L’accoglienza degli alunni stranieri
Se c’è una cosa che dovremmo sempre fare è diffidare dei buoni, di quelli che si presentano carichi della propria retorica e provano a mascherare a colpi di parole gli effetti di realtà delle proprie azioni.
Parto da questa posizione per cominciare a discutere delle nuove Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri1 emanate dal Miur nel febbraio di quest’anno. Linee guida di cui, in tutta sincerità, si fa fatica a comprendere il senso. In assenza di cambiamenti legislativi che possano giustificare l’emanazione di un documento di indirizzo ci si sarebbe aspettati, quanto meno, un cambiamento del paradigma di riferimento entro cui si discute di accoglienza e integrazione. Un cambiamento, però, assente in queste “nuove” Linee guida, così continuiste con le precedenti del 2006. Io ho l’impressione che i burocrati e funzionari del Ministero, insieme con qualche sottosegretario, abbiano ripetuto sugli alunni stranieri un’operazione che si era già rivelata fallimentare sui Bes. Ho l’impressione, infatti, che anche in questo caso il desiderio di segnare la propria presenza, di battere il colpo, sia prevalente rispetto a una riflessione accurata sulle conseguenze dei dispositivi che si mettono in campo.
Il mio giudizio, condiviso con altri operatori della scuola e con altri ricercatori, è che queste Linee guida rappresentino quello che abbiamo chiamato il passo del gambero, riprendendo la leggenda che vuole i gamberi camminare all’indietro. La metafora potrebbe essere ulteriormente raffinata: i gamberi camminano in avanti, ma saltano all’indietro solo quando si sentono minacciati. Che sia una scuola che per andare avanti va all’indietro o che sia una scuola che fa dei bei salti all’indietro di fronte alla minaccia rappresentata dagli alunni stranieri, poco importa. Il dato di fatto è che queste Linee guida rappresentano un passo indietro culturale, politico e pragmatico.
Nascondono, però, il proprio continuismo retrogrado con la retorica dei buoni. A partire dal titolo. Sono Linee guida per l’accoglienza. Il termine accoglienza è fortemente problematico, soprattutto in un testo che diventa elemento normativo. L’accoglienza, infatti, riguarda il ricevere in casa propria, è il gesto di liberalità di chi apre le porte della propria casa a qualcun altro. Compito dello Stato, dei suoi ministeri e dei suoi organi non è certo quello di accogliere, ma quello di farsi carico di una parola che dovrebbe essere l’unica titolata a essere usata: diritto. Il diritto all’istruzione e all’inserimento sociale, primi fra tutti. Il fatto è che nel regime del diritto deve esistere un portatore del dovere, deve esistere l’individuazione inequivoca del ciclo delle responsabilità, occorrono criteri di riferimento che definiscano i titolari del diritto e fissino i livelli di soddisfazione obbligatori, devono esistere piani di azione e risorse adeguate. Parlare di diritti costringe a ragionare sulla individuazione e rimozione di ogni impedimento al loro esercizio. Ecco, allora, che non usare la parola diritto, ma usare la parola accoglienza consente una duplice operazione. Da un lato, consente di fare vigere il regime del “ma anche”, che non prescrive o definisce indirizzi supportandoli con la loro coerenza con l’impianto normativo di riferimento. Dall’altro, parlare di accoglienza consente di giustificarsi, a prescindere dalle proprie inadempienze, secondo, appunto, la logica del buono per il quale conta l’intenzionalità, il grado di buona disposizione, e non l’effetto delle proprie pratiche.
Dopo decenni di presenza degli alunni con background migratorio all’interno del nostro sistema scolastico queste Linee guida rinnovano alcuni vecchi difetti storici del pensiero istituzionale. Proviamo a vederli.
Comincio dall’individuazione dei destinatari delle Linee guida perché colpisce veramente l’incapacità del Ministero di stratificare correttamente un concetto politetico quale quello di straniero. Gli estensori delle Linee guida si esercitano a individuare le diverse “locuzioni”, questo il termine usato, con cui secondo loro si possono abitualmente identificare gli alunni definibili come stranieri. L’elenco comprende: alunni con cittadinanza non italiana; alunni con ambiente familiare non italofono; minori non accompagnati; alunni figli di coppie miste; alunni arrivati per adozione internazionale; alunni rom, sinti e caminanti; studenti universitari con cittadinanza straniera. Un elenco nei fatti inutile visto che costruisce una diversificazione di fattispecie, per stare nel linguaggio giuridico proprio di un atto normativo come le Linee guida, a cui non corrisponde nessuna diversificazione delle procedure o degli indirizzi da seguire.
