Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

L’America latina tra elezioni e Covid-19

Foto di Camillo Pasquarelli
31 Maggio 2021
Francesco Betrò

Guillermo Lasso, 65 anni, a capo del Banco de Guayaquil dal 1994 al 2012 e favorevole a un modello neoliberista dell’economia è stato eletto presidente dell’Ecuador l’11 aprile. Nel 2019 il Paese era stato attraversato da forti proteste contro il governo di Lenín Moreno, reo di aver sottoscritto un accordo con il Fondo monetario internazionale per ottenere un credito di 6 miliardi e mezzo di dollari in cambio di politiche di austerità. Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto, è arrivata inaspettatamente al secondo turno delle presidenziali in Perù. È tornata a candidarsi dopo essere uscita dalla custodia cautelare, ma è ancora sotto indagine, accusata di riciclaggio e ostacolo alla giustizia: potrebbe trionfare al ballottaggio del 6 giugno. In Cile il centrodestra ha ancora qualche chance di vittoria alle elezioni del prossimo 21 novembre. Eppure, tra il 2019 e il 2020, il movimento “Chile Despertó” aveva costretto Sebastián Piñera a mettere in discussione la Costituzione pinochettista e a convocare le elezioni per l’Assemblea costituente.
Queste dinamiche, a prima vista insolite, hanno spiegazioni da cercare nella storia recente dell’America latina e dei singoli Paesi.

L’impatto del Covid-19
L’America latina è tra le aree del mondo più colpite dall’avanzata della pandemia. Com’è noto, il Brasile vive la situazione peggiore ed è diventato il terzo Paese al mondo a superare i 15 milioni di casi. Dopo aver toccato il picco di 4.249 in un solo giorno, al 17 maggio i decessi hanno raggiunto quota 436 mila. Nello stesso periodo, il Perù – con una popolazione di 32,5 milioni di abitanti – registrava più di 62 mila morti. In Messico a spaventare è il tasso di letalità della malattia, il più alto al mondo: il 9,3% di chi contrae il Covid-19 muore. Le elezioni del 6 giugno potrebbero aggravare il momento, visti i 93,5 milioni di messicani chiamati a votare. Anche in Cile, sebbene il 50% della popolazione abbia ricevuto almeno la prima dose di vaccino, la situazione rimane difficile.
Nonostante il Covid-19, in molti Paesi dell’America latina si stanno svolgendo elezioni regolari.

Il tradimento delle popolazioni indigene in Ecuador
Se Lasso è riuscito a battere il candidato correista Andrés Arauz lo deve anche a chi aveva sostenuto al primo turno Yaku Pérez, candidato del partito indigenista Pachakutik. Secondo un’analisi di Clima Social condotta prima del ballottaggio, il 32,4% di chi al primo turno aveva preferito Pérez in seguito ha annullato la scheda, mentre il 30,4% ha scelto Lasso. La domanda è: come mai il movimento indigeno ha optato per un neoliberista di centro-destra? I fattori principali sono due e vanno letti insieme: l’anticorreismo e l’estrattivismo selvaggio delle materie prime. Negli anni del suo governo Rafael Correa ha spaccato in due il Paese, finendo per trovarsi contro non solo l’elettorato conservatore, ma anche una parte importante del movimento indigeno. Può essere paragonato a quello che è successo in Bolivia, ma qui Luis Arce – anche grazie all’origine indigena – è riuscito a ricompattare i sostenitori del Mas in tempo per vincere le elezioni. Come Evo Morales, Correa inizialmente è stato sostenuto dal movimento indigeno, ma ha finito per tradirne la fiducia. L’ex presidente ha sviluppato una politica estrattivista proprio nei territori considerati sacri dagli indigeni, in piena Amazzonia, allargando la frontiera ogni qualvolta le risorse di una determinata area terminavano. I programmi sociali, finanziati con la vendita delle materie prime, sono stati interrotti nel momento in cui il prezzo di queste ultime è sceso nel mercato internazionale. Avere Lasso come nemico comune potrebbe far tornare la sinistra ad ascoltare anche le istanze del movimento indigeno.

