La violenza politica, ieri
Ho iniziato a studiare la violenza politica nel 2001, dopo aver frequentato le lezioni di storia contemporanea di Vittorio Vidotto sulla conflittualità politica e sociale degli anni Sessanta e Settanta, uno dei primi corsi universitari dedicati a questo tema, svoltosi nella Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma. In passato si erano tenuti moduli d’insegnamento e seminari su quella stagione, ma se non sbaglio si trattava di uno dei primi corsi che affrontava quegli argomenti collocandoli al centro del dibattito storiografico sull’Italia repubblicana, ponendo esplicitamente il problema delle fonti come cardine per la loro ricostruzione storica.
Nella mia esperienza personale, gli anni Settanta erano una presenza carsica, affiorante di quando in quando nel dibattito pubblico.
Dal 1993 si erano susseguite diverse occupazioni e manifestazioni studentesche contro i progetti di riforma del sistema della pubblica istruzione che puntavano all’equiparazione tra educazione pubblica e privata, garantendo maggiori finanziamenti agli istituti paritari e alle scuole religiose. Nel 1994 questa mobilitazione si caricò di un significato prettamente politico, orientandosi alla contestazione del governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi e in un momento successivo degli esecutivi di centro-sinistra.
Giovani e giovanissimi erano stati, nella seconda metà degli anni Novanta, protagonisti di un ciclo di proteste non marginale, nei grandi centri urbani come nelle medie e piccole città di provincia, dal nord al sud della Penisola, sebbene fossero diffusi e sempre più persuasivi nuovi modelli di comportamento, collettivi ed individuali, ben lontani dalla partecipazione politica attiva. Ciononostante, la memoria degli anni Settanta era arrivata a questa generazione, filtrata dalle forme di politicizzazione che erano state mutuate, in buona parte, dal passato: come le assemblee studentesche, le manifestazioni e i cortei, gli slogan, gli striscioni, le modalità di stare in piazza, la diffusione di collettivi giovanili e comitati di coordinamento, le occupazioni e le autogestioni, i volantinaggi all’ingresso degli istituti e in generale la centralità accordata alla parola scritta, attraverso l’elaborazione di documenti e giornali studenteschi.
Si è tentato di spiegare questo fenomeno sostenendo che una parte residuale di giovani scimmiottasse il passato, mentre gran parte dei loro coetanei ne fossero distaccati. Non ci si è mai chiesto, tuttavia, come fosse stato possibile quella trasmissione di esperienze e di conoscenze e se davvero interessò solamente una minoranza del mondo giovanile, orientata a sinistra, dato che sul versante opposto dello schieramento politico e nell’associazionismo cattolico, attivo ben al di là della protesta studentesca, si riscontravano analoghi fenomeni di partecipazione ed impegno sociale.
Le tensioni della politica nazionale avevano avuto delle ricadute anche in ambito giovanile, in special modo la radicalizzazione della dialettica verbale tra i due poli di centro-destra e centro-sinistra, così come veniva concepita e restituita dalla televisione e dagli altri grandi mezzi di comunicazione di massa. Non erano stati infatti rari gli episodi di intemperanza politica tra giovani di destra e di sinistra, durante le manifestazioni, nelle occupazioni, in strada e nei quartieri delle città, mentre in molti centri urbani, come Milano e Roma, l’antica divisione tornò attuale.
