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La strategia del ricatto

10 Giugno 2013
Marcello Benfante

Nello scorso giugno, agli scrutini finali, sono stato complice, sebbene obtorto collo e con le mani legate dietro la schiena, della bocciatura di alcuni alunni che per varie e serie ragioni non avevano potuto frequentare assiduamente: anno scolastico invalidato, per l’esattezza, a causa del superamento del monte ore di assenze consentito.

Come dire: l’aritmetica che ha il sopravvento sulla pedagogia. Il trionfo brutale del quantitativo sul qualitativo. La presunzione che si possa crescere e imparare solo dentro la scuola (e non anche sul lavoro o nella famiglia o con una riflessione personale). E con il ritmo (vagamente marziale: da miles gloriosus) della scuola.

Il Consiglio di Classe, organo a vocazione repressiva, ha manifestato un certo sollievo nel respingere i ragazzi latitanti senza nemmeno doverli scrutinare. Senza nemmeno la fatica di discuterne. Una porta chiusa a priori. A cui è inutile bussare.

Il che forse conferma una recondita inclinazione sadica dell’insegnante, generalmente ben predisposto a esercitare il proprio potere selettivo come una sorta di prerogativa professionale. Ma forse in qualche modo la contraddice. È il nudo meccanismo legale, infatti, a respingere lo studente assenteista, con la sua ferrea e asettica prescrizione, e non il parere censorio dei docenti, i quali vengono esautorati e sollevati da ogni funzione giudicante. Totalmente deresponsabilizzati, eccetto per quanto attiene al mero computo numerico, essi devono soltanto applicare una regola demenziale, calata dall’alto, dagli imperscrutabili cieli ministeriali, senza potere obiettare nulla (se non nella forma sterile della verbalizzazione, cioè come lettera morta di una cerimonia funebre).

Il mondo della scuola, si sa, è sempre piuttosto propenso alla burocratizzazione dei suoi riti e dei suoi passaggi. Il suo tempo è scandito ossessivamente dalla normativa, si tratti di regolamenti o di grammatiche.

È in questi momenti di assoluto nonsense istituzionale e di pedante ottusità para-legale che mi chiedo perché ho scelto di fare questo strano mestiere che a tratti mi pare assurdo, sebbene lo reputi indispensabile e degno di ogni considerazione.

Galeotta fu la televisione. Se sono diventato un insegnante, il merito o la colpa, insomma la responsabilità, è del maestro Alberto Manzi.

Suppongo che tutti sappiano chi sia questo straordinario pedagogo. Nato a Roma nel 1924, morto a Pitigliano, di cui fu anche sindaco, nel 1997, maestro indisciplinatissimo (si rifiutò di redigere le schede di valutazione, asserendo di non poter “bollare un ragazzo con un giudizio” e subendo perciò sanzioni disciplinari e pecuniarie), scrittore per ragazzi insignito del Premio Andersen nel 1956, popolarissimo personaggio televisivo (e anche in questa veste piuttosto ribelle: al provino stracciò il copione e fece una lezione a modo suo, scombussolando i bigi funzionari della Rai).

Intellettuale versatile, che aveva lasciato l’università e la direzione dell’Istituto di Pedagogia per condurre la ricerca “sul campo”, che si era recato in Amazzonia per imparare e insegnare (e imparare a insegnare) presso gli indios e i campesinos, che aveva vissuto una formativa esperienza didattica in un riformatorio, Manzi tra il 1959 e il fatidico 1968 condusse sul piccolo schermo in bianco e nero un programma pre-serale di alfabetizzazione di massa, in un’Italia ancora prevalentemente dialettofona, che s’intitolava “Non è mai troppo tardi”.

Negli anni ‘50 il tasso di analfabetismo nazionale era di circa il 13% della popolazione, ma con punte minime dell’1% in Alto Adige e del 3% in Piemonte e Valle D’Aosta, contro i livelli massimi della Calabria (32%), della Basilicata (29%) e di Puglia e Sicilia (24%).

Una situazione drammatica, di profonda arretratezza, anche se già notevolmente evoluta rispetto ai dati del 1861, cioè alla nascita del Regno, che si attestavano intorno al 78% (ma con il 91% in Sardegna e il 90% in Calabria e Sicilia).

Il che equivale a dire che “Non è mai troppo tardi” fu una trasmissione rivolta prevalentemente alle plebi meridionali.

Con risultati notevoli. Si calcola che le 484 puntate del programma consentirono ad oltre un milione di italiani, soprattutto contadini del Sud, di conseguire la licenza elementare.

Non vorrei forzare le deduzioni statistiche (qui peraltro usate con disinvolta e approssimativa metodologia) ma, se si considera che al 2001 l’analfabetismo nel nostro paese, secondo dati riportati dall’Unione Nazionale per la Lotta all’Analfabetismo, era calcolato oltre l’11% (con circa 20 milioni di italiani sprovvisti di qualsiasi titolo di studio), “Non è mai troppo tardi” sembra assolvere pressoché interamente il miglioramento complessivo.