Un elenco che contiene i germi di un pensiero differenzialista e discriminatorio, come nel paragrafo che riguarda gli alunni rom, sinti e caminanti (citati sempre in modo esteso in ossequio al “politically correct” più recente), in cui si trovano commenti del genere:
“La partecipazione di questi alunni alla vita della scuola non è un fatto scontato. Si riscontra ancora un elevatissimo tasso di evasione scolastica e di frequenza irregolare. Non bisogna però ritenere che questi comportamenti derivino esclusivamente da un rifiuto ad integrarsi: accanto a fattori di oggettiva deprivazione socio-economica, vi è infatti una fondamentale resistenza psicologica verso un processo – quello della scolarizzazione – percepito come un’imposizione e una minaccia alla propria identità culturale, cui si associano, d’altra parte, consuetudini sociali e linguistiche profondamente diverse dalle nostre. Basti pensare al fatto, fondamentale, che il romanì – la lingua delle popolazioni nomadi – è un idioma tradizionalmente non scritto, usato per l’interazione “faccia a faccia” e per la codificazione di una ricchissima ed elaborata tradizione orale del sapere di queste comunità. I bambini rom sono quindi abituati ad imparare interagendo direttamente, in modo personale e concreto, con i membri della propria comunità, e per questo appaiono poco inclini a prestare attenzione al discorso, anonimo ed astratto, rivolto dall’insegnante all’intera classe.”
Un elenco che rispetto alle condizioni e alle traiettorie legate alla migrazione, ne schiaccia la molteplicità sotto la locuzione “alunni con ambiente familiare non italofono”. La locuzione è utile a descrivere il deficit in lingua italiana dei genitori come un elemento problematico per le carriere scolastiche dei figli, consentendo di sottolineare come questi alunni vivano:
“in un ambiente familiare nel quale i genitori, a prescindere dal fatto che usino o meno l’italiano per parlare con i figli, generalmente possiedono in questa lingua competenze limitate, che non garantiscono un sostegno adeguato nel percorso di acquisizione delle abilità di scrittura e di lettura (importantissime nello sviluppo dell’italiano per lo studio) e che alimentano un sentimento più o meno latente di insicurezza linguistica”.
Non è utile, invece, per comprendere come in questi anni di stabilizzazione definitiva dell’Italia come paese non solo di immigrazione ma di insediamento, i profili migratori si siano molto diversificati costringendoci a ragionare di grana molto più fina. Si sono diversificate le traiettorie connesse con le migrazioni perché la tradizionale differenza tra prima e seconda generazione deve ampliarsi fino a comprendere anche le delle classi generazionali intermedie (spesso frutto dei processi di ricongiungimento familiare) o perché assistiamo a migrazioni circolari tra l’Italia e il paese di origine in cui ragazzi e ragazze vivono contesti di crescita diversi a seconda della fase della propria vita. Schiacciare la comprensione dell’impatto tra famiglie e contesto scolastico solo sulla questione dell’italofonia dei genitori non fa percepire il peso che altre forme di capitale, oltre quello linguistico, hanno nel sostenere le carriere scolastiche. Pensiamo al capitale culturale, così importante per le migrazioni verso l’Italia che mettono insieme persone con lauree e persone analfabete anche in lingua madre; pensiamo al capitale sociale, così determinante anche per la diversificazione delle reti sociali a disposizione delle famiglie e per la diversificazione delle strategie di inserimento nella nostra società; pensiamo al capitale economico in un mondo dell’immigrazione in cui si riproducono le dinamiche di classe e le differenze di ricchezze e opportunità, tanto dei contesti di partenza, quanto nei contesti di inserimento.
