L’epidemia e la comunità
Dedicato all’anestetista di Codogno
Giusto due settimane prima della comparsa del Coronavirus in Italia ero in quel di Codogno per una conferenza. Non c’ero mai stato e in alcun modo avrei potuto immaginare che quella cittadina quieta e operosa stesse per assurgere a un’immeritata cattiva fama. Mi sorprese invece che essa ospitasse un Liceo scientifico di prim’ordine in grado di accogliere studenti da un’ampia zona circostante e di promuovere iniziative culturali come quella a cui ero stato invitato, un ciclo di incontri rivolto agli insegnanti dedicato al Novecento di Orwell e Simone Weil. Fu un’occasione bella di scambio intellettuale e umano arricchita dalla presenza di Piergiorgio Bellocchio. A quanto so nessuno tra i partecipanti quel pomeriggio era infetto a sua insaputa, cosa che avrebbe messo a particolare rischio i coniugi Bellocchio e me stesso a causa dell’età, sebbene in definitiva molto meno che se fossimo stati a bordo del treno ad alta velocità che quella notte stessa si sarebbe schiantato in prossimità di Codogno. Mi colpisce piuttosto la violenza fatta alla popolazione del lodigiano, a comunità ricche di una lunga storia contadina e operaia precipitate d’un sol colpo in stato di emergenza e isolamento, come per una colpa ancestrale di cui fosse giunta l’ora inattesa di pagare il fio. O, più sbrigativamente, a detta del presidente del consiglio, per dimostrata incapacità della locale struttura sanitaria a bloccare sul nascere l’epidemia, secondo l’inveterato costume di scaricare in basso le responsabilità. Al contrario, ciò che in effetti si sta appalesando in tutta evidenza è lo stato di inadeguatezza in cui da qualche decennio è stata ridotta la sanità, stretta ora nell’affanno di un compito che rischia di superare le energie e i mezzi disponibili per farvi fronte, come pure, e non è cosa meno grave, lo sfibramento del tessuto sociale lungamente perseguito da una mediocre politica autoreferenziale. Perciò l’emergenza, a ben vedere, è assai più grave che se fosse dovuta solo a uno stato epidemico per quanto preoccupante.
Il direttore de “la Repubblica” sollecita le massime autorità dello stato a parlare al Paese per sollecitarlo a ritrovare il senso di comunità almeno nei giorni dell’infuriare del morbo, nella consapevolezza che “l’infezione sociale si sta dimostrando molto più perniciosa di quella virale”. Vero, ma a cambiare lo stato delle cose non saranno generici appelli al senso di comunità da parte dei vertici politici (puntualmente giunti); al più potranno essere di sostegno a chi sta vivendo la pena dell’isolamento o sta fronteggiando l’epidemia a proprio rischio e al limite delle forze. Occorrerebbe piuttosto che dalla politica venisse il segno concreto che a un tal senso di comunità intende ispirare la pratica del governo. Ma si tratterebbe allora di una rivoluzione culturale, a cui pressoché nessuno tra chi ha un qualche ruolo direttivo è prioritariamente interessato, perché significherebbe guardare alle criticità dal basso del tessuto delle relazioni umane piuttosto che dai vertici dei poteri costituiti. Né c’è altro modo d’intendere in senso proprio la comunità. Cosa che non esclude all’occorrenza interventi d’autorità, ma mette a freno un esercizio del potere irrelato, che della concezione del moderno stato centralizzato è l’essenza stessa a prescindere dalla forma democratica o meno. Così, per i cittadini del lodigiano ciò che è offensivo e controproducente non è l’esigenza di circoscrivere in modo drastico il contagio, ma di non averne potuto assumere in prima persona la responsabilità e i modi, che avrebbe consentito, allora sì, di evitare o di ridurre proprio quella frammentazione delle relazioni, quella spinta all’isolamento e allo stato di paura che produce “infezione sociale”.
