La resistenza di Ada
Quando pubblica il Diario Partigiano (1956) Ada Prospero ha già vissuto tante vite. La lotta antifascista ne ha segnato la giovinezza, attraverso l’apprendistato sentimentale e politico con il primo marito Piero Gobetti. La morte precoce di lui, vittima della persecuzione di Regime, scandisce un prima e un dopo. La scelta di salire sui monti della Val di Susa assieme al figlio Paolo, per partecipare alla lotta per la Liberazione, è un’urgenza e una promessa. Un patto coltivato con ostinazione nella cospirazione del ventennio a cui lo squarcio resistenziale offre una occasione inedita. Per lei, rimasta a combattere senza il compagno, è il tempo della rimessa al mondo. Il consolidamento di una scelta personale diventata presa di posizione collettiva; l’occasione di fare la storia, di determinarla dall’interno di una ribellione civile che assume la forma di un vasto movimento popolare. Tenendo insieme cronaca e letteratura, il diario è la rievocazione di un quotidiano destinato a scivolare fuori dai grandi accadimenti, in grado di mettere in un corto circuito ogni retorica resistenziale. La ricostruzione dell’attività di quei mesi si mescola ai volti dei montanari e delle montanare incontrati nella strategica attività di coordinamento tra le valli, in qualità di funzionaria politica del Partito d’Azione; i sabotaggi, i rastrellamenti, le fughe incrociano le esistenze ordinarie di studenti e studentesse, operaie e operai, casalinghe e intellettuali, ragazzi e bambine. Leggere le sue memorie è entrare in una anonima, brulicante e vitale quotidianità di popolo che è l’evento straordinario e sovversivo di quei mesi. La Resistenza armata, come movimento di pochi, aveva attinto a una inedita partecipazione civile che, in forme e modi diversi, rendeva possibile la lotta. Alla battaglia politica e patriottica, si affiancava la guerra di popolo e questo era un fatto inedito: l’entrata sulla scena del mondo di chi la storia non l’aveva mai fatta. Gli ultimi, i reietti, le donne. La Resistenza è stata un movimento di emancipazione dal basso, unico nella storia d’Italia. Uno sdoganamento sociale e culturale che ha saputo trasformare l’antifascismo elitario e partitico dei piccoli gruppi in un vasto movimento popolare. Fu questa l’utopia di una “rivoluzione democratica” che rivelava l’altra Italia; il volto eccentrico e vitale di una parte del Paese che emergeva dalle ceneri della normalizzazione fascista. Quella di Ada Prospero è una Resistenza ideale, attuale nella forza del taglio, nella radicalità della sovversione, depositaria di un movimento universale di lotta per l’emancipazione umana. Nel tempo di orrore e di violenza che fu la guerra civile, la forza del racconto si rivela nella capacità di prendere parte senza cedere alla spirale ideologica dell’odio. Per lei, partigiana insignita della medaglia al valore militare, che imbraccia le armi per assumere posizioni strategiche di comando nel collegamento tra le valli, la lotta per il riscatto sociale è nella capacità di preservare l’umano. È questa la posta in gioco contro la dittatura, il punto di partenza di una futura società democratica. È uno sguardo sul mondo che permea ogni pagina del racconto, come nell’intensa rievocazione del rastrellamento di Meana nell’agosto del 1944. Il corpo martoriato del giovane partigiano Stefano Tremaione è stato trucidato e barbaramente impiccato al municipio del paese. Il cadavere è controllato a vista dai fascisti affinché sia esposto al pubblico ludibrio. La sua presenza è immagine muta di un odio intestino che dilania le viscere di una nazione. L’urgenza è per Ada quella di preservare la dignità del corpo, di riscattarne l’inviolabilità “per lui, per i suoi, per tutti, per gli stessi suoi assassini”. Si tratta di conservare “quell’aura di civiltà e gentilezza che oggi par cancellata dal mondo” perché ci sia un futuro da ripensare nel dopoguerra. Una ribellione la spinge a uscire nel cuore della notte, a sfidare con inaudito coraggio il coprifuoco nemico, per un gesto apparentemente assurdo: accarezzare quel corpo e deporre un fiore. Lo scopo è di restituire, con un gesto di cura, il rito umano e senza tempo della sepoltura.
“Quando fu scesa la notte e Paolo e Mario se ne furono andati per prudenza a dormire altrove, partii per Campo del Carro. Tutte le porte delle borgate eran chiuse, le luci spente, un tacito senso di lutto gravava ovunque. Nei pressi per la svolta della Chiesa, udii a un tratto scalpiccio d’uomini e d’animali. Mi nascosi dietro una siepe. Era una compagnia di Alpini della Monterosa, coi muli e le salmerie, che tornava dal Colletto dove probabilmente era andata a dar man forte ai tedeschi nel rastrellamento. Uno di essi si fermò presso la siepe dietro cui mi ero nascosta e si accese una sigaretta; alla rapida luce del fiammifero, vidi il suo volto giovane, stanco, senza vita. E mai come in quel momento sentii l’assurdità crudele e disperata di quell’essere così vicini e così simili e al tempo stesso così nemici. Scavalcando il cancello, entrai nel giardino di una villa e dalle aiuole abbandonate colsi un gran fascio di fiori. […] Camminando curva nell’ombra, girai dietro l’edificio del Municipio, poi, quasi strisciando, passai davanti. Vidi la sagoma dell’impiccato, sfiorai con le mani i suoi piedi nelle grosse scarpe da montagna (strano, pensai, che non gliel’abbiano tolte!), deposi sotto di lui, sui gradini, il fascio d’inutili fiori, indugiai con una rapida carezza sulla fredda mano irrigidita. Poi mi allontanai senza più curvarmi; ormai avevo fatto quel che volevo e non m’importava più che mi fermassero; ero armata soltanto della mia umanità dolente, dell’angoscia che mi gonfiava il cuore, delle lagrime, incontenibili, che mi traboccavan dagli occhi inondandomi il volto. Che cosa potevan farmi? E, qualunque cosa mi facessero, che cosa me ne importava? Ma nessuno mi vide o, se mi vide, non disse nulla. Lentamente me ne tornai a casa sotto le stelle, in mezzo a un silenzio così assoluto che mi pareva di sentir battere il mio cuore. Cosa avverrà domani?” [NdA: È mia la scelta di evidenziare le frasi in corsivo].
