Le microaree di Trieste
Nei primi giorni di dicembre del 2021 è stato diffuso un documento dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi), la struttura che gestisce la sanità nelle ex province di Trieste e Gorizia. Il testo contiene una proposta di ristrutturazione dell’azienda e prevede, fra le altre cose, la riduzione dei distretti sanitari e dei centri di salute mentale di Trieste da quattro a due. Mentre ora ogni centro e ogni distretto si occupano di una popolazione di circa 60.000 abitanti, in base alla proposta i due nuovi distretti dovrebbero fare fronte rispettivamente alle necessità di 146.000 e 83.000 abitanti. Diversi consiglieri comunali di Trieste hanno criticato la proposta e alcuni hanno chiesto al sindaco, Roberto Dipiazza, di difendere la sanità triestina.
Non è la prima volta che, da più parti, si lamenta un attacco al modello sanitario radicatosi a Trieste. Nell’estate del 2021 l’arrivo di un direttore reputato non di formazione basagliana per uno dei centri di salute mentale della città ha innescato una serie di iniziative volte a ribadire la bontà della tradizione triestina in questo campo. Forse, però, per capire meglio i termini della questione occorre allargare la prospettiva e lasciare da una parte, almeno in prima battuta, gli ospedali e gli ambulatori.
“Noi basiamo il nostro intervento sulla definizione che l’Organizzazione mondiale della sanità dà della salute: non si tratta solo di avere assenza di malattia, occorre che si verifichino diverse altre condizioni, a partire dalla buona qualità dell’ambiente in cui si vive” dice Giuditta Lo Vullo poco dopo averci ricevuto nella sede della microarea di Montebello, un complesso di case popolari gestito dall’Ater (Azienda territoriale per l’edilizia residenziale) di Trieste, nella zona orientale della città. Siamo vicini all’ippodromo e alla struttura dell’ex fiera, abbandonata ormai da anni. “Il progetto microaree è iniziato nel 2005, dopo alcuni esperimenti pilota, su impulso di Franco Rotelli, allora direttore dell’azienda sanitaria, e con un accordo fra la stessa Azienda sanitaria e l’Ater, a cui poi si è aggiunto il Comune” dice ancora Lo Vullo. L’Ater fornisce gli immobili mentre l’azienda e il Comune partecipano con il loro personale. Le microaree nacquero con dieci obiettivi: conoscere nel dettaglio le situazioni in cui intervenivano, rendere più adeguato l’uso dei farmaci e più mirate sia le attività diagnostiche sia quelle terapeutiche. Ci si proponeva anche di intervenire in modo precoce sui casi a rischio per evitare che le persone sviluppassero delle patologie da curare in un percorso istituzionale, per esempio in un ospedale (su questo aspetto e sull’avvio del progetto si può leggere l’intervista di Lorenzo Betti a Carmen Roll pubblicata sul numero di luglio 2020 di questa rivista). Fra gli obiettivi c’era il coinvolgimento di enti del terzo settore, puntando a un coordinamento fra le diverse realtà chiamate in causa di volta in volta. Questo è avvenuto in modi diversi: associazioni e cooperative sociali sono a diverso titolo coinvolte nella gestione delle microaree e in alcuni casi sono loro a fornire il referente, cioè chi coordina le attività. È il caso di Lo Vullo che, dopo aver trascorso la sua vita lavorativa proprio nell’Azienda sanitaria triestina, a Montebello svolge questa funzione per conto della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin. All’interno della microarea il referente ha un ruolo nevralgico: deve individuare le situazioni di fragilità e, insieme agli altri soggetti coinvolti, decidere qual è la migliore strategia da adottare. “In questo modo si creano delle piccole squadre che si occupano di una persona e dell’ambiente che lo circonda. Se c’è un problema so a chi mi devo rivolgere e così si riesce a intervenire con rapidità” spiega Lo Vullo. Al di là delle emergenze, il lavoro dei referenti e del personale delle microaree è continuo: dall’organizzazione di momenti di socialità, ora molto complicati dalla pandemia, all’attenzione verso le singole persone, assistendo chi deve seguire una terapia o anche solo essendo disponibili per un confronto.