Era stata riattivata, dunque, una memoria sopita e nascosta, divenuta adesso oggetto del contendere e strumento di lotta tra le contrapposte forze politiche. Per di più erano ancora in corso diversi processi che riguardavano alcuni degli episodi più drammatici di quella stagione e che dividevano l’opinione pubblica. Per fare solo qualche esempio: i procedimenti penali per l’attentato di piazza Fontana, per l’omicidio di Luigi Calabresi e per la bomba di piazza della Loggia. Erano ancora attive, poi, le Commissioni parlamentari d’inchiesta sulle stragi e il terrorismo. Accanto alla memorialistica dei principali protagonisti di quella stagione, sulla scia delle indagini giudiziarie, era così fiorita una letteratura cospirazionista, che proponeva il “mistero” – irrisolto e irrisolvibile – come principale chiave interpretativa di quegli anni. Un segmento minoritario del mondo giovanile, inoltre, militante o altamente politicizzato, coltivava il “mito” degli anni Settanta, rivendicando una continuità ideale con i movimenti di allora. Infine, gli omicidi di Massimo D’Antona nel 1999 e di Marco Biagi nel 2002 da parte delle nuove Brigate Rosse, così come le manifestazioni antiglobalizzazione in occasione del G8 di Genova del 2001, le violenze delle forze dell’ordine e la morte di Carlo Giuliani, avevano fatto riaffiorare con dirompente drammaticità un passato latente rimasto a lungo taciuto.
Lo stragismo, i terrorismi di destra e sinistra, la violenza politica e più in generale il conflitto politico e sociale degli anni Settanta non erano stati, fino a quel momento, terreno specifico dell’indagine storiografica. Esisteva, da lungo tempo, invece, in Italia e all’estero, un dibattito culturale e accademico su questi nodi della recente storia nazionale, in particolar modo all’interno delle scienze politiche e sociali con le ricerche, ad esempio, promosse dall’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna. Si era trattato di una stagione di studi fondamentale, le cui metodologie d’indagine e i risultati ottenuti sono tutt’oggi validi. Erano, tuttavia, ricerche lontane dalla sensibilità storiografica e distanti, per la natura stessa di quelle discipline, dai quesiti e dai temi che di norma scaturiscono da un percorso di ricerca basato sulle fonti d’archivio disponibili.
Nel sentire comune quest’ultimo punto era ritenuto il problema cruciale che spiegava l’impossibilità di affrontare storicamente gli anni Settanta, facendo prevalere altre narrazioni, a partire dalla memorialistica fino alla letteratura militante. L’assenza di documenti attendibili e consultabili era stata denunciata a più riprese, sia dalla comunità degli storici accademici che nel più largo dibattito pubblico. Pesavano in questa percezione due importanti fattori: l’impossibilità di accedere agli archivi dei servizi d’informazione, civili e militari, predisposti alla sicurezza dello Stato e coinvolti nelle vicende più oscure di quegli anni, a partire dagli attentati contro i civili. Ne derivava così la tesi secondo la quale, data la difficoltà di accertare la verità sulle stragi e sui fatti più cruenti, non fosse possibile ricostruire la storia complessiva di quella stagione.
Erano posizioni che denunciavano un dato reale, ma che alla fine rischiavano di essere contraddittorie e sterili perché non tenevano in considerazione, in attesa che un maggior numero di archivi fosse reso pubblico e perciò consultabile, la molteplicità di problemi e di possibili percorsi di ricerca che si potevano affrontare. Tanto più che si stavano moltiplicando le fondazioni, gli istituti e gli archivi, pubblici e privati, che avevano messo un importante patrimonio documentario a disposizione degli studiosi. Nel 2003, ad esempio, la Direzione generale per gli archivi del Ministero per i beni e le attività culturali e la Fondazione Lelio Basso di Roma pubblicavano la prima guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia. Un lavoro fondamentale che ricostruiva la mappa di decine di archivi, attivi da lungo tempo e presenti in tutta Italia. Di li a poco sarebbe stata consultabile buona parte delle carte del Ministero dell’Interno – i fascicoli del Gabinetto e del Dipartimento di pubblica sicurezza – presso l’archivio centrale dello Stato, così come i documenti di Questure e Prefetture conservati presso gli archivi di Stato dislocati sul territorio nazionale. A questo si aggiunga la reperibilità delle fonti a stampa, da sempre disponibili nelle biblioteche e nelle emeroteche pubbliche, di cui esistevano i primi cataloghi, come quello curato da Attilio Mangano nel 1998. Infine, era possibile consultare la documentazione prodotta dalle Commissioni parlamentari d’indagine sulle stragi e il terrorismo – dotate degli stessi poteri e degli stessi limiti dell’autorità giudiziaria esercitati nella fase istruttoria – e diverse tipologie di fonti giudiziarie.