La domanda è: come mai il movimento indigeno ha optato per un neoliberista di centro-destra? I fattori principali sono due e vanno letti insieme: l’anticorreismo e l’estrattivismo selvaggio delle materie prime

Il Perù nel caos potrebbe affidarsi Keiko Fujimori
Dopo aver perso al ballottaggio nel 2011 e nel 2016, Keiko Fujimori questa volta ha una concreta possibilità di essere eletta presidente del Perù. Per farlo, il 6 giugno dovrà battere l’outsider Pedro Castillo, dato fino a inizio aprile al 2%, ma arrivato sorprendentemente in testa al primo turno. Se della Señora K si sa molto, lo sfidante è per lo più sconosciuto fuori dalla regione di Camarja. Radicalmente a sinistra, maestro e sindacalista, Castillo ha ottenuto un grande consenso nelle zone rurali e più povere del Paese, al contrario di Fujimori, che ha la sua roccaforte a Lima. La spartizione delle zone di influenza rispecchia anche le visioni diverse in tema economico: fautore di una nazionalizzazione delle risorse il primo, neoliberista la seconda. Per quanto differenti, però, i due candidati hanno delle somiglianze. Entrambi sono conservatori in tema di diritti civili – Castillo è antiabortista e, per usare un eufemismo, contrario a riconoscere i diritti alla comunità Lgbt+ – ed entrambi sono espressione delle enormi fragilità che attraversano il sistema politico peruviano. Basti pensare che dal 2016 si sono succeduti 4 presidenti, di cui uno si è dimesso per le accuse di corruzione (Pablo Kuczynski) e un altro è stato mandato via dopo un impeachment per “incapacità morale” (Martín Vizcarra). Queste crisi, unite a una corruzione endemica presente dall’epoca fujimorista, hanno fatto allontanare i cittadini dai partiti tradizionali.
Il Covid-19 ha esacerbato tutto questo. Prima dello scoppio della pandemia, dopo il Cile il Perù era l’altra grande locomotiva economica del Sud America, con tassi di crescita altissimi. Tuttavia, come in Cile, il nodo delle disuguaglianze non è mai stato risolto: circa ¾ della manodopera peruviana è informale, quindi la maggior parte delle persone vive alla giornata. Le misure per contrastare il virus, pur applicate per tempo, sono valse solo per i pochi che si possono permettere lockdown e telelavoro. Chi vive negli asentamientos, le baraccopoli informali, non ha potuto fare a meno di continuare a uscire: anche per questo il Perù ha registrato un numero elevatissimo di morti. Il 6 giugno, chiunque vinca dovrà dare una risposta a una situazione che rischia di collassare.

Il Messico si prepara alle elezioni di medio termine
Anche in Messico si voterà il 6 giugno, per rinnovare più di 21 mila incarichi, tra cui i 500 deputati della Camera. Si tratta di elezioni di medio termine per il presidente Andrés Manuel López Obrador, meglio conosciuto come Amlo, leader del partito Morena. Anche se la Costituzione prevede un mandato di 6 anni e l’impossibilità di essere rieletti, Amlo deve mantenere la maggioranza nei due rami del Congreso per concretizzare alcuni dei punti più sensibili del suo programma. Stando ai sondaggi, la strada sembra in discesa: Morena è dato tra il 40 e il 54% delle preferenze, mentre le opposizioni, divise, sono molto indietro. Se il partito del presidente non dovesse raggiungere la maggioranza assoluta, l’appoggio del Partido del Trabajo e del Partido Verde Ecologista de México gli garantirebbe comunque il via libera per le riforme. Nonostante restino caldi i temi dell’immigrazione e della violenza (anche quella di genere), la partita si giocherà su altro. A dimostrarlo, ancora una volta, sono i sondaggi: Morena non ha subito un’inflessione nemmeno dopo che Félix Salgado Macedonio, suo candidato per lo Stato messicano di Guerrero, è finito sotto accusa per due denunce di stupro. Difeso da Amlo, Salgado Macedonio è stato estromesso dalla competizione soltanto per un’irregolarità contabile e il partito ha candidato al suo posto la figlia Evelyn.
Come ha più volte fatto capire, nei prossimi tre anni Amlo ha intenzione di lasciare un segno attraverso il suo progetto Cuarta Transformación. Due sono i punti centrali: la riforma della giustizia e la nuova nazionalizzazione del settore elettrico e degli idrocarburi. Su quest’ultima si sono espressi a favore Morena e il PT, mentre il PVEM si è opposto. La riforma modifica la liberalizzazione voluta da Peña Nieto che stabiliva la precedenza agli impianti elettrici più economici, generalmente in mano ai privati, ma anche basati sulle energie rinnovabili. Con questa modifica, la precedenza nella contrattazione per diffondere energia spetterà sempre alle centrali termiche statatli che funzionano con combustibili fossili. Se la riforma dovesse essere considerata incostituzionale, Amlo ha già fatto sapere che modificherà la Costituzione, ma per farlo ha bisogno della maggioranza assoluta in Parlamento. Stesso discorso per le contestate Ley Orgánica del Poder Judicial de la Federación e Ley de Carrera Judicial – approvate il 23 aprile – che fanno seguito alla riforma della giustizia votata a dicembre. Il punto più controverso è l’estensione del mandato di Arturo Zaldívar alla presidenza della Suprema Corte de Justicia de la Nación (Scjn). Prevista nel 2022, la scadenza è stata spostata al 2024, anno in cui ci saranno le elezioni presidenziali: Zaldívar, non a caso, è uomo molto vicino ad Amlo. La legge, però, viola palesemente l’art. 97 della Costituzione, che stabilisce quattro anni come durata della carica. Se Amlo dovesse vincere possiamo attenderci scossoni forti.