L’incapacità netta di dialogare con la realtà delle migrazioni e con le diverse condizioni di cui sono portatori gli alunni con un background migratorio è legata alla più generale incapacità degli estensori delle Linee guida di dialogare con le evidenze e di utilizzare le evidenze per avviare una riflessione critica sui processi istituzionali che contribuiscono a generarle.
Il Miur che scrive le Linee guida è lo stesso Miur che ha a disposizione l’Anagrafe degli studenti e tutti i dati relativi all’inserimento scolastico o agli esiti delle valutazioni. I dati, molti dei quali disponibili solo nella forma aggregata propria dei rapporti ministeriali, contengono informazioni e forniscono quadri concreti da valorizzare per indirizzare politiche e definire prassi. Rinunciare a questo, non fare dialogare analisi e programmazione, è un vizio tipico del Ministero.
Eppure, la situazione della scuola italiana per quanto riguarda le carriere degli alunni con background migratorio è raccontata proprio dai dati del Ministero.2 Per esempio, sappiamo che cronicamente gli alunni definiti come Cni (con cittadinanza non italiana) hanno un ritardo scolastico rispetto all’età anagrafica, un ritardo che interessa un numero sempre più alto di ragazzi e ragazze nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria di primo grado e da questa a quella secondaria di secondo grado. Gli alunni in ritardo rispetto alla propria età anagrafica rappresentano il 16,3% degli alunni con background migratorio nelle scuole primarie, il 44,1% nelle scuole secondarie di primo grado e ben il 67,1% nelle scuole secondarie di secondo grado. Certo, c’è un miglioramento negli anni, ma il divario con gli alunni italiani è ancora impressionante (gli alunni in ritardo rispetto all’età anagrafica sono 2% degli alunni italiani nelle scuole primarie, l’8% nelle scuole secondarie di primo grado e il 23,9% nelle scuole secondarie di secondo grado). Il divario è altrettanto evidente per quanto riguarda i tassi di non ammissione alla classe successiva e comincia sin dalla scuola primaria per essere confermato negli ordini successivi con un punto massimo di differenza nel biennio delle scuole secondarie di secondo grado (il 35,9% degli alunni Cni non è ammesso alla classe successiva nel primo anno delle scuole secondarie di secondo grado a fronte di un 18% degli alunni italiani). Ritardi e bocciature sono considerati predittori dell’insuccesso scolastico e fattori di rischio di dispersione scolastica. Non c’è da stupirsi, allora se la percentuale di alunni Cni considerati a rischio di abbandono sia il doppio di quella degli alunni italiani (il 2,42% contro l’1,16%).
La forbice tra le carriere scolastiche degli alunni con background migratorio e gli alunni italiani dovrebbe sollecitare il pensiero critico e la messa sotto osservazione dei microprocessi di differenziazione così come dei processi istituzionali. In questi anni, invece, abbiamo assistito a un proliferare di interventi accompagnati da una sana retorica relativa alla individualizzazione della condizione di insuccesso scolastico. Abbiamo i doposcuola, abbiamo i corsi di italiano per lo studio, abbiamo un pensiero talmente bloccato da fare tornare in auge anche le classi differenziali.
Le Linee guida, da questo punto di vista, offrono conferme continue a questo approccio che salva l’istituzione e guarda l’altro come portatore di fragilità, di una condizione che richiede interventi compensativi. Quello che non viene preso in considerazione è che, al di là dell’individuo, il successo o l’insuccesso scolastico sono prodotti sociali, frutto dei processi istituzionali in cui riverbera la condizione individuale.
All’interno delle Linee guida ci sono consigli su come rendere più morbida la valutazione nel suo impatto con la condizione di straniero, non un ripensamento di una valutazione che ha sempre più una funzione di normalizzazione e di certificazione. Ci sono i richiami alla pedagogia interculturale, anche questa pronta a riconoscere il patrimonio culturale complesso dell’altro, ma non c’è la messa in discussione della lingua dell’istituzione o delle strategie che irrigidiscono le differenze nelle condizioni di partenza. Le Linee guida non dicono nulla sui compiti a casa, una tradizione tutta italiana che amplifica le differenze di partenza e che genera ulteriori disuguaglianze, talmente definite da diventare uno strumento di selezione discriminatoria. Così come non dicono nulla dell’utilizzo dell’italiano semplificato, dei libri di testo in italiano semplificato o dell’impiego degli ausili tecnologici in ottica aumentativa.