I documenti, dunque, esistevano. Tant’è che cominciarono a comparire nel mercato editoriale le prime sintesi di storia dell’Italia repubblicana basate sulle fonti adesso reperibili. Mancavano, piuttosto, nuove domande che provenissero da studiosi che non avevano vissuto in prima persona gli anni Settanta. Il nodo della violenza e del terrorismo riaffiorava proprio in questo particolare frangente: quando alla disponibilità di un’ampia base documentaria si affiancò la comparsa di una nuova generazione che recava in sé interrogativi di qualità e natura diversi rispetto a quelli posti nel passato. Un’analisi delle tesi di laurea discusse negli ultimi dieci anni sul problema del terrorismo e della violenza politica basterebbe a restituirci la portata del cambiamento intervenuto. Ancora più significativa sarebbe la ricognizione delle tesi di dottorato. Fatte le dovute proporzioni, si è verificato – ed è tutt’ora in corso – un cambiamento analogo a quello intervenuto negli anni Sessanta e Settanta nello studio del fascismo, oggi come allora possibile per la disponibilità delle fonti consultabili.
Il confronto con la documentazione d’archivio ha portato a mettere in discussione, problematizzandolo, il rapporto con le diverse memorie degli anni Settanta. A partire da quelle presenti nel dibattito pubblico fino alle memorie militanti, marginali, è vero, ma entro una certa misura, perché spesso veicolate da case editrici di peso nazionale o diffuse dai grandi mezzi di comunicazione di massa.
Da questo confronto sono scaturite molteplici esigenze: comprendere la violenza dispiegatasi in quegli anni, restituirne il senso e al contempo riscriverne una periodizzazione che spiegasse la sua genesi, l’impatto che ebbe nella società di allora e le sue conseguenze. Le motivazioni e le finalità della violenza rimanevano infatti oscure. A lungo, ad esempio, se ne era negato il carattere politico, mentre abbondavano – anche in campo scientifico – le letture e le interpretazioni che ne esaltavano il carattere irrazionale o il suo essere espressione di un immodificabile dato antropologico degli italiani. Il nodo violenza/anni Settanta sembrava, dunque, completamente irrisolto: in particolar modo nella memorialistica, dove la violenza veniva restituita come un fenomeno subìto e mai agita.
Occorreva, innanzitutto, una riflessione sulle periodizzazioni impiegate fino a quel momento per spiegare e ricostruire la genesi della violenza politica, fatta ricadere principalmente ai primi anni Settanta come reazione alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Questo evento, intendiamoci, fu un vero e proprio spartiacque, senza la comprensione del quale è impossibile comprendere il processo di radicalizzazione della lotta politica e la nascita della lotta armata di sinistra. Le radici di questo processo, tuttavia, sembravano affondare indietro negli anni. Assumendo questa prospettiva non si puntava a ridimensionare l’importanza delle bombe del 12 dicembre. Al contrario, partendo dal presupposto che l’attentato di Milano fu il culmine di un piano di destabilizzazione, che trovò diversi interpreti ed esecutori, principalmente in gruppi terroristici neofascisti supportati da cordate interne all’intelligence italiana e statunitense, e non un evento improvviso, si cercava di cogliere meglio il salto di qualità introdotto dalla strage di piazza Fontana. Chi organizzò gli attentati, infatti, tenne in conto la molteplicità di reazioni che essi potevano suscitare nella società italiana. Tra queste l’accelerazione verso l’adozione di repertori radicali nei gruppi e nei movimenti che erano già predisposti alla violenza o avevano già annunciato il loro impiego.