Un altro elemento non secondario è il portierato sociale, gestito di solito da una cooperativa. Il portierato fa da tramite fra gli abitanti della microarea e l’Ater, anche nella gestione di alcune procedure amministrative. Inoltre, diventa un punto di riferimento per gli abitanti. Se ne può avere un’idea facendo un giro nel complesso Ater di Melara: si tratta di due enormi strutture a forma di L che formano un quadrilatero e sono messe in comunicazione da lunghi corridoi coperti lungo i lati e da altri che si incrociano al centro. Su questi spazi si affacciano dei negozi e delle strutture associative come il portierato. Nelle nostre due visite però molte attività commerciali erano chiuse e la luce accesa del portierato con alcune persone all’interno mitigava il senso di spaesamento dato da una costruzione così particolare.
Il quadrilatero di Melara è stato edificato fra gli anni Sessanta e Ottanta, mentre la microarea ha iniziato a funzionare nel 2005. A Montebello, invece, il progetto è stato avviato poco dopo la costruzione del complesso edilizio: “la tendenza attuale è creare immediatamente la microarea nelle nuove costruzioni dell’Ater in modo da non trovarsi ad agire su delle problematiche già consolidate” dice ancora Lo Vullo. Pur condividendo la struttura organizzativa di base ogni microarea si trova di fronte tipologie diverse di popolazione e quindi anche le modalità di azione sono differenti, così come cambiano le dimensioni medie degli alloggi offerti dall’Ater. “A Montebello la microarea si occupa di una zona che va al di là del complesso dell’Ater e in cui manca un tessuto associativo forte: nei decenni scorsi questa zona era percepita come lontana dal centro della città, qui c’erano soprattutto caserme. In altri quartieri di Trieste, come San Giovanni o San Giacomo, caratterizzati da un senso di comunità più forte, c’è molta più vivacità sotto questo punto di vista” spiega Lo Vullo. La diversità è anche l’occasione per trasferire delle pratiche da un luogo e l’altro come sta accadendo per le borse lavoro: si tratta di un piccolo compenso dato a un abitante delle microaree per un’attività utile a chi vive nel complesso. “In un’altra microarea è stata proposta una borsa lavoro a una persona per tenere in ordine il giardino e poi si è riusciti a far continuare l’attività tramite l’Ater, trasformandola in un vero e proprio lavoro. Ci piacerebbe fare una cosa simile qui” dice ancora Lo Vullo, mentre nella sala accanto inizia una sessione di doposcuola. Le microaree sono distribuite in tutta la città: da quella di Melara all’estremità orientale della città a quella di Città vecchia, a pochi passi da piazza Unità, in pieno centro. “Le microaree sono collocate in zone considerate periferiche perché, per esempio, hanno un’alta incidenza di popolazione a basso reddito, ci sono forti diseguaglianze o problemi urbanistici che possono contribuire a causare delle patologie” ha detto Maria Grazia Cogliati Dezza, già dirigente dell’azienda sanitaria triestina e promotrice del progetto microaree, in un’intervista concessa a “Il foglio psichiatrico”. Per realizzare degli interventi all’esterno delle istituzioni è necessario che i distretti sanitari abbiano una buona disponibilità di erogazione dei servizi richiesti, senza bisogno di passare per delle strutture private, come fa notare ancora Cogliati Dezza.
Tenendo a mente questa affermazione la proposta di modifica dell’assetto dell’azienda sanitaria fa sorgere delle perplessità. “In questo momento tutta la struttura è suddivisa sulla base di quattro aree. Oltre ai distretti sanitari e ai centri di salute mentale anche le Unità operative territoriali del Comune di Trieste che si occupano di assistenza sociale sono quattro” ci fa notare Doriano, un operatore che da anni lavora a Trieste nell’assistenza sanitaria. Di conseguenza, l’accorpamento proposto dall’azienda comporterebbe la revisione dei punti di incontro raggiunti fra i diversi servizi e le microaree rappresentano un equilibrio abbastanza delicato, proprio per il coinvolgimento di strutture diverse che lavorano sullo stesso luogo in modo complementare.
Con ormai oltre quindici anni di esperienze a Trieste le microaree sono una realtà consolidata che però fatica a ispirare progetti simili altrove. Il momento in cui ci si preoccupa di nuovo che questa ricchezza di esperienze e pratiche non venga dispersa per delle scelte politiche forse può essere anche l’occasione per capire come mai un’idea innovativa e con margini di sviluppo nella salute mentale come nella medicina territoriale non venga ad essere riproposta in altri luoghi.
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