I piani transitori, che consentirebbero l’individualizzazione degli apprendimenti e delle conseguenti valutazioni in un’ottica di negoziazione e di trasparenza, sono addirittura considerati una soluzione “eccezionale”, rivendicando la correttezza “dell’affermazione del principio pedagogico sulla valutazione degli alunni stranieri, come equivalente a quella degli alunni italiani”. Salvo poi, secondo il linguaggio dei buoni, ricordare “la contestuale attenzione alla cultura, alla storia e alle competenze in italiano di ciascun alunno”. Prestiamo attenzione, ma rendiamo equivalente la valutazione.
Rispetto a questo impianto occorre riprendere una posizione critica che rivendichi una diversa impostazione pedagogica, che abbia il rigore di affermare che la valutazione uguale per tutti non è una garanzia di uguaglianza, ma un principio di discriminazione.
La lista degli aspetti negativi di queste Linee guida potrebbe continuare. Basti citare a chiusura il continuismo retrogrado, anche in questo caso, con il tetto del 30% di presenza degli alunni di origine straniera all’interno delle classi imposto dal Ministro Gelmini, vero e proprio manifesto ideologico.
Nei fatti queste Linee guida continuano la tradizione nostrana che associa l’intercultura di facciata, appunto da buoni, al modello italiano di supporto rivolto agli alunni stranieri neo arrivati, che una pubblicazione dell’Unione Europea3 ha definito come “modello non sistematico”. Il modello non sistematico si caratterizza per non avere una politica chiaramente articolata a livello nazionale e per un sostegno molto frammentato ai percorsi di alunni e famiglie. Il caso italiano, tra centralizzazione normativa e autonomia delle singole scuole, è un caso particolare che rende evidente come la frammentazione diventi un fattore di mancanza di equità, un regno dell’arbitrarietà delle condotte che affida molto alle buone coscienze di chi lavora nella scuola.
Due riflessioni finali, allora. La prima è che la condizione degli alunni con background migratorio e la loro esperienza scolastica sono specifiche ma mettono in evidenza le fatiche generali del sistema scuola. Gli alunni stranieri e di origine straniera rappresentano solo uno degli anelli deboli che mostrano l’incapacità della nostra scuola di essere luogo di apprendimento e di benessere, capace di produrre carriere inclusive e costruire forme di cittadinanza.
La seconda è che non possiamo dimenticarci che, anche in un paese dalla mobilità sociale bloccata come il nostro, le carriere scolastiche restano predittive delle future carriere sociali. Meno vero se pensiamo alla mobilità sociale verso l’alto, sicuramente meno vero rispetto alle generazioni passate, ma tragicamente ancora vero verso il basso. Il rischio è che la nostra scuola, che a parole è la scuola dell’accoglienza ma nei fatti rimane il contesto dell’insuccesso istituzionalmente costruito, produca carriere in cui alla frattura di classe si aggiunga quella che gli americani chiamerebbero la frattura del colore. Una situazione in cui, sistematicamente, le carriere sociali dei giovani con background migratorio sono schiacciate verso il basso esattamente come le loro carriere scolastiche. La vera e propria segregazione e canalizzazione forzata degli alunni stranieri nel sistema della formazione e dell’istruzione professionale, anche a parità di meriti e competenze acquisite, dovrebbe essere un segnale sufficiente, per chi ha compiti di governo, per mettere radicalmente e criticamente mano alla questione.
Le Linee guida sono reperibili all’indirizzo http://www.istruzione.it/allegati/2014/linee_guida_integrazione_alunni_stranieri.pdf
I dati a cui si fa riferimento in questo paragrafo sono reperibili in “Alunni con cittadinanza non italiana. L’eterogeneità dei percorsi scolastici”, Rapporto nazionale A.s. 2012/2013, Quaderni n.1/2014 della Fondazione Ismu, Milano, 2014 e nel Focus “La dispersione scolastica” a cura del Servizio Statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca.
“Study on educational support for newly arrived migrant children. Final report”, European Union, 2013.