qualcosa di assoluto che non capiamo nemmeno più, questa follia di Francesco per la povertà. Sto studiando nelle ultime settimane su “Avvenire” questi temi francescani, una cosa pazzesca. I francescani non potevano toccare il denaro, le monete, nemmeno con un bastone diceva Francesco, nemmeno con la cera, e poi hanno inventato le banche. Queste sono tra le cose più assurde e meravigliose del Medioevo: tu non puoi toccare nemmeno con un bastone le monete e inventi le banche popolari per i poveri, a metà Quattrocento: Gubbio, Perugia, Spoleto e centinaia di monti di pietà fatti dai francescani. Da una rinuncia totale al denaro nascono le banche, e nascono banche diverse. Noi dovremmo un giorno dimostrarlo, questo: se esistono gli istituti industriali, se abbiamo un capitalismo diffuso, popolare, distribuito nei piccoli centri è perché non abbiamo avuto poche banche di ricchi, abbiamo avuto tante banche per i poveri, per le famiglie. Che erano i monti di pietà, poi le casse di risparmio, le casse rurali, che sono figlie di questi monti.
Dobbiamo cominciare a guardare agli oceani, alla terra, al pianeta, all’aria, all’acqua come beni di cui non siamo padroni.
Le voglio riportare una battuta di Totò. Parlavamo di sant’Agostino, che in questo discorso può essere considerato, me lo passi, l’anti-Francesco, e nei Tartassati a un certo momento Totò dice che la patrimoniale è agostiniana.
Nel senso che ha una visione un po’ pessimistica sul denaro, oppure che i ricchi devono dare una parte dei loro beni come elemosina. Tutte e due poi sono legate, il pessimismo antropologico e l’elemosina, perché dovendoti accontentare di uomini che sono egoisti, gli puoi chiedere un po’ di elemosina ma non troppo. Se si parte da un’antropologia negativa come quella di Agostino – è lui che inventa il peccato originale come teologia, di fatto – chiaramente devi partire dall’idea che l’essere umano più di tanto non può darti, devi trasformare i vizi in virtù; ecco perché noi facciamo vedere in tutti i nostri lavori che l’economica politica anglosassone è tipicamente neoagostiniana, perché non potendo far affidamento sulle virtù civili devi accontentarti dei vizi, trasformandoli in virtù con la mano invisibile. La gente è così com’è, non puoi chiedere troppo nella sfera pubblica, quindi devi mettere in atto dei meccanismi istituzionali che tirano fuori del bene dagli egoismi, questo è il capitalismo. E quindi ha come sempre ragione Totò, che è uno dei più grandi intellettuali del Novecento italiano. Il mondo cattolico però è sempre rimasto più vicino a Tommaso d’Aquino, quindi all’idea che l’essere umano anche se ha il peccato rimane capace di virtù. Perché era neoaristotelico Tommaso, aveva una visione delle virtù civili. E quindi cosa hanno inventato i paesi latini: l’economia di mercato con i corpi intermedi; tu devi creare dei livelli intermedi per gestire il limite che hanno gli esseri umani, ma senza rinunciare alle virtù civili; e quindi il capitalismo mediato dei corpi intermedi italiani, delle corporazioni, dei sindacati, delle associazioni, di questi mille livelli di governo, che è tipico della nostra storia; che non è quella degli americani, degli olandesi, dei paesi calvinisti, dove invece c’è l’individuo, lo Stato e il mercato. In mezzo c’è molto poco, se non organizzazioni mercantili. Questo per me è molto importante: se, come Italia, non ci inventiamo un mito fondativo positivo che non sia soltanto mafia, corruzione, Stato, Chiesa, clientelismo, eccetera, noi difficilmente riusciremo a trovare un futuro. I paesi senza mito fondativo sono paesi che vanno in declino. Anche per questo stiamo cercando di raccontare l’economia civile, non tanto per fare archeologia, ma per dire che l’Italia è anche questa economia, non è solo l’economia parassitaria che tutti vediamo.
