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Leggere l’Orestea a Rebibbia

1 Agosto 2022
Claudio Gatti

Oreste e Pilade
“Sai quante volte ci siamo trovati, io e il mio amico Juan Dario, a discutere della linguistica di Noam Chomsky nei bagni di Rebibbia?”
A parlare è Pietro L., un ex detenuto della sezione Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Mentre era in carcere ha studiato lettere moderne all’università di Tor Vergata, laureandosi con una tesi sugli archivi fotografici del suo paese d’origine in Calabria.
Pietro L. ha una quarantina d’anni, alto e magro, è una di quelle persone che non riesce a stare fermo: quando ci sentiamo in videochiamata, a forza di sistemarsi maglietta e collanina, ha difficoltà a rimanere confinato dentro lo schermo del telefonino. Parla come un fiume in piena.

La vedetta
In carcere si inizia a studiare per avere un’occasione di uscire dalla cella, per evadere dai soliti quattro argomenti: il processo, i ricalcoli della condanna, i colloqui con la famiglia, i possibili trasferimenti, spiega Pietro L. Poi gli studi diventano un collante tra quelli che frequentano un corso e finiscono per essere l’unico argomento di conversazione del gruppo, una specie di ossessione.
Ma studiare in carcere non è così semplice: bisogna fare i conti con i trasferimenti inattesi, i problemi con gli altri detenuti, a volte le risse o anche solo l’incombenza del proprio processo. Una volta era in videoconferenza per un processo complicatissimo in associazione con molti altri imputati, l’agente di custodia lo ha chiamato per dirgli: “Pietro guarda che hai l’altra videochiamata per l’esame dell’università”. Doveva sostenere una prova di letteratura latina: “me ne ero completamente dimenticato”, racconta Pietro, “non puoi capire come ci sono arrivato!”.
Ma è soprattutto il clima del carcere a essere pesante. “A sentire quelli dentro, loro sono sempre tutti innocenti!..”, tutti tranne quelli che come Pietro hanno sempre ammesso la loro colpa o quelli che davvero non hanno commesso reati. Questi ultimi, dice Pietro, sono rari ma si riconoscono subito: mosche bianche che non c’entrano nulla con tutti gli altri, sono molto ingenui e in carcere ingenui è meglio non esserlo. Bisogna invece stare sempre in allerta, saper leggere le situazioni, essere quasi paranoici e “fare il coatto più degli altri”. Già solo studiare all’università ti espone, ti mette in una luce diversa agli occhi dei compagni, spiega.

Il messaggero
Uscito da Rebibbia un anno prima della pandemia, Pietro L. non è tornato in Calabria altrimenti avrebbe ricominciato “con la strada”, ma è rimasto a Roma, dove ha una compagna e lavora nel centro storico come cameriere in un ristorante per turisti. Lui però i turisti non li ama – “sono degli Unni, degli animali” – e sta cercando un posto migliore. Con una certa soddisfazione mi mostra un angolo di casa che ha trasformato in un laboratorio artigianale del cuoio dove realizza borse, portafogli e cinture. Ci sono gli attrezzi ordinatamente alloggiati su un pannello, un piano di lavoro centimetrato, qualche scarto e una borsa ancora in lavorazione, quasi ultimata.
A giudicare dal lavoro che fa, studiare però non gli è servito. È quello che pensa anche lui: “lo studio in carcere non ha senso!”, sentenzia. “Io che sono laureato non posso insegnare a scuola e pure i detenuti laureati in legge una volta usciti non potranno mai fare l’avvocato”. Ma subito dopo si corregge dicendo che è giusto così e ricordando quanto sia stato importante per lui aver conosciuto Albert Camus e Friedrich Nietzsche, il suo amore per Eduard Bunker e le donazioni in libri che ha fatto alla biblioteca del carcere.

Il giudizio dell’Areopago
Pietro L. racconta che pochi minuti prima di discutere la tesi, già davanti alla commissione, in piedi sul palco della sala grande di Rebibbia, la direttrice del reparto che lo accompagnava gli chiede: “Pietro, dimme un po’: come ti senti?”. Lui le ha risposto: “Dottore’, mi sento che tra poco mi giudicheranno e per una volta non sarò colpevole, di questo ne sono assolutamente certo!”. Lei si mise a ridere. È stato un bel momento.
A laurearsi con lui nella stessa sessione c’erano altri quattro detenuti tra cui Giovanni Colonia. “Tu pensa solo al background da dove venivamo”, mi dice Pietro L.: “Eravamo i primi a laurearci e col massimo dei voti!”. Con Colonia hanno passato tre giorni a sfottersi: “Oh Giova’, ma so’ scemi? Ma che c’hanno laureato veramente?!”. Subito dopo Giovanni Colonia è stato trasferito al carcere di Sulmona, senza preavviso.

