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La rivoluzione è il respiro della storia

1 Giugno 2022
Mauro Boarelli

È un libro felicemente inattuale quello di Enzo Traverso (Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli 2022). Inattuale, perché – controcorrente rispetto alla vulgata mediatica (e al discorso politico che ormai ne è succube) – si propone di “riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave interpretativa della storia moderna” e di contrapporre alla narrazione “revisionista” – “la cui profonda saggezza si riduce all’idea che cambiare il mondo significa costruire totalitarismi” – una ricostruzione critica lontana dagli stereotipi, dalle semplificazioni, dalle manipolazioni.

L’impianto è vasto, complesso, originale. Il saggio non segue un andamento cronologico, ma procede per accostamenti di materiali eterogenei organizzati intorno ad alcuni raggruppamenti tematici. Da questo racconto poliedrico (di cui è impossibile fornire una sintesi nel breve spazio di una recensione) vorrei estrarre due linee interpretative dense di spunti per una riflessione storica e politica (e anche per qualche osservazione critica).

La prima riguarda il tempo. Traverso afferma – riprendendo Marx – che l’intera storia del capitalismo “può essere ripercorsa come un lungo e violento processo di appropriazione del tempo mediante la sottomissione dei lavoratori ai vincoli di un sistema di produzione che possiede una determinata temporalità”, e ciò significa che la separazione dei lavoratori dai loro mezzi di produzione non può essere individuata come l’unica dimensione del conflitto. Ho subito collegato questo passo a ciò che scrisse Vittorio Foa quasi quarant’anni fa introducendo un libro importante, frutto della sua esplorazione verso nuove chiavi interpretative:

“Nel corso della mia ricerca sugli inglesi del primo Novecento mi è parso che essi mi insegnassero, col loro esempio, che gli uomini e le donne riescono sempre a riservarsi degli spazi di libertà nel consumo del loro patrimonio vitale, che è il tempo. E che quindi il vero problema è quello di sorreggere quella libertà. Nella loro storia mi pareva di scoprire il declino delle ideologie classiche della trasformazione sociale sulla base della riappropriazione dei mezzi di produzione e della riappropriazione del pluslavoro, di scoprire che la discriminante del conflitto sociale è stata anche ieri, come oggi, il governo del tempo” (La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Rosenberg & Sellier 1985).

Individuare il conflitto intorno al tempo come motore del conflitto sociale produce un mutamento di prospettiva e mette in luce aspetti delle lotte intorno al lavoro che la ricerca storica ha faticato a mettere a fuoco oppure ha deliberatamente rimosso, con alcune rilevanti eccezioni tra cui figurano gli studi di Edward P. Thompson (e, in Italia, quelli di Simonetta Ortaggi); e permette anche di non sottovalutare le ambivalenze del pensiero rivoluzionario nel campo della prefigurazione di nuovi rapporti di lavoro. A questo proposito Traverso ricorda la fascinazione di Lenin per il taylorismo, che favorì l’introduzione nel sistema produttivo socialista del più raffinato strumento di espropriazione del tempo messo a punto dalla società capitalista.

La funzione sociale del tempo non investe solamente il rapporto tra capitale e lavoro. Quella che viene indagata è anche una ristrutturazione della temporalità storica, poiché all’oggettività e alla continuità del tempo del capitale – legato al mercato e allo scambio delle merci – la rivoluzione contrappone un tempo soggettivo e discontinuo, un tempo autoregolato. La prospettiva rivoluzionaria, in sostanza, mette in crisi sia la concezione lineare del tempo sia l’interpretazione deterministica della storia, che pure ebbe larga parte nella canonizzazione del pensiero marxista e contribuì a mettere la rivoluzione in contraddizione con se stessa.

I riferimenti alle molteplici concezioni del tempo che attraversano la lunga parabola rivoluzionaria presa in esame da Traverso sono numerosi e provengono da campi diversi. Uno spazio di rilievo viene riservato alle complesse architetture di Walter Benjamin e Ernst Bloch – che, per strade diverse, declinarono forme originali di rapporto tra l’azione umana e il passato – e a un murale (l’analisi delle immagini è uno degli approcci più originali del libro), quello realizzato da Diego Rivera nel 1934 per il Palacio de Bellas Artes di Città del Messico e intitolato L’uomo controllore dell’universo, nel quale l’approccio evoluzionistico è intrecciato con una rappresentazione delle discontinuità della storia.