Un altro discorso che mi tocca molto da vicino è il parallelo che lei fa tra il monachesimo e le grandi corporation attuali. Il monachesimo è stato un fenomeno molto grosso, come lei dice, i conventi sono stati dei prototipi di grandi aziende. Non per niente hanno inventato prodotti, processi. La formula dell’ora et labora ha creato un nuovo modo di gestire il tempo, come lei ci spiega molto bene quando parla del kairos vissuto dai monaci all’interno dei monasteri. Piergiorgio Giacchè, un antropologo collaboratore della rivista, però mi ha citato questo detto umbro: “Io sto con i frati e zappo l’orto”. Che è un po’ come dire: il monachesimo nasconde anche una forma di opportunismo, un ritirarsi dal mondo ma anche proteggersi dal mondo, forse un po’ vigliaccamente. Un atteggiamento che può anche essere letto come preludio all’animus oeconomicus. Questa ambivalenza la si riscontra nelle grandi corporation, nelle grandi aziende, ma anche nelle piccole: fare dell’azienda una missione, una mission. Allora mi chiedo: l’azienda, piccola o grande, può essere un veicolo di valori etici per tutta l’economia?
Io ho uno sguardo in genere molto positivo sull’economia. Noi dobbiamo tenere presente che, direbbe qualcuno, l’impresa è una delle forme di libertà dei moderni, cioè la gente fa impresa per esprimere la propria personalità, soprattutto nelle imprese medio-piccole. Poi è ovvio che quando si va nei fondi di investimento, nel private equity, nelle grandi realtà anonime, lì diventano altre cose, non dico tutte negative, ma certamente diverse. Però l’impresa medio-piccola che nasce attorno a una persona, una famiglia e spesso la lascia a un figlio o una figlia, chiaramente contiene un sacco di roba oltre ai soldi: c’è orgoglio, la voglia di farsi stimare dai vicini di casa. I figli fanno i compiti dentro l’azienda. È tutto molto intrecciato, vita, passioni, delusioni, dolore, ecco perché a volte quando un’azienda fallisce alcuni si suicidano. Non è la grande corporation. Noi dobbiamo sapere che l’impresa italiana del Novecento è nata spesso da ex mezzadri, soprattutto nel centro Italia, ex artigiani, contadini. In Italia tra il 1971 e il 1980 siamo passati da 300mila aziende a un milione, abbiamo fatto 600mila aziende in nove anni, ed erano tutti mezzadri, artigiani, contadini che erano già imprenditori e hanno messo su delle attività come sviluppo della loro vita e che hanno messo in quelle aziende tutte le loro virtù civili, la pietà popolare, gli ideali comunisti, i nonni e la loro voglia di futuro migliore per i figli. L’impresa è anche tutta questa roba qua, ecco perché bisogna guardarla con molto rispetto. E invece vedo con una certa diffidenza l’inquinamento che sta arrivando in tutte le medie e piccole imprese, di una certa mentalità del business nordamericano, che racconta un altro tipo di impresa molto poco legato alla terra, più legato ai social. Basta guardare la differenza tra i nuovi manager che vengono dalle business school della Bocconi e gli imprenditori della generazioni dei nostri genitori. Erano due antropologie molto diverse di fare impresa, del rapporto con il denaro, con il lusso. Gli imprenditori di prima (ora sono tutti in pensione o quasi) era gente sobria, difficilmente li vedevi ostentare la ricchezza, c’era il buon senso che la ricchezza è bene non farla vedere perché non è bene essere invidiati dalla gente, quindi tu devi mandare i figli a scuola con gli altri, con i poveri, certe storie dei figli che vanno nelle scuole private dell’élite non esistevano perché tu dovevi farti voler bene dalla gente, anche se eri ricco. E quindi dovevi essere amico, andare la sera in osteria a giocare a carte. Questo, senza essere nostalgici, non c’è più nel capitalismo contemporaneo. Certamente ho uno sguardo positivo su queste imprese legate più alle persone e meno ai capitali, speriamo che non si estinguano del tutto.
Chiudo chiedendole uno sguardo un po’ prospettico. Il punto di partenza del suo ultimo ciclo di puntate trasmesse da Radio3 è la metafora del “nido del cuculo”: il capitalismo si sarebbe sviluppato sul cristianesimo, che a sua volta si era sviluppato sulla romanità e si sono un po’ contaminati l’uno con l’altro. Come il cuculo depone le uova nel nido di altri uccelli, che le covano e le custodiscono come fossero le proprie senza accorgersi che, una volta schiuse, comprometteranno la vita dei propri nati. Diciamo che c’è stata un’epoca in cui il cristianesimo, il cattolicesimo, comunque la religione in genere ha, diciamo, agevolato o almeno non ha contrastato il capitalismo, forse anche nei suoi aspetti deteriori. È possibile che stia per iniziare una nuova stagione, in cui la religione sta invece contrastando il capitalismo? Glielo chiedo anche in funzione dell’ultimo incontro ad Assisi.
