La scuola è finita
[…] “Alberto, per favore, puoi rileggerci il dettato?”, domanda il nostro promoter pedagogico al mio compagno.
“Oh sì, certo, le motoseghe, i decespu…”
Non ho bisogno di ascoltarlo: sono perfettamente sicuro di non fare errori, perché ho una eccellente memoria e perché abbiamo avuto lo stesso testo nello stesso periodo l’anno scorso, durante la tradizionale “festa delle occasioni per il vostro giardino”. Per la matematica invece sono meno portato. Spesso mi impappino nei problemi, soprattutto quando ci sono le percentuali. Riesco, è vero, a calcolare quasi sempre con precisione la somma da pagare, ma mi sbaglio al momento di applicare lo sconto del 5% per i possessori della carta fedeltà o, peggio, quando ci sono i megasconti del 20 o 30% durante i saldi. Preferisco di gran lunga i problemi sulla carta da parati, quando dobbiamo calcolare il numero di rotoli che il cliente dovrebbe comperare per tappezzare un’intera stanza di casa sua. Il promoter pedagogico (sì, quello che una volta si chiamava “il maestro”) mi ha detto di impegnarmi di più se voglio continuare a raccogliere le promozioni e i buoni acquisto per metterli nel mio libretto alla fine di ogni settimana.
[…] Quando scendo in cortile, il mio unico cruccio è di non poter vedere il mio amore, la bellissima Lila. Siamo vicini di casa, da sempre. Anche lei come me fa parte di quei bambini poveri che, fi n dalle elementari, lavorano a turno nelle aziende, dato che i nostri genitori non possono pagare le spese delle scuole ordinarie.
I suoi hanno scelto l’altra opzione locale, un ristorante della catena “Fast food”, per una ragione molto semplice: il pranzo è incluso. I miei invece non hanno voluto che facessi questa scelta. Secondo loro, le attività formative sono molto meno varie nei fast food che non nei magazzini “Bricogarden”.
Io posso imparare le tecniche del giardinaggio e del bricolage quando non ci sono compiti urgenti da fare. Lila, al contrario, deve accontentarsi di imparare a cucinare diversi tipi di cibi surgelati, a sbucciare frutta e ortaggi transgenici o a fare le pulizie. Mia madre, in realtà, aveva soprattutto paura che io diventassi obeso come la maggior parte di chi frequenta la scuola al “Fast food”. Durante la settimana, è raro che io e Lila ci incontriamo, perché le nostre “ore di risarcimento”, quelle che servono a rimborsare alle aziende le spese per la nostra formazione, non sono compatibili. Lei resta fino a tardi a servire i clienti o a pulire i tavoli o il pavimento, mentre io devo essere in magazzino alle cinque del mattino per mettere a posto gli scaffali.
Durante la settimana, siamo obbligati a vestirci con le tute da lavoro: Lila con la divisa rossa e io con quella orribile maglietta verde fosforescente, con il logo che brilla anche al buio. I bambini delle scuole a pagamento che incrociamo per caso per strada ci insultano gridandoci dietro “Sporchi poveri!” e “Figli di barboni”. Alcuni, che abitano nel mio stesso quartiere, fanno finta di non conoscermi e di non ricordare il mio nome: “Guarda il marziano “, mi dicono, o mi chiamano “l’omino verde”. Solo nel week-end abbiamo il permesso di metterci dei vestiti normali.
[…] Lo capisco dalla sua faccia seria che Lila deve darmi una notizia importante oggi.
Fa un lungo respiro prima di confessarmi che ci dovremo separare per un certo tempo, perché i suoi genitori vogliono farla entrare in una “scuola della Resistenza”. Non sopportano più di vederla sfruttata nel “Fast Food”. Sono preoccupati anche per la sua educazione sommaria, sanno bene che non ha imparato nulla da quando lavora lì e continuano a ripetersi: “Nostra fi glia non sarà mai in grado di leggere un libro”.
[…] Quando mi vede stupito perché non ho mai sentito parlare di queste scuole “della Resistenza”, mi spiega che è normale, perché sono scuole clandestine. Per evitare poi che la polizia possa scoprirle, è necessario che per un po’ di tempo gli studenti non abbiano alcun contatto con l’esterno.
Capisco al volo che ne passerà di tempo prima che ci potremo rivedere. Lila avverte la mia tristezza, e quando mi racconta altri particolari su come dovrà vivere in futuro, si guarda bene dal sorridere. Anche se è chiaro che si sente davvero sollevata a cambiare vita.
Mi spiega che la maggior parte di queste scuole è gestita da vecchi insegnanti in pensione che trasformano garage o cantine in aule scolastiche. Gli studenti imparano un sacco di cose e non sono costretti a lavorare.
“Deve costare molto, allora!”, commento.
“No, sono brave persone che non lo fanno per soldi. Chiedono ai genitori solo il minimo indispensabile per garantire cibo e pulizia ai bambini.
Ci si organizza come in famiglia, ognuno si assume un compito nelle faccende domestiche, come a casa propria”.
Resto in silenzio quasi per un minuto. Senza dubbio per me è un vero e proprio shock. Come potrò vivere senza di lei? Non ho il coraggio di dirle che il pensiero di non averla vicina mi sconvolge e allora provo a cercare argomenti per convincerla a rinunciare.
“Ma è illegale… siamo nel 2028 e tu sei legata al ‘Fast Food’ almeno per altri quindici anni. I tuoi genitori hanno fi rmato un contratto quando sei entrata alla scuola materna. Se scappi, sarai considerata una fuorilegge”. “I miei genitori dicono che sono le leggi a essere ingiuste e che questi contratti sono uno scandalo. Non si dovrebbe permettere alle aziende di far firmare accordi a bambini che sanno a malapena scrivere il proprio nome… non ti pare?”, mi chiede accalorandosi.