Il secondo livello interpretativo su cui vorrei porre l’attenzione è quello articolato nel capitolo conclusivo, intitolato “Storicizzare il comunismo”. Storicizzare è necessario – sostiene l’autore – innanzitutto per decostruire la storiografia anticomunista, descritta come vittima del suo stesso furore polemico, in quanto assume come reale la forza demiurgica del partito bolscevico, ovvero una costruzione ideologica. Le due narrazioni si muovono, in sostanza, all’interno dello stesso schema, ed entrambe si rivelano incapaci di cogliere le dinamiche reali del processo storico.

Da qui Traverso muove per individuare alcuni dei nodi principali che devono essere sottoposti a un processo di storicizzazione per metterli al riparo da semplificazioni, omologazioni, comparazioni affrettate e maldestre: la distinzione tra movimenti e regimi, senza tuttavia ignorarne i legami; l’individuazione di una pluralità di comunismi e l’impossibilità di declinare il sostantivo al singolare; il nesso tra guerra e rivoluzione. A questo proposito Traverso evidenzia come la Prima guerra mondiale avesse “rimodellato la politica cambiandone i codici, introducendo forme prima sconosciute di autoritarismo”. Ciò ebbe un riflesso inevitabile sul bolscevismo, soprattutto a causa della guerra civile, nella quale l’autore individua le origini dello stalinismo. Traverso ha ragione nell’affermare – in contrapposizione a una visione manichea fondata sull’identificazione tra rivoluzione e totalitarismo – che “se l’esito finale [della guerra civile] fu la dittatura di un partito rivoluzionario, l’alternativa non era un regime democratico [ma] una dittatura militare di nazionalisti russi, latifondisti aristocratici e pogromisti”. Qui trovo, però, un limite argomentativo. Uno dei punti di partenza del saggio è che l’involuzione della rivoluzione russa verso un sistema autoritario non era ineluttabile. Perché la guerra civile avrebbe dovuto renderla tale? Traverso non dice questo, naturalmente, però isola questo elemento e – implicitamente – lo sovraccarica di implicazioni, rischiando di chiudere il campo delle interpretazioni anziché aprirlo a nuove domande. Nel corso della ricostruzione non mancano precisi riferimenti alla declinazione del rapporto tra rivoluzione e democrazia. Traverso si sofferma sul fatto che Lenin concepisse la rivoluzione come un atto “autoritario”, sulla mancanza di una teoria politico-giuridica relativa alla costruzione dello stato – un vuoto in cui “ogni arbitrio diventa possibile” – e sulla discrepanza tra la teoria leninista della rivoluzione e le forme concrete di gestione del potere. Dedica spazio alla pluralità di idee che intorno a questi temi si era sviluppata all’indomani della rivoluzione bolscevica. Lo scritto di Rosa Luxemburg del 1918, in polemica con il disprezzo di Lenin e Trockij per la “democrazia formale”, ne rappresenta una delle declinazioni più lucide e incisive:

“Non siamo mai stati fanatici della democrazia formale, significa soltanto: noi abbiamo sempre distinto il nocciolo sociale dalla forma politica della democrazia borghese, abbiamo sempre svelato l’amaro nocciolo della disuguaglianza e della soggezione sociale sotto la dolce scorza dell’uguaglianza e delle libertà formali – non per ributtarle, ma per spronare la classe operaia a non ritenersi soddisfatta della buccia; a conquistarsi piuttosto il potere politico per riempirlo di un nuovo contenuto sociale. È compito storico del proletariato, una volta giunto al potere, creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non abolire ogni democrazia.”

Tuttavia questi elementi non vengono organizzati per scandagliare fino in fondo – attraverso i raffinati strumenti analitici messi in campo – le cause dell’esito autoritario, violento e oppressivo della rivoluzione. A questo limite se ne affianca un altro, relativo ai soggetti della rivoluzione. Traverso sottolinea – polemizzando con le interpretazioni focalizzate sul determinismo economico o sulla declinazione meccanica di fattori strutturali – che la storia è “un processo permanente di produzione di soggettività” e che l’atteggiamento dello storico deve evitare di “anestetizzare” il passato “neutralizzando i sentimenti degli attori e rimuovendo le loro emozioni”. Ma nel libro il campo delle soggettività e degli attori è limitato ai leader della rivoluzione e agli intellettuali che l’hanno teorizzata o sostenuta. Del popolo nelle strade, nelle piazze e nelle fabbriche, sulle barricate o nel fuoco della guerra civile rimangono poche tracce. Probabilmente si tratta di una scelta precisa, ben riassunta dal sottotitolo dell’edizione originale in lingua inglese: “An Intellectual History”. Ma è possibile fare una storia solo intellettuale della rivoluzione?


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