Certamente papa Francesco rappresenta una novità da questo punto di vista. Papa Francesco non è Papa Wojtyla, non è Ratzinger, forse è più vicino a Paolo VI, che aveva una sua critica, nel tempo in cui viveva, a un certo capitalismo che si stava affermando nel mondo, nel nome dei poveri sempre. Papa Francesco è sicuramente una voce complicata, tanto da essere molto attaccato in Nord America da gente che teme anche questa sua critica al mondo della finanza. Se un domani si faranno un po’ di analisi di queste critiche non mi stupirebbe trovarci dietro delle lobby che finanziano anche i vari dossier, perché evidentemente è un papa che è molto più complicato per una certa idea di capitalismo. Quindi papa Francesco rappresenta sicuramente il nuovo. Ora, quando ho cominciato quella serie di articoli che poi va avanti come mia attività normale di ricerca, io dicevo che si può anche leggere il capitalismo con metafore diverse dal cuculo, si può anche dire che esso in qualche modo è figlio di una certa etica. Però secondo me l’immagine del cuculo è interessante perché dice qualcosa: che noi per molto tempo abbiamo allevato come cristiani questo uccello diverso pensando che fosse un figlio come tutti gli altri, e non ci siamo accorti che aveva qualcosa di strano, che è il rapporto con il denaro. L’idea che la ricchezza sia una benedizione è una cosa estranea all’umanesimo europeo, c’è poco da fare. Che sia emersa a un certo punto l’idea che arricchirsi sia una cosa santa, dopo che per 1.500 anni avevamo chiamato l’avarizia un peccato capitale, l’avevamo condannato con Dante, avevamo messo gli avari dove sappiamo, dopo che tutti gli ordini religiosi più importanti avevano chiamato il denaro lo sterco del demonio. È successo qualcosa, un mutamento genetico, un salto di specie. Qualcosa è successo, però per un po’ non ce ne siamo accorti. Non è che il cuculo venga da Marte, viene sempre dal bosco, ha dei piumaggi molto simili, è anche un bell’uccello se tu lo vedi quando vola. Io credo che questo Papa stia dando una mano a capire alcune dimensioni problematiche di questo nuovo umanesimo, che si chiama Ambiente. Perché vedi, l’ambiente è stato un punto di non ritorno. Possiamo discutere su mille cose, possiamo avere pensieri diversi sulla libertà, sull’iniziativa privata, sulla responsabilità, la parabola dei talenti può essere usata come vogliamo, però che questo capitalismo distrugge i beni comuni, che non è capace di prendersi cura del pianeta, è evidente. Siccome il pianeta è la casa di tutti, e se la distruggiamo moriamo, il pianeta sta diventando un test di insostenibilità globale di questo tipo di capitalismo, perché non è possibile consumare la terra, tagliare il ramo su cui stai seduto. Secondo me il 2015 è stato un anno di cesura. La pubblicazione "Laudato si’" l’ingresso nell’era dei beni comuni. Abbiamo capito che dobbiamo cambiare qualcosa. E allora certe idee che già giravano prima, di economia sostenibile, civile, perché oggi sono più interessanti? Perché si è fatto oggi il convegno di Assisi con il Papa e non sette anni fa? Perché stanno cambiando i comportamenti della gente. La gente sta capendo che quel tipo di consumo non funziona più. Lo sta capendo con le macchine, con l’inquinamento, con il pianeta. Le idee di prima (qui il vecchio Marx sembra avere ragione) sono importanti ma contano di più i rapporti economico-sociali. Se tu non hai un cambiamento negli stili di vita, le idee fanno molta più fatica ad affermarsi. Quindi una certa idea di economia diversa, più razionale, più sostenibile, più umana, oggi può essere più ascoltata perché ci stiamo rendendo conto che il re è nudo, cioè che un certo tipo di rapporto con le cose, con i beni comuni è insostenibile. Mi auguro che da questa presa di coscienza collettiva, che questa pandemia ha amplificato, che non è direttamente associata all’economia ma anche, potrebbe essere l’inizio di un rapporto diverso con l’economia, con i comportamenti economici concreti.