Le false promesse del lavoro “agile”

Lo stato di emergenza causato dall’epidemia ha introdotto nel vocabolario corrente una nuova espressione: smart working. Fino a poche settimane fa questo concetto era diffuso quasi esclusivamente tra sindacalisti, giuslavoristi, esperti di organizzazione e un ristretto numero di lavoratori. Da un giorno all’altro, una grande quantità di persone è stata trasformata in smart worker, e di lavoro agile (così viene tradotto in italiano) si fa un gran parlare. Oggi rappresenta una misura necessaria per la tutela della salute pubblica, ma cosa sarà domani? Come spesso accade, le situazioni di crisi possono funzionare come acceleratore di tendenze in atto; infatti già ora si levano molte voci ad auspicare che le misure di contrasto all’epidemia servano anche a superare le resistenze verso questa forma di “modernizzazione” del lavoro. In un recente intervento sul “Sole 24 ore” il Ministro per la Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, ha sostenuto che – al termine dell’emergenza – lo smart working dovrà diventare la modalità organizzativa ordinaria: la pubblica amministrazione “in queste settimane difficili sta raccogliendo una sfida che cambierà per sempre il suo volto”. Pressioni analoghe stanno investendo il lavoro privato, con la convinta adesione di alcuni sindacati.
Nella concitazione del momento, smart working ha fatto il suo ingresso nel linguaggio comune come sinonimo di “lavoro da casa”. In realtà, il nome definisce una situazione più complessa nella quale ciascun lavoratore è chiamato ad articolare la giornata tra la propria abitazione, il luogo di lavoro e altri ambienti mettendo in gioco un relativo grado di autonomia personale definito dagli accordi aziendali.
A prima vista questa struttura contiene alcuni aspetti positivi, potenzialmente in grado di rompere anacronistiche rigidità organizzative e di generare un maggiore equilibrio tra il lavoro e la vita privata. Ma è davvero così? E quali conseguenze comporta?
Prendiamo come punto di partenza la descrizione contenuta nella legge del 2017 che disciplina lo smart working in Italia, perché nei modi in cui una pratica viene codificata dal legislatore si possono cogliere alcuni tratti distintivi dei processi in atto. La legge è stata approvata durante il governo Gentiloni e porta la firma di Giuliano Poletti, all’epoca Ministro del lavoro, che non si fece scrupolo di presentarla come il compimento del disegno renziano, al punto da definirla come “il Jobs Act del lavoro autonomo” (in realtà la parte dedicata allo smart working si applica anche al settore pubblico). Il provvedimento individua due scopi: “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” è al secondo posto, mentre al primo troviamo (come stupirsi?) “incrementare la competitività”. È quindi necessario adottare “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”. Questa formulazione apparentemente innocua (qualsiasi lavoro individua fasi e obiettivi) combinata con gli scopi e le modalità della prestazione sposta in maniera netta la configurazione dei processi produttivi verso l’azione e la responsabilità dei singoli individui.
Il tempo e lo spazio
Lo smart working, infatti, ridefinisce in maniera sostanziale le due coordinate che hanno costruito la cultura del lavoro nel corso del Novecento: il tempo e lo spazio.
Nel primo campo, la tendenza è quella di abbattere ogni distinzione tra tempo di lavoro e tempo privato. Questo processo potrà avere conseguenze rilevanti sia sul piano individuale (anche di ordine psicologico) sia su quello sociale, a causa della ulteriore disarticolazione dei legami comunitari che inevitabilmente comporta l’estensione tendenzialmente illimitata – anche se formalmente temperata dagli accordi – del tempo dedicato al lavoro. Da questo punto di vista, gli effettivi benefici che potrebbero derivarne per la conciliazione con le esigenze di cura familiare e l’abbattimento dei tempi di spostamento nei casi di pendolarismo risulterebbero fortemente depotenziati.
Ma c’è un altro aspetto che non è meno importante e che muta ancora più in profondità il paradigma del lavoro: il superamento del tempo come unità di misura della prestazione lavorativa e quindi della sua retribuzione. Questo è il significato di un lavoro per “obiettivi”, continuamente mutevoli, slegati da una identità professionale fondata sulla condivisione e trasmissione di saperi all’interno di una comunità di lavoro, individuati all’interno di accordi tra le parti e non nell’ambito di contratti collettivi. Ciascuno deve diventare imprenditore di se stesso, come ha sostenuto in modo esplicito Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano presentando l’ultimo rapporto nell’ottobre 2019:
“Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da ‘dipendenti’ orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto a ‘professionisti responsabili’ focalizzati e valutati in base ai risultati ottenuti. Fare Smart Working a un livello più profondo significa fare un ulteriore passo oltre, lavorando sull’attitudine e i comportamenti delle persone promuovendo un pieno engagement per far sì che i lavoratori diventino veri e propri ‘imprenditori’ con un’attitudine all’innovazione e alla creatività”.