La città di Argo
In Italia, su una popolazione carceraria di 55mila detenuti, sono circa 1.100 quelli che seguono i corsi universitari attivati da una quarantina di università su tutto il territorio nazionale. Gli iscritti sono prevalentemente uomini, i corsi di laurea soprattutto le triennali: uno su quattro sceglie facoltà politico-sociologiche, uno su sei quelle umanistiche e quasi altrettanti quelle giuridiche. L’Università di Roma Tor Vergata ha iniziato le sue attività quindici anni fa e oggi frequentano i suoi corsi 53 dei 91 studenti universitari detenuti a Rebibbia.
Sono molte le cose che un esterno dà per scontate ma che in carcere, per ragioni di sicurezza, diventano più complicate se non impossibili. Per esempio Facebook e Internet non esistono: gli smartphone sono banditi e i computer, se ci sono, non sono collegati in rete. Di conseguenza non si possono fare ricerche on line o scaricare i libri in pdf. Anche un semplice scambio di e-mail con i docenti diventa complesso: impone un intermediario che verifichi il contenuto dello scambio, con una procedura a pagamento che ricorda molto quando si spedivano i fax dal tabaccaio.
I detenuti non hanno permessi per uscire dal carcere in modo da seguire i corsi, ma a Rebibbia possono incontrare docenti e tutor in una stanza adibita allo studio, la cosiddetta auletta. Per Pietro l’auletta è stata una zona franca, una terra di confine tra il dentro e il fuori con un suo particolare equilibrio: “Noi stessi in auletta ci presentiamo in modo diverso: siamo meno carcerati, più normali, mascheriamo ai docenti tutte le problematiche del carcere, provando a lasciarcele alle spalle”. D’altro canto anche i docenti evitano giudizi e non chiedono quali reati costringono i loro studenti a quelle lunghe detenzioni. I più curiosi faranno forse una ricerca su Google, ma difficilmente ne parleranno con l’interessato: il galateo dell’auletta non lo prevede.

Atena
Lei si era mentalmente preparata ad una lezione frontale – schema professore che parla e studenti che ascoltano pazientemente – invece ha trovato tutte persone che avevano urgenza di parlarle, di dire cosa avevano trovato in quei testi, di “spiegare loro a me cosa avevano capito”. Cristina Pace – ricercatrice di filologia classica, docente del corso di Drammaturgia antica a Roma Tor Vergata – racconta così la sua prima lezione nell’auletta dell’Alta Sicurezza.
La incontro nel suo studio: libri e tesi di laurea appoggiati sul tavolo, alle pareti riproduzioni di teatri antichi, locandine storiche dei festival di Siracusa e qualche disegno fatto coi pennarelli dai figli quando erano alle elementari, disegni ora ingialliti. La facoltà di Lettere di Tor Vergata è un edificio moderno a due piani con vialetti alberati, panchine e una bella piazzetta frequentata dagli studenti. Le altre sedi del campus sono distribuite in un’area enorme fatta di campi incolti tra l’autostrada Roma-Napoli e il quartiere periferico di Tor Bella Monaca.
Cristina Pace parla con voce esile, dosando le parole. Ha iniziato le sue lezioni a Rebibbia nel 2014 su richiesta degli altri docenti: alcuni studenti si erano interessati alla sua materia dopo aver partecipato alle esperienze teatrali con il regista Fabio Cavalli e al film dei fratelli Taviani Cesare deve morire. L’attività teatrale li aveva evidentemente abituati ad impadronirsi dei personaggi e delle loro storie, per meglio approfondirli ed interpretarli, e una volta a lezione volevano parlare di Agamennone e degli Atridi, delle loro faide e lotte di potere, della vendetta di Clitennestra e del ruolo delle donne nel conservare memoria dei torti subiti. Erano studenti che prendevano molto sul serio quelle vicende così lontane: “per loro quei testi antichi sembravano rispondere, parlare di qualcosa che conoscevano, che li riguardava”.