La lotta contro il nazifascismo ha aperto un solco, indicato una strada, nel momento in cui ha mantenuto saldi questi valori. La sfida dell’emancipazione è anzitutto umana. Nelle pagine limpide del Diario partigiano si ritrova l’humus di un antifascismo capace di valicare i limiti storici e ideologici per assumere una dimensione universale. È questa una delle eredità più feconde della Resistenza la cui tensione ideale permea di fatto la nostra carta costituzionale. Penso agli articoli 2 e 3, a quei “diritti inviolabili” della “persona umana” ribaditi come regole del gioco fondanti dello stato democratico. In quella spinta utopica si sarebbero giocate le sorti di una democrazia integrale, dopo la fine della monarchia sabauda e un ventennio di dittatura. È bene ribadirlo contro ogni negazionismo, oltre una contro-resistenza volta a strumentalizzare le parole, a svuotarle del loro significato, per svilirle nell’agone politico e mediatico. La parola antifascismo è usata e abusata dal dibattito pubblico. Spesso è un termine manipolato ad affetto, impoverito di significato, tirato per la giacca dalla competizione politica come uno slogan. Vessillo ideologico di una sinistra che ha imbalsamato la Resistenza nella retorica di partito o arma contundente di una destra che ne cavalca la strumentalizzazione con l’obiettivo di espellerlo dalla storia costituzionale. La posta in gioco è da più parti quella di cancellare una radice. La sfida della memoria è nel salvaguardare questa matrice, sottraendola all’impoverimento delle mistificazioni ideologiche.
Ada Prospero sapeva quanto difficile fosse dissotterrare e preservare lo slancio ideale della Resistenza e a mantenerne la tensione vitale dedicò tutta se stessa. La sua fu una battaglia vissuta anzitutto come donna: la questione femminile l’aveva respirata in quei mesi di lotta. L’uscita dal bozzolo della solitudine di intellettuale l’aveva messa in contatto con le vite precarie di operaie, contadine, maestre, studentesse, casalinghe in una società a misura esclusiva di uomo. La lotta di Liberazione fu per lei, come per altre, l’occasione di misurarsi con la storia. “Le donne intelligenti e colte, che hanno avuto un’educazione e un’esperienza eccezionali, difficilmente capiscono l’istintiva solidarietà delle donne semplici, in quanto donne e madri. Eppure proprio su questa solidarietà e sulla coscienza, risvegliata appena, della loro forza e della loro potenza, pensavo che si potesse fondare un movimento di redenzione, simile ai grandi movimenti che hanno sconvolto il mondo, e capace di cambiare la faccia della terra”.
Il Diario è anche la testimonianza di una madre che segue e, a volte, insegue il figlio diciottenne nella prima scelta di vita. Non c’è divario tra la donna impegnata in imprese di strategia militare, che stila programmi politici o partecipa a riunioni clandestine, e colei che pena perché il suo ragazzo non torna dalle attività sovversive. Le rischiose missioni insieme si trasformano in gite tra madre e figlio, come nella traversata delle Alpi per stabilire collegamenti con gli Alleati, in cui la premura per lui e gli amici è un tratto costante. La cura non è in contrasto con il tratto di combattente. È un dato che va oltre la sfera personale perché la passione per l’umano è la cifra politica di vivere e restituire il tempo di guerra. In questa rottura degli schemi si muove la sua figura di partigiana; una eccentricità votata a fare i conti con il persistere di un patriarcato che avrebbe relegato le donne nel privato, a conflitto finito. L’impegno politico e militare femminile, regolato da codici nuovi e incerti, si sarebbe scontrato con una morale sessuale segnata da codici antichi e saldi. L’entrata nell’agone del mondo conviveva con un atteggiamento protettivo e conservatore. Quando viene scelta a dirigere i Gruppi di difesa della donna, l’organizzazione di partigianato femminile di supporto alla lotta armata, Ada Prospero intuisce da subito il vizio di origine di quella chiamata. Nelle parola “difesa” si nasconde il malinteso di una strada aperta solo a determinate condizioni. “L’organizzazione si chiama «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà». Non mi piace; in primo luogo è troppo lungo; e poi perché «difesa» della donna e «assistenza» ecc.? Non sarebbe più semplice dire «volontarie per la libertà» anche per donne?”.
Il rischio di un ritorno al passato è fiutato fin dalla attività di prima vice sindaca della Torino liberata. La “superiorità indulgente” dei colleghi, il tentativo di normalizzazione politica sono macigni con cui si scontra la volontà di cambiamento. “Confusamente intuivo però che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza – facili da individuare e da odiare –, ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, fuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; non per abbandonarci alla comoda esaltazione d’ideali per tanto tempo vagheggiati, per non accontentarci di parole e di frasi, ma rinnovarci tenendoci «vivi»”. La Resistenza ideale non era finita con il conflitto, anzi. La sfida vera era mantenerla in vita. L’utopia di cambiamento e di liberazione di quei mesi straordinari doveva tradursi in una nuova Italia. Per quella lotta Ada dedicò la vita.