Ma non è restando al caso italiano, con le sue inveterate debolezze e contraddizioni e ottusità, che possiamo farci un’idea adeguata di ciò che sta accadendo a livello mondiale a causa di una epidemia, limitata nei suoi effetti patogeni e che tuttavia rischia di destabilizzare la vita sociale in gran parte del mondo. L’emergenza che sta montando è in sostanza politica e sociale, l’una riflessa nell’altra e dall’altra potenziata, ma la si vede ancora poco e obliquamente. A preoccupare sono piuttosto gli effetti del contagio sull’economia, che è il tabù del nostro tempo, l’unica religione che ancora sussiste in tutta la sua potenza sacrale, come aveva prematuramente capito il giovane Benjamin. E infatti, non sarebbero certo le decine di migliaia di contaminati in tutto il mondo e le poche migliaia di decessi a mettere di per sé in affanno le nazioni; poca cosa a confronto dei milioni di morti provocati un secolo fa dalla “spagnola”. Conta piuttosto il rischio che venga colpito il nesso di capitalismo e democrazia o, sull’altra sponda, di capitalismo e autoritarismo su cui, a differenza di un secolo fa, si regge il sistema politico-economico mondiale. Di qui l’esigenza prioritaria che le forze produttive non siano destabilizzate nella credenza in un benessere insieme fisico ed economico in costante crescita. Al riguardo non ha dubbi il Commissario europeo all’economia: “La Ue è pronta a usare tutte le opzioni disponibili, se e quando occorrano, per salvare la crescita economica”. Tale è il comandamento: crescere, non importa a quali costi ambientali, sociali, culturali; non importa se tale scopo comporta limitazioni alla libertà, impoverimento della vita di relazione, marginalizzazione del prezioso quanto fragile universo delle espressioni culturali. Niente serve di lezione, importa solo che nella mente delle persone sia ribadita la priorità che oramai ci accomuna davvero a livello planetario: l’accesso crescente e indifferenziato al consumo.
Eppure la precarietà del sistema dovrebbe saltare agli occhi se a metterlo in crisi basta una bolla finanziaria o un’epidemia a bassa letalità. Né potrebbe essere diversamente anche solo a considerare lo stato di pressoché totale interdipendenza nella produzione dei beni di consumo che, guarda caso, nell’ultimo decennio ha visto proprio la Cina assurgere ad anello di primaria importanza nelle filiere produttive a livello globale, e perciò a regione manifatturiera da cui dipende in larga misura la crescita economica mondiale. Si è così passati dalla centralità del mercato americano da cui è partita la crisi del 2008 a quella cinese. Che è come dire: siamo in balìa di meccanismi difficilmente compensabili nei passaggi critici, ai cui effetti socio-economici nessuno in nessuna parte del mondo può sottrarsi: come una palla di neve destinata a risolversi in slavina lungo la sua caduta. Ma come prendere davvero atto di questa evidenza finché manca la coscienza e l’intelligenza e la volontà politica di mettersi per altre strade, malgrado l’evidenza dell’impasse. Ma la politica europea appare in questi giorni più in angustia per la contaminazione delle borse che per quella dei cittadini, declassata a variante economica, e intanto persiste nel ridurre la crisi migratoria a variante degli equilibri politici del continente. Solo degli esseri irresponsabili possono vietarsi di prendere atto di questo stato delle cose e tuttavia pretendere di dirigere la società.