Ma i numeri, anche se più scientificamente considerati, non possono spiegare tutto. Non possono rendere conto, per esempio, del carisma mediatico e del fascino discreto di Alberto Manzi. Della sua abilità, per dirne una, di accompagnare le spiegazioni con l’ausilio di semplici e accattivanti disegni (e dire che la scuola non seppe apprezzare le virtù grafiche dell’alunno Manzi, valutandole con giudizi appena modesti).

Mi piacevano moltissimo quegli schizzi veloci eseguiti col carboncino in grandi fogli montati su un cavalletto. Erano un po’ come dei fumetti, e ciò li rendeva particolarmente graditi a noi ragazzi di allora, che apprendevamo un mucchio di cose dal “Corriere dei Piccoli” (assai più che dalla scuola).

Questo fu il mio imprinting didattico. La mano di Manzi che corre sul foglio per tracciare un simpatico pittogramma. Ho sempre insegnato (e imparato) abbozzando figurine alla lavagna, in ogni tipo di scuola, sia alla medie che ai licei o negli istituti professionali (non sono invece molto dedito agli schemi).

Un disegno, si sa, dice mille cose, pur senza parole. Cattura l’attenzione, magari sollecitando l’ilarità degli studenti che d’acchito si sentono troppo grandi per fare ancora pupazzetti, ma poi si lasciano coinvolgere facilmente. Anche uno scarabocchio. Perfino uno sgorbio. Tutto va bene e torna utile.

Per inciso: i miei alunni mi dicono sempre che avrei dovuto insegnare disegno, e non so se il complimento un po’ ruffiano nasconda ironicamente un dileggio delle mie capacità di insegnare l’Italiano o la Storia.

Comunque sia, il metodo funziona, e così mi avventuro a rappresentare con pochi segni stilizzati Dante che si smarrisce nella selva oscura come una specie di comic che nel relax fissa e chiarisce i concetti.

L’ho appreso da “Non è mai troppo tardi” questo elementare escamotage che assolve anche la funzione salvifica di scongiurare la noia, per il docente stesso, della ripetitività.

Il disegno ha sempre un potere liberatorio. E ludico, ovviamente. Questo tipo di approccio è anche un modo per sdrammatizzare la “lezione”, che sovente resta invece ex-cathedra anche quando tecnicamente non frontale.

Si dovrebbe sempre dare un senso di rilassatezza alla vita di classe. Bisogna che tutti si riesca a stare a proprio agio, senza angosce e patemi. E questo c’era di bello in “Non è mai troppo tardi”, che fin dal titolo era incoraggiante. E suggeriva che non tutto è perduto, che c’è una speranza, si può ancora rimediare. C’è tempo. Purché sia un tempo operoso, alacre. Insomma, un motto esortativo e insieme consolatorio, rassicurante.

Nella scuola invece spesso, troppo spesso, è “troppo tardi”. Di tempo, non ce n’è mai abbastanza. Il programma incalza, il calendario scandisce il metro della valutazione, stabilendo artefatte distinzioni trimestrali o quadrimestrali, i docenti diventano i contabili delle ore sprecate in ozio o dissipate nel disinteresse o altrove.

Il tempo scolastico è agostiniana estensione dell’anima. Benché nei film un’ora duri un attimo e l’insegnante in difficoltà venga salvato dalla precoce campanella come il pugile quasi al tappeto dal gong di fine ripresa, nella realtà un’ora in una classe turbolenta o difficile è praticamente infinita. Non si sa come colmarla. O come svuotarla. Le lancette s’inchiodano. Ogni istante si dilata come in un rallenty di Brian De Palma.

Di contro, l’anno scolastico ha impetuose (e misteriose) accelerazioni. Il tempo precipita. Si squaglia come gli orologi di Dalì.

Si è appena messo un po’ d’ordine nel lavoro e già sopraggiungono le vacanze natalizie. Il ritorno è contrassegnato da una regressione inesorabile. Ma ecco che, improvvisamente, dopo aprile, il mese più crudele, i giochi sono fatti, ogni cosa si affretta a chiudere la partita. È già off limits per tutto e per tutti.

Alla fine dell’anno c’è sempre qualche alunno che vuol farsi interrogare per recuperare un voto negativo, un andamento scolastico disastroso, ma non è quasi mai accolto come un figliol prodigo, bensì respinto (prima d’essere ufficialmente respinto con l’eufemismo reticente del “non ammesso”) perché è ormai fuori tempo massimo, rien va plus. Ossia perché è troppo tardi.

E magari qualche volta sarà anche vero. Ma il punto è un altro. L’insegnante è infastidito da questi ritardatari. È lui a stabilire i tempi, nell’ambito di una insindacabile cronologia istituzionale. La scuola stabilisce con fiscale inflessibilità l’entro e il non oltre. Come se per imparare e per dialogare ci fosse un’ora X invalicabile.