Il Cile tra nuova Costituzione e nuovo presidente
Dopo quarant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione pinochettista, il Cile ha eletto l’Assemblea costituente che si prepara a redigere un nuovo testo. Il traguardo storico è stato raggiunto dopo un anno di proteste, decine di morti e quasi 4 mila feriti. Con il 98,3% delle schede scrutinate, le elezioni per l’Assemblea costituente del 15 e 16 maggio hanno conferito alle forze di centro-sinistra la maggioranza relativa dei 155 seggi (28 ad Apruebo Dignidad e 25 alla Lista del Apruebo). Il centro-destra, riunito nella lista Vamos por Chile, ha ottenuto 37 seggi: non abbastanza per raggiungere un terzo del totale (52) che gli avrebbe garantito la possibilità di bloccare le proposte, in quanto gli articoli della nuova Costituzione dovranno essere approvati con i due terzi dell’Assemblea favorevole. Ridimensionati i partiti tradizionali, la vera vittoria è dei candidati indipendenti che hanno conquistato 48 seggi. I 17 seggi restanti, come da regolamento, sono stati riservati ai rappresentanti dei popoli indigeni. Entro un anno dall’insediamento, l’Assemblea dovrà redigere un nuovo testo costituzionale che i cileni dovranno approvare o respingere con un referendum.
Sebbene si sia presentato unito a queste elezioni, il centro-destra si avvicina alle presidenziali del 21 novembre poco compatto. Le primarie che la coalizione oficialista Chile Vamos dovrà affrontare il prossimo 18 luglio, dalle quali uscirà il candidato successore di Piñera, saranno combattute. A tenere banco è soprattutto la questione dei fondi pensione. Anche se aveva cercato di ostacolare la misura sperando che il Tribunale la dichiarasse incostituzionale, l’attuale presidente cileno ha dovuto autorizzare per la terza volta dall’inizio della pandemia la possibilità per i cittadini di ritirare fino a un 10% dei risparmi dai propri fondi privati. Può sembrare una cosa scontata, ma non lo è. Le pensioni sono in mano a privati e a compagnie di assicurazioni che comprano e vendono nel mercato per cercare di ottenere interessi migliori. Tra chi si è battuto per questa misura c’è è Pamela Jiles, giornalista e deputata del Partido Humanista con forti tendenze populiste.
Anche a sinistra la situazione è confusa. Divisi alle elezioni per la costituente, le coalizioni Apruebo dignidad (Frente Amplio e Chile Digno) e Unidad Constituyente potrebbero svolgere due primarie diverse e separarsi anche sul candidato da sostenere alle presidenziali. Se nella prima dovesse vincere il sindaco comunista Daniel Jaude, e poi a novembre riuscisse ad arrivare al ballottaggio, difficilmente sarà sostenuto dalle forze di centro-sinistra guidate dal Partido Demócrata Cristiano. La coalizione che aveva portato al secondo governo di Michelle Bachelet nel 2014 potrebbe sfaldarsi. La corsa per le presidenziali è più che mai aperta.


Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.


info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it