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Le poesie. Il Paradiso

Ross Gay è nato nel 1974 a Youngstown, in Ohio, è cresciuto nei sobborghi di Philadelphia in Pennsylvania

1 Giugno 2017
Ross Gray

traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan

Ross Gay è nato nel 1974 a Youngstown, in Ohio, è cresciuto nei sobborghi di Philadelphia in Pennsylvania, e oggi insegna alla Indiana University di Bloomington. La sua terza raccolta di poesia, Catalogue of Unabashed Gratitude (University of Pittsburgh Press, 2015), ha vinto nel 2015 il National Book Critics Circle Award e nel 2016 il Kingsley Tufts Poetry Prize, ed è stata finalista, sempre nel 2015, del National Book Award. Il suo primo libro, Against Which (Contro cui), che contiene le poesie qui presentate, è apparso nel 2006 e lo ha subito fatto riconoscere tra le voci più importanti del nuovo panorama poetico statunitense, caratterizzata da un armonico contrappunto tra la durezza dei contenuti e la semplicità e la dolcezza del linguaggio e dell’atteggiamento stesso nei confronti del mondo che descrive. Thomas Lux ha definito Ross Gay “una palla da demolizione di velluto”, sottolineando il fatto che le sue poesie – per usare un’espressione di Berryman – “terrorizzano e confortano”. Against Which, dice il risvolto di copertina, cerca di descrivere i vari modi in cui gli esseri umani possono trasformare se stessi da membri di un mondo brutale e sconsiderato in operai al lavoro per costruirne uno fondato sull’amore per il proprio prossimo.

Fermato dalla polizia a Short Hills, New Jersey, alle 8 di mattina

Sono brividi . Quando la rabbia monta

rovente come un esercito di formiche rosse e spinge

la mente a calmare il corpo, le scosse

affiorano: a volte le ginocchia soltanto,

ma, se va male, le anche, il torso, il collo,

finché, come un virus, insinuandosi nei polmoni

e nel battito del cuore, ogni oncia di forza evocata

per strizzare le parole dalle mie labbra serrate,

con i suoi occhi che scannerizzano l’interno dell’auto,

i miei occhi, la patente, e mentre rispondo alle domande

3, 4, 5 volte con la mascella stretta come una morsa da banco,

la sua mano che carezza il calcio della pistola,

mi immagino cose che non vorrei immaginarmi

e dentro di me prego che finisca

prima che i brividi mi prendano

le mani, che lui lo noti,

e che succeda chissà cosa.



Il Paradiso

Questo è il Paradiso: merda di scrofa, tulipani, un bimbo sudicio

con occhi grandi abbastanza da sanguinare. E i suoi quattro fratellini,

tutti affamati come lui. Forse, probabilmente, uno morirà

di una malattia che torce l’aria

dai polmoni. Farà male. Il Paradiso

è dolore dentro e fuori. E amore

denso come roccia metallifera. Il Paradiso

prende e prende, sogghigna; è la zavorra che affonda il sacco

con dentro i gattini. La luce che scalda

la veglia silenziosa. La madre.

Un cortile di ossa affastellate.

Ficca un dito nella terra: sangue. E

denti. Un canto come sharpnel.

Il Paradiso è questo

e altro. Sole riflesso dai bordi di un barcone.

E l’avvoltoio in attesa. Le rughe

sulla faccia di un uomo che si accinge a pregare. Il modo

in cui le sue parole si trasformano in un sudario di luce.

Un dialogo tra un uomo e un’idea

che quasi riesco a scorgere. Che quasi riesco a

credere.

Cartolina: Linciaggio di un uomo non identificato, 1920 circa

d’après Lucille

Clifton

Non è il suo impercettibile oscillare, né il gemito

della treccia di fune che si oppone al suo peso,

né la gamba sinistra dei pantaloni alzata sullo stinco; nemmeno

l’ampia lama di luce che taglia la foto, dietro

il cadavere, o attraverso esso, a seconda del punto da cui

si guarda; non è come la camicia bianca ancora ben infilata

nei calzoni diviene quella luce, diviene la fonte di quella luce,

né il modo in cui il pugno morto infilato nel petto

diviene la fonte di quella luce; non è il modo in cui

tutti tranne lui

fissano la macchina fotografica, in posa –

un giovanotto, quasi bello, spinge

il cadavere impiccato così che possa entrare meglio

nell’inquadratura – né come un adulto fa voltare un bambino

verso la macchina fotografica

come a dire: stai fermo così che tutti possano vedere

cosa abbiamo fatto; non è la torsione né il turgore del collo

né il colore della pelle –

è la piega della testa, l’impossibile

snodo da gufo verso qualcosa che solo lui può vedere, o via

da qualcosa che solo lui può vedere, come se

lo stesso flash che fa fare un ampio sorriso al bambino dall’aria scema,

l’uomo impiccato

lo bruci.

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