In questa prospettiva, gli anni Sessanta furono un vero e proprio laboratorio di idee e di pratiche poi dispiegatesi nel decennio successivo. Su questo punto, ormai, convergono diverse riflessioni e ricerche in ambito storiografico che si sono aggiunte, come abbiamo visto, al dibattito da lungo tempo in corso nelle scienze sociali. Il confronto con le fonti d’archivio mostrava bene, infatti, l’intersezione tra i processi di lunga e media durata alle radici del terrorismo. A partire dall’influenza della guerra totale e della guerra civile sulle modalità della lotta politica nel secondo dopoguerra, il peso dell’anticomunismo, il mito della Resistenza tradita e della rivoluzione incompiuta nell’orizzonte culturale dei partiti e dei movimenti di sinistra, le logiche della guerra fredda e la loro ricaduta nella percezione e nella gestione del conflitto sociale, il problema della continuità o meno con le istituzioni del regime fascista. A questi nodi, vanno aggiunti i cambiamenti che incominciarono a delinearsi a inizio decennio: la fine del centrismo, la nascita del centro-sinistra, l’avvento della società dei consumi, l’allargamento dei diritti sociali e civili, le mutazioni del capitalismo italiano, la ristrutturazione interna del mercato del lavoro, l’emergere di inedite forme di conflitto sociale, l’ingresso sulla scena pubblica delle nuove generazioni.
Terrorismo e violenza politica, dunque, non apparivano affatto come fenomeni avulsi dal contesto politico e sociale: diversi percorsi d’archivio, tra essi intrecciati, mostravano, anzi, una continuità semantica, di repertori d’azione e di orizzonti mentali e culturali condivisi tra movimenti collettivi, gruppi politici e le formazioni armate. Allo stesso modo, proprio il confronto con i documenti scoraggiava facili automatismi: scagliare una pietra non portava necessariamente alla scelta delle armi e tra forme di violenza, anche radicale, si stagliavano confini etici e morali molto netti. Diveniva così sempre più stringente l’esigenza metodologica di restituire il più possibile la specificità di ogni percorso, collettivo ed individuale. Al costo di giungere ad un paradosso: proprio quando il tema della violenza ritrovava la sua centralità nella comprensione e nella narrazione degli anni Settanta, si manifestava la necessità di relativizzarne la sua portata. Essa non racchiudeva il senso di un’epoca, semmai era la manifestazione di una stagione ambivalente, altamente conflittuale ma al contempo pervasa da un profondo processo di democratizzazione della società italiana.
Si trattava di un percorso difficile, costruito negli archivi e nel costante confronto con le fonti, che si scontrava con la lettura di segno opposto, tutt’oggi prevalente nel dibattito pubblico e trasversale da destra a sinistra: gli anni Settanta, cioè, come “guerra civile”. La terza, addirittura, dopo quella combattuta tra socialisti e fascisti nel 1919-22 e la lotta fratricida tra partigiani e repubblichini nel 1943-45. Per quanto tale lettura avesse radici lontane, il suo ripresentarsi rifletteva un uso pubblico della storia piegato ad interessi di parte.
Lo dimostrava bene il costituirsi di un senso storico artificiale, dove il passato veniva continuamente riattualizzato, come se non fossero intervenuti negli ultimi decenni fratture radicali e profondi cambiamenti nella società, nella mentalità collettiva e nelle culture politiche. La memoria viva di quegli anni, i nodi mai sciolti e il difficile confronto generazionale, come abbiamo accennato, non ne facilitavano la comprensione. Lo dimostrava l’analisi dei testi e dei documenti politici prodotti allora. Parole, vocaboli e concetti si caricavano di un significato completamente differente: riformismo, democrazia, rivoluzione, violenza assumevano un valore diverso. Ne scaturiva la sensazione fortissima che negli anni Settanta la posta in gioco fosse altra rispetto a quella di oggi: la possibilità, in sintesi, di costruire una società diversa e migliore rispetto alla liberal-democrazia e di scegliere un modello economico alternativo al capitalismo era ritenuta reale ed imminente.