Il tappeto rosso di Clitennestra
Nell’Orestea quando Clitennestra esorta un esitante Agamennone ad entrare nella casa dove intende assassinarlo, il marito si avvia a piedi nudi su preziosi tappeti rossi. Il particolare della mancanza dei calzari, spesso poco evidenziato anche nelle rappresentazioni teatrali non passa inosservato durante la lezione. È un segno evidente di vulnerabilità: nessun detenuto andrebbe mai all’aria in ciabatte. “Per poter scappare meglio?”, chiede ingenuamente Pace, “No, macchè: per poter difendersi usando anche i piedi”. Per i detenuti è scontato che i calzari di Agamennone, come per loro le scarpe, facciano parte integrante del corredo del guerriero. Entrare così in quella casa vuol dire entrare disarmati. Di lì a poco Agamennone morirà.

Cassandra e Agamennone
“Cassandra potevo essere io!”, Pietro L. si ricorda bene le lezioni di Cristina Pace e la sensazione di sapere come sarebbero finite quelle storie. “Erano cose che anche tu avevi vissuto, direttamente o indirettamente, non nella stessa maniera, ma che qualcuno ti stava per tradire, già lo sapevi. Già lo sapevi che la moglie di Agamennone stava a fa’ il piattino al marito, non serviva Cassandra…”
Pace prende in mano la tesi di Laurea di Giovanni Colonia e la apre per mostrarmi il passo in cui il detenuto ha avvicinato la sua storia personale. Quando Agamennone decide di sacrificare la figlia per garantirsi la navigazione dell’armata achea verso Troia, Giovanni Colonia commenta: “Onnipotenza è il pensiero di poter fare tutto: onnipotenza nell’agire, nel decidere della vita e della morte di chiunque, onnipotenza nel credere di poter sopportare la conseguenza del sacrificio della figlia. […] Qui c’è la cecità di Agamennone […] Eschilo fa vedere come il destino ti porta a fare una scelta di cui in quel momento non capisci la portata, la gravità, o che anche se la capisci pensi di poterla gestire, pensi di poterne gestire le conseguenze”.
Proporre lo studio delle tragedie greche in carcere – ma sarebbe lo stesso per Shakespeare o Dante – richiede un cambio di prospettiva: vuol dire non pensare ai classici come se questi avessero un’unica interpretazione possibile a cui uniformarsi o come se fossero portatori di “valori” di per sé – democrazia, giustizia, eroismo, coerenza – da somministrare in pillole agli studenti. Per Cristina Pace: “Bisogna sfruttare l’innata capacità di questi testi di interagire coi nostri pensieri e i nostri dubbi. Sperimentare la letteratura come qualcosa attraverso cui pensare se stessi e il mondo“.

Gli Atridi
In Italia il tasso di recidiva rimane alto: due detenuti su tre, una volta scontata la pena, ritornano in carcere per aver commesso altri reati, mentre l’applicazione di misure alternative, come studio e lavoro, riduce questa incidenza a uno su cinque. L’università lavora in questo senso garantendo a tutti il diritto allo studio. È un diritto che i detenuti non hanno perso con la libertà come non hanno perso quello alla salute, al lavoro e all’affettività. Anche ragionando in termini più strettamente utilitaristici, Pace pensa che sia un errore assecondare la tentazione diffusa di ridurre lo spazio dei diritti in carcere: più vengono compressi e più confermiamo, a chi ha già fatto scelte contro la società, che è fuori, che non lo vogliamo, che non c’è posto per lui. Di conseguenza la pena non servirà per farlo cambiare. Diversamente, se lo si aiuta a riconsiderare diritti e doveri, cambierà. “Può sembrare un’utopia, ma è su questo che scommette l’articolo 27 della nostra costituzione, e i dati sulla recidiva ce lo confermano: chi studia o lavora quando esce ha più possibilità di farcela”.

Elettra
“Venite pure quando volete” le dicevano i detenuti per scherzare “a noi ci trovate sempre qua.”. Seduta al baretto della facoltà di Lettere Tor Vergata, Martina Giovanetti mi racconta del suo primo progetto di lettura condivisa a Rebibbia nel 2019. Erano quattro studenti ‘esterni’ di Tor Vergata e alcuni detenuti di Rebibbia che si incontravano per leggere l’Orestea, ad ogni nuova scena ridistribuivano le voci, qualche interruzione ma solo per chiarire qualche passo e una discussione finale sul testo letto in quella giornata. Si sono incontrati per mesi nell’auletta prima con cadenza settimanale poi successivamente con incontri più serrati per completare la lettura in vista di una presentazione pubblica. “È stata un’esperienza molto intensa con legami umani inaspettati e forti“.
Martina è una giovane attrice-autrice della compagnia Controcanto Collettivo, dottoranda in filologia classica e responsabile del laboratorio teatrale di drammaturgia antica di Tor Vergata. A Rebibbia è entrata la prima volta per curiosità: era da poco iscritta alla magistrale di lettere classiche e, come gli altri studenti, aveva ricevuto una mail di invito girata da Cristina Pace per uno spettacolo in carcere aperto al pubblico esterno. I detenuti, diretti da Fabio Cavalli, mettevano in scena l’Inferno di Dante rileggendo i canti nei loro dialetti d’origine, e scegliendo i brani a seconda della pena che stavano scontando. “Quando poi vidi lo spettacolo, fatto da attori non professionisti, lo trovai bellissimo!”.