Anche sotto questo aspetto la vita scolastica, come veramente si configura nella realtà, è una dimensione spazio-temporale che, ove non può omologare, respinge ed estromette.

Alberto Manzi, il cui curriculum è fitto di tante esperienze (dal lavoro radiofonico all’insegnamento agli extracomunitari, dalla traduzione e riduzione dei classici della letteratura per ragazzi alla produzione poetica e fiabesca, dalla divulgazione scientifica alla stesura della legge sui diritti dei minori) è noto al grande pubblico anche come autore del romanzo “Orzowei” (1955), dal quale fu tratto uno sceneggiato televisivo in tredici puntate che andò in onda nel 1977.

“Orzowey”, opera pluripremiata e tradotta in 32 lingue in tutto il mondo, è un bildungsroman che coniuga la tradizione salgariana dell’avventura esotica e dei nobili sentimenti di fratellanza con una forte tensione educativa e didattica.

Il protagonista, Isa, è un “trovatello”, una sorta di tarzanide (ma più direttamente desunto dal Mowgli kiplinghiano) che, trovato in una cesta come Mosè, viene adottato dalla tribù degli Swazi, appartenente alla grande famiglia della razza Bantù.

Unico bianco tra i neri, non riesce a integrarsi, a essere accettato, e viene messo al bando, pur avendo superato la prova di iniziazione.

Il termine “orzowei”, d’altronde, indica “uno sciacallo d’uomo, un niente”. Un paria da espellere con intransigente ostracismo.

Sperduto nella terribile foresta gremita di fiere e di insidie, Orzowei incontrerà un “maestro severo” che lo salverà e lo adotterà: è Pao, il capo dei Busheman, i pigmei, che lo istruirà nell’arte del tiro con l’arco e della sopravvivenza.

In seguito, Orzowei entrerà in contatto con i Boeri, la sua razza originaria, ma anche stavolta non sarà accolto con benevolenza. Resterà per quasi tutti un selvaggio, uno straniero. Troverà però l’aperta comprensione di Paul, leader dei Boeri, che Isa ribattezza “Fior di granoturco” per i suoi capelli biondi. Un altro padre e un altro maestro si assume la responsabilità della formazione e della crescita dell’orfanello da tutti respinto.

In “Orzowei”, Albero Manzi pone al centro della narrazione i temi del rifiuto e dell’accoglienza. Ovvero la precarietà della condizione infantile e scolare. La sua fragilità e la sua priorità. Non a caso gli educatori più sensibili sono proprio i “piccoli uomini” guidati dal saggio Pao, questa specie di Socrate africano. Cioè coloro che più si avvicinano alla schiettezza dei bambini. Alla loro “dimensione”. Alla proporzione con cui giudicano i valori della vita, le cose che veramente contano.

Ciò che è piccolo consente di crescere. Ma i discenti non “rimarranno sempre ragazzi”. Non possono essere relegati nella minorità. “Che uomini saranno se non diamo loro fiducia?”, si chiede retoricamente Pao.

In un cero senso, Pao e Paul (la somiglianza dei nomi ne fa un tutt’uno) ritengono che non è mai troppo presto per trattare i bambini e gli adolescenti come persone.

Non sempre la scuola riesce a fare altrettanto. Non sempre riesce a essere accogliente, nel vero senso della parola.

Accoglienza è un termine che è stato inglobato dal linguaggio scolastico. Tradotto in “didattichese”, non significa più niente. Per meglio dire, sta a indicare delle odiose forche caudine, ovvero una serie di formalità fastidiose e di rituali stucchevoli, generalmente d’inizio d’anno. Peraltro subito smentiti dai toni prescrittivi e minacciosi con cui si usa ammonire preventivamente i potenziali indisciplinati.

Va da sé che questo primo approccio calibrato tra ipocrisia e intimidazione risulta piuttosto repulsivo che ricettivo.

La scuola, fin dal primo giorno, dal primo dei primi giorni, dovrebbe costituirsi come il luogo dell’ospitalità. Dovrebbe almeno sospendere e mettere in dubbio i suoi apparati, la sua tecnocrazia coercitiva.

Scrive Bruno Ciari (1923-1970), uno dei fondatori del Movimento di cooperazione educativa: “Dal primo istante in cui il fanciullo varca la soglia dell’aula il meccanismo, più o meno razionale, si mette in moto. Come vedremo, anche nei casi migliori il ragazzo diventa subito schiavo del ‘procedimento’; la sua vera personalità, la sua esperienza di vita è rimasta fuori, e probabilmente, se non entra in principio nella scuola, non vi entrerà più”.

Ma di solito, in tutti gli inizi del suo cursus studiorum, l’allievo è immediatamente avvertito che dovrà adeguarsi in frettissima. E che forse è già troppo tardi.

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