Con questa premessa, le culture politiche degli anni Settanta riacquisivano senso, perfino se si assume la prospettiva che violenza e terrorismo fossero manifestazioni ideologiche di un conflitto politico e sociale di tutt’altra natura rispetto alla percezione che ne avevano i contemporanei.
Mi sembra significativo, a questo proposito, il complesso rapporto tra cattolicesimo, conflitto sociale e violenza politica sviluppatosi negli anni Sessanta e Settanta. Non furono pochi, infatti, i gruppi, i movimenti, le associazioni e i singoli esponenti del mondo politico e sociale cattolico che, richiamandosi alla teologia cristiana e alla dottrina ufficiale della Chiesa, avevano legittimato la violenza come strumento della politica. Incise su questo processo di radicalizzazione la lettura, nel 1967, dell’enciclica Populorum Progressio di papa Paolo VI, dedicata ai laceranti problemi del Terzo Mondo e dei conflitti sociali nelle società sviluppate.
Queste tensioni si erano intrecciate con l’impressione suscitata, specialmente nel mondo giovanile cattolico, dai resoconti provenienti dalle missioni in Africa, Asia e America Latina. Ne nacque un particolare attivismo, ispirato dall’incontro con i catechisti e i missionari, all’origine di una mistica dell’azione, incentrata sull’urgenza del cambiamento e dal rifiuto del modello di vita occidentale. L’impatto con le terribili condizioni di povertà in cui versavano le popolazioni del Terzo mondo giocò infatti un ruolo fondamentale nel creare questo nuovo radicalismo. Ragazzi e ragazze, figli del baby boom del dopoguerra, cominciarono a vivere con disagio il diffondersi del benessere nella loro società. Non furono pochi, i giovani che partendo da queste esperienze si avvicinarono alla lotta armata nel decennio successivo. Il confronto con i regimi autoritari, dunque, non di rado sostenuti dalle democrazie occidentali, spinse molti ad una riflessione sulle cause politiche ed economiche dell’oppressione. Ben presto fu messa sotto accusa la società dei consumi per il conformismo e l’individualismo che generava nelle nazioni capitalistiche e per le condizioni di miseria in cui costringeva i paesi poveri. Era sorta, sostenevano, un’unica civiltà del “sottosviluppo”, foriera di guerre, crisi e conflitti.
Quanto era legittima questa convinzione? Ha senso porsi questa domanda da un punto di vista storiografico? Per lungo tempo, si è ritenuto che le culture e i soggetti protagonisti della conflittualità politica e sociale degli anni Settanta fossero incapaci di leggere la realtà, perché dominati dall’ideologia. Era un approccio nient’affatto in contraddizione con la tendenza a riattualizzare gli anni Settanta, trattandosi dell’altra faccia del medesimo processo di svuotamento del senso storico di quella stagione. Vi era poi la convinzione politica ed intellettuale, diffusasi a livello internazionale negli anni Novanta, che il processo di globalizzazione fosse governabile e che fosse possibile rifondare il nesso tra democrazia, libero mercato e capitalismo su basi diverse rispetto a come si era strutturato nel decennio precedente, quando era stato plasmato sulle idee delle ideologie neoconservatrici e neoliberiste. Ne derivava una lettura unilateralmente negativa degli anni Settanta, quasi fossero stati l’ultima coda del “secolo degli estremi”, per dirla alla Hobsbawm.
L’attuale crisi del modello democratico, l’avanzare dei populismi nello scenario europeo, il deterioramento del quadro internazionale, il susseguirsi di crisi economiche e le contraddizioni insite nelle società altamente sviluppate hanno stimolato nuove riflessioni e nuovi interrogativi su quella stagione. Che rimane lontana nel tempo, ma che allo stesso modo si stagliata come un ponte verso l’oggi, quasi a dirci che il Novecento non si è affatto concluso.