Le Erinni
Martina Giovanetti pensa che proprio quella lettura dell’Orestea fatta nell’auletta le abbia permesso di cogliere aspetti che nelle letture precedenti, quelle per gli esami, non le erano mai stati così evidenti. Fino ad allora infatti per lei la tragedia finiva dopo l’assoluzione di Oreste, mentre invece questa prosegue con la sorte delle Erinni, le demoniache creature prima sconfitte nel giudizio di Atena e poi reintegrate dalla dea stessa a servizio della città. Le sfuggivano così quegli aspetti di riconciliazione e giustizia riparativa amministrati da Atena e subiti dalle Erinni che erano l’esito concreto di ogni sentenza e la presenza forte nel vissuto e nei pensieri dei detenuti dell’auletta.
Giovanetti ha poi elaborato questa sua esperienza anche da un punto di vista drammaturgico partecipando quasi in contemporanea alla scrittura collettiva del nuovo spettacolo della sua compagnia teatrale. Si tratta di Settanta volte sette, presentato quell’estate stessa al Festival del teatro del sacro di Ascoli. Il tema di quell’anno era il perdono. Controcanto Collettivo ha ambientato la pièce in carcere, raccontando le dinamiche di sospetto e odio tra l’assassino e i parenti della vittima e proponendo con delicatezza una versione laica del perdono visto come ricerca e condivisione di un percorso di riconciliazione.

Per l’ambientazione in carcere di questo nuovo spettacolo, Controcanto Collettivo ha coinvolto anche Pietro L., che allora era uscito da poco da Rebibbia. Cercavano informazioni di dettaglio sulla vita di tutti i giorni: come avviene l’aria, cos’è la domandina, come si cucina, che vuol dire sopravvitto. Pietro L. ha risposto a quasi tre ore di loro domande di fila. Parlare di carcere però gli costava e quello spettacolo, a cui ha sicuramente contribuito, non ha trovato mai il modo di andare a vederlo.

Il coro
Dopo le restrizioni per il Covid, nel 2022 le attività didattiche sono ripartite anche a Rebibbia. Cristina Pace ha portato in carcere un progetto nuovo con i fondi regionali: quello di fare un podcast a partire dalla lettura della tragedia. L’idea è nata da una proposta di due detenuti che avevano partecipato alla lettura condivisa dell’Orestea: volevano realizzare degli audiolibri per “portare fuori dal carcere la voce dei detenuti”. Martina Giovanetti insieme a Simone Giustinelli – della startup multidisciplinare Creativa – hanno quindi introdotto la produzione di contenuti podcast concentrando la prima serie solo sulla figura di Andromaca.

Giovanetti spiega che Andromaca non è legata ad una specifica tragedia e si presta molto ad una lettura antologica. In questo modo è possibile favorire un approccio graduale con una prima fase laboratoriale, che adatta le attività sulla base dei testi scelti e di chi partecipa, e una seconda fase in cui i partecipanti prestano la loro voce per la lettura e il commento. Le intenzioni sono quelle di confezionare un prodotto da usare come strumento didattico nelle scuole. Il Liceo Amaldi di Tor Bella Monaca ha già dato la sua disponibilità a sperimentarlo nel prossimo anno scolastico.

Andromaca
La scelta di Andromaca non è senza impatti: si tratta di parlare di un personaggio femminile, poco eroico, in un contesto fortemente maschile, se non machista. La sua figura si presta poi a letture ambivalenti: da un lato Andromaca è l’emblema della moglie fedele e devota, concentrata nel suo amore per Ettore, da un altro sembra molto consapevole che Ettore la abbandonerà, nel momento della catastrofe, solo per rispondere ad un suo modo ‘eroico’ di stare al mondo. Assomiglia anche a molte storie sentite in carcere: figure femminili tragiche i cui compagni fanno scelte obbligate che le porteranno a rovina sicura insieme ai loro figli.

“Vediamo cosa succede” dice Giovanetti: “quando entri in contatto in modo più diretto con le persone succedono cose, si innescano riflessioni e curiosità che prima non c’erano e già solo questo è positivo”.


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