La connessione con i sistemi di valutazione che negli ultimi anni stanno modificando la fisionomia dei sistemi di istruzione e dell’organizzazione del lavoro non è solo un’opinione personale dell’autrice di queste righe. Bisogna mettere insieme i pezzi per non rischiare una visione parziale di processi che sono tra loro connessi. La valutazione fondata su criteri quantitativi ha un rapporto molto stretto con la diffusione su larga scala di una cultura imprenditoriale. Non deve sorprendere il fatto di trovarla incorporata nello smart working, di cui rappresenterà – non è difficile prevederlo – un elemento strutturale, perché questo strumento non può prescindere da una valutazione costruita intorno agli individui colti nella loro capacità di agire come singoli per raggiungere determinati obiettivi attraverso la competizione. La competitività indicata tra gli scopi dello smart working non è solo quella tra le imprese, ma anche quella tra i lavoratori. Il tempo del lavoro diventa un tempo in cui gli individui agiscono senza il supporto di saldi e continuativi rapporti di cooperazione, un tempo apparentemente autogestito ma in realtà fortemente normato dalle tecniche di valutazione.
Anche lo spazio del lavoro viene ristrutturato. I luoghi di lavoro e i luoghi dell’abitare si trasformano in uno spazio continuo, abbattendo un confine che protegge la dimensione intima e privata. Il progressivo ampliamento del tempo lavorativo trascorso tra le mura domestiche (e quella domestica sarà la dimensione prevalente che assumerà lo smart working nel settore pubblico, a dispetto delle dichiarazioni di principio) faciliterà il processo di individualizzazione del lavoro. In pratica, renderà permanente quel processo di distanziamento sociale che oggi siamo costretti a subire come misura di emergenza e che presto potremmo conoscere come misura ordinaria dei rapporti di lavoro. Ciascuno da solo, ciascuno a casa propria, con contatti saltuari con i colleghi, il più delle volte mediati da strumenti digitali: questo modello – che è un modello distopico, ma la storia recente ci sta abituando al fatto che a volte le distopie diventano realtà – comporta la disgregazione del lavoro, delle sue culture, della sua organizzazione. E anche dei suoi conflitti, ovvero di quell’agire collettivo che è sempre stato l’unico strumento a disposizione dei lavoratori per la conquista e la difesa dei loro diritti.
Spesso le indagini sullo smart working evidenziano come la sua adozione rappresenterebbe un miglioramento nella motivazione dei lavoratori. Ma se un lavoro non è interessante, perché dovrebbe diventarlo se svolto da casa, in solitudine? L’unica risposta possibile è che in questo modo si rinuncia ad agire insieme agli altri per modificarlo, per migliorarlo e si cerca una soluzione personale, contrattata direttamente con il datore di lavoro. La logica smart è la logica dell’individualismo.
Tecnologia e apprendisti stregoni
Questo nuovo rapporto con lo spazio e con il tempo del lavoro è regolato dalla tecnologia. È banale dire che la tecnologia non è neutrale. Meno banale di quanto sembri, in realtà, se guardiamo alle discussioni che la crisi in atto sta generando. Il quotidiano “Repubblica” ha di recente ospitato un intervento con il quale lo scrittore Alessandro Baricco intendeva inaugurare una nuova stagione di attivismo degli intellettuali sotto il segno dell’“audacia”, mentre in realtà il suo pezzo spinge verso il conformismo, l’abbandono definitivo dell’analisi e della critica, la subalternità allo stato delle cose. Il passaggio dedicato alla tecnologia digitale rappresenta in maniera lampante questa fuga dalle responsabilità:
“Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l’abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane scopriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento”.
Un intellettuale “audace”, anziché umiliarsi nel ruolo di cantore delle magnifiche sorti della tecnologia, dovrebbe porre alcune domande su di essa: chi la produce, chi la controlla, per quali scopi, quali sono le implicazioni sull’organizzazione del lavoro, quali forme di sorveglianza incorpora in modo esplicito o nascosto, che uso viene fatto dei dati che raccoglie.
Nel caso dello smart working, la tecnologia assolve tre funzioni: garantisce la ridefinizione dello spazio e del tempo di lavoro, l’abbattimento di ogni divisione tra sfere differenti della vita personale (si è sempre connessi, in ogni tempo e in ogni luogo); permette il controllo a distanza (sui tempi e i contenuti del lavoro e sugli spostamenti); fornisce una base di dati utilizzabile per i metodi di valutazione quantitativa.
Questi rischi dovrebbero essere presi seriamente in considerazione anche da chi sostiene che l’associazione tra tecnologia e smart working rappresenta una carta importante per la riconversione ecologica. È il lavoro, infatti, a produrre una enorme quantità di spostamenti quotidiani tramite mezzi di trasporto privati e la riduzione drastica di questi spostamenti attraverso un ricorso massiccio allo smart working sarebbe di grande aiuto per ridurre l’emissione di sostanze inquinanti che contribuiscono anche al riscaldamento globale. Questa prospettiva, però, comporta la rinuncia ad affrontare il problema attraverso investimenti nel trasporto pubblico collettivo e quindi confina la questione in un ambito individuale. Ma c’è un aspetto ancora più preoccupante in questo approccio, e sta nel fatto che non tiene conto delle implicazioni sociali. Mi è capitato di ascoltare un noto e stimato ambientalista sostenere nel corso di una conferenza che alle esigenze di controllo sui lavoratori connesse allo smart working si potrebbe tranquillamente fare fronte installando una telecamera all’interno delle nostre abitazioni. Questa versione dell’ambientalismo che potremmo definire apolitica rischia di riprodurre, cambiando solo uno dei fattori, le derive di una cultura del lavoro che nel corso del Novecento ha sacrificato diritti fondamentali sull’altare della produttività: ieri l’oggetto del baratto è stata la salute, domani potrebbe essere la libertà individuale.
La situazione di emergenza sta scoprendo le carte. Non ci resta che rimescolarle.