In questi giorni ci si chiede quali potranno essere nel tempo gli effetti umani e sociali delle strategie messe in atto per fronteggiare l’epidemia, vale a dire quale potrà essere il loro impatto sui comportamenti sia personali che interpersonali e perciò sui meccanismi di funzionamento della comunità di riferimento. Un amico mi dice del sentimento di angustia diffuso nella “zona rossa” delimitata nel lodigiano, in cui ogni attività pubblica è stata sospesa d’autorità riconducendo ciascuno al proprio privato e a relazioni circospette nel timore di subire o di procurare infezione, dunque niente contatti fisici e tenersi a distanza dagli altri. Un disagio fisico e psicologico che peraltro si sta diffondendo oramai sul territorio nazionale seguendo la strategia casuale con cui l’epidemia si diffonde e quella affannosa degli interventi volta a contenerla. Il fatto è che, fortunatamente, né le zone rosse, né tanto meno quelle circostanti a rischio di diffusione sono neppure lontanamente equiparabili a dei lazzaretti. I malati sono percentualmente poca cosa, e tuttavia i sani si trovano a loro volta a vivere una situazione risentita come patologica, perché lontanissima dagli standard abituali di vita assunti come normali e immaginati come perenni. Di qui uno stato delle cose quanto meno sconcertante per quella parte della società oramai maggioritaria che per età e condizione socio-economica non è più radicata nel sentimento della vita inseparabile dalla coscienza della precarietà, della perdita, della reversibilità della propria condizione. Né è probabile che lo shock dell’epidemia serva a riattivare tale coscienza. A prevalere sarà piuttosto l’immaginario col suo potere di creare e trasformare le paure: l’altro ieri per l’immigrazione, ieri per l’emergenza climatica, oggi per il virus. Tant’è che le terribili notizie che giungono dal confine greco-turco sono relegate sullo sfondo e la piccola Greta deve prendere atto che la legge europea sul clima resta in balia degli interessi nazionali contrastanti.
Personalmente non condivido la lettura apocalittica della crisi sanitaria sommata a quella migratoria e climatica e neppure sono propenso a dare troppo spazio alla logica dello stato d’emergenza che guiderebbe l’operatività politica. Sono letture marcate da volontà interpretative non commisurate a uno stato delle cose complesso quanto incoerente, contraddittorio, che si sottrae a teorizzazioni preconcette. Bisogna avere l’umiltà di confrontarsi con la complessità a partire da ciò che possiamo osservarne chiaramente, dunque a partire da elementi semplici e da questi cercare di risalire all’insieme osservato da più punti di vista. Ciò che uno sguardo attento sul mondo ci rivela adesso è uno stato di intorpidimento delle menti, indotto sì da poteri economici pervasivi sostanzialmente assecondati da quelli politici, gli stessi che in questi giorni difficili tramite i social potenziano lo stato di confusione e indeboliscono le coscienze. Ma nondimeno, seppure compresse o deviate, ci sono riserve di umanità e bisogni di libertà e di rispetto e di bellezza e di cambiamento che vanno sollecitati e resi consapevoli. E quegli stessi poteri tanto pervasivi sono tutt’altro che saldi se possono essere presi in contropiede da un’influenza o da una bolla speculativa e svelati nel loro infingimento.
Allora, ciò che in un siffatto frangente occorrerebbe da parte di chi ne ha i mezzi e le occasioni è un duplice e congiunto richiamo alla coscienza e alla comunità di vita. Vale a dire a una capacità di giudizio sul come si vive in questo tempo e all’esigenza di sostituire all’astrattezza del sociale la concretezza dell’essere parte di una realtà territoriale e culturale. Che di per sé non esclude certo il sentirsi parte del proprio Paese e dell’Europa, anzi ne costituirebbe la condizione efficace. Poiché in definitiva il compito culturalmente e politicamente urgente è, mi sembra, che si ritrovi l’essenziale di quello che è stato da sempre e ovunque lo spirito religioso, quel congiungersi di interiorità e comunione su cui si sono costruite le civiltà e che ora va ricompreso in una situazione storica senza precedenti, ma non per questo da abbandonare alla deriva. Compito impossibile? La vicenda di Annalisa, l’anestetista di Codogno che ha individuato il focolaio italiano del Coronavirus, c’insegna che se si pone attenzione alla realtà delle cose e si ha il coraggio di pensare all’impossibile e di agire al di là delle regole stabilite, il corso delle cose può essere cambiato.