[…] “Lila, ma per quanto tempo esattamente dovremo restare lontani?”
“Non lo so. La polizia farà certo un’indagine: i miei genitori probabilmente saranno schedati, interrogati, sorvegliati per molti mesi. Bisognerà aspettare che gli sbirri perdano le mie tracce”.
[…] Ieri, ho detto addio a Lila. Ci siamo scambiati delle foto. Abbiamo preso i ritratti di “Miglior impiegato” della settimana, categorie “Ordine e pulizia” per lei ed “Efficacia e lealtà” per me, e li abbiamo ritagliati.
[…] Quando mi sveglio, non faccio che pensare a lei, alla sua partenza di notte per un luogo che i suoi stessi genitori non conoscono. Tutto ciò per evitare i pedinamenti che certamente dovranno subire. Lila è davvero al sicuro? Anche lei pensa a me?
Questa mattina, faccio fatica a concentrarmi durante il corso di Efsu (Educazione fisica, sportiva e utile). Nel programma di oggi dobbiamo correre in coppia trasportando sacchi di terriccio da cinquanta litri.
Io faccio squadra con Hicham, che è molto più grande di me, anche se mi pare che tutto il peso ricada sulle mie spalle. L’esercizio finisce quando il pallet è vuoto. Il padrone ci rimprovera aspramente constatando i nostri scarsi risultati: “Ah, se cominciamo la settimana così, venerdì non ci saranno buoni acquisto nei vostri libretti. Se penso che alla fine dell’anno dovrete ripetere lo stesso esercizio con sacchi di cemento da cinquanta chili, siete messi molto male!”.
[…] Le settimane successive non sono state facili. Al lavoro hanno continuato ad assegnarmi incarichi pesanti e massacranti, e spesso tornando a casa avevo mal di testa e mi sentivo tutto rotto. Nonostante i miei eccellenti risultati, per molto tempo non mi hanno dato i buoni acquisto che mi spettavano.
Ma con l’aiuto dei miei genitori e di Hicham sono riuscito a tener duro. Mi sono quasi abituato a quella vitaccia.
E poi tutte le sere, nel mio letto, parlavo alla foto di Lila e mi addormentavo pensando a lei.
A poco a poco i poliziotti hanno allentato i controlli, fi nché non mi hanno completamente dimenticato. Il mio maestro è stato nuovamente autorizzato a ricompensarmi per il mio lavoro, e la cosa lo ha reso contento quanto me.
I primi mesi, continuavo a controllare la cassetta delle lettere invano, il tempo passava e mi chiedevo spesso se Lila non si fosse scordata di me. È stata una vera sorpresa quando, una sera, ho trovato una lettera indirizzata a me sul tavolo della cucina. La busta non aveva francobollo.
Dentro c’era una foto di Lila che sorrideva felice. Sembrava in gran forma. Mi proponeva di vederci in segreto la domenica seguente a Parigi. Hicham mi ha prestato la sua bici per fare gli undici chilometri fino in città.
Quando ci siamo incontrati, Lila mi ha raccontato ogni cosa della sua nuova vita: l’ambiente accogliente dei dormitori, l’orgoglio di essere riuscita a leggere un libro fino alla fine, ma anche lo sconforto nei fine settimana, quando pensava a me e ai suoi genitori. Laggiù le regole della clandestinità erano un po’ pesanti, certo: non si poteva piangere né ridere troppo forte, e bisognava aspettare che fosse buio per poter uscire a prendere una boccata d’aria.
Avevo però l’impressione che si soffermasse su quelle cose negative per non ferirmi troppo. In fondo, era evidente che fosse molto felice della sua nuova vita.
“Impari molte cose?”, le ho domandato.
“Non sono tanto le cose che impari, ma il modo in cui le impari”, mi ha risposto accalorata. “Si fanno ricerche, si presentano i nostri lavori in gruppo, si discute insieme. Ho l’impressione che, quando parlo, la maestra sia davvero interessata a quello che dico. Come posso spiegarti? Lei mi ascolta, capisci, e io sono convinta di esistere e di essere importante in quella classe”. F
Facevo fatica a capire come tutto ciò fosse possibile. Era così diverso dal mondo della nostra scuola, in cui tutti noi siamo costretti a stare zitti e ad ascoltare in modo passivo il nostro promoter pedagogico.
“Qual è la materia che preferisci?”
“Storia. Ho l’impressione che, studiandola, si comprenda meglio il mondo attuale”.
“Allora sei in grado di dirmi perché la nostra vita oggi è così dura? E perché mio padre rimpiange il passato?”
“All’inizio del ventunesimo secolo”, ha cominciato a spiegarmi, “la gente non è stata in grado di rifiutare quello che le veniva imposto”.
“Ma che cosa poteva fare?”
“Opporsi, opporsi con tutte le sue forze”
“E ora? Possiamo farci qualcosa?”
“La maggior parte dei grandi dice che è ormai troppo tardi, che non si può tornare indietro. Ma i miei compagni e io, la sera nelle nostre camere da letto, sogniamo tutti di cambiare questo stato di cose, e ci siamo ripromessi di riuscirci, un giorno”
Ho visto nei suoi occhi una grande determinazione. Era come se, in un istante, Lila mi avesse trasmesso la sua energia rendendomi più forte.
“Quel giorno verrà, Lila”, le ho detto guardandola dritta negli occhi. “Io sarò con te, e